Il furto commesso all’interno dello studio si equipara al furto in abitazione privata
G.B. È stata condannata in entrambi i gradi di merito all’esito del rito abbreviato alla pena ritenuta di giustizia per il delitto di furto perché recatasi nello studio di un odontoiatra si impossessava di un portadocumenti contenente Euro 1.720,00 sottraendolo da un cassetto della scrivania. L’affermazione di responsabilità era fondata sulle testimonianze delle impiegate dello studio professionale B.P., S. B. e M.M., dalle quali emergeva che la G. era rimasta da sola per alcuni minuti nella segreteria e che al momento non vi erano altri clienti nello studio. Con il ricorso per cassazione G.B. Deduceva il vizio di motivazione ed il travisamento della prova perché dalle testimonianze della S. e della M. emergeva che quando la G. uscì dallo studio, entrò un’altra cliente e soltanto dopo quindici minuti la B. si accorse dell’ammanco; cosicchè veniva meno uno dei presupposti per ritenere la responsabilità della G.. La ricorrente deduceva, inoltre, la violazione di legge perché uno studio professionale non poteva farsi rientrare nella previsione di cui all’art. 624 bis c.p.; citava a conforto della sua tesi una decisione della Suprema Corte, ovvero Cass., Sez. 2, 18 maggio 2005, n. 23402). I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da G.B. Non sono fondati. Il primo motivo di impugnazione in verità è ai limiti della ammissibilità perché la ricorrente sembra che voglia ottenere una rivalutazione del materiale probatorio da parte della Corte di legittimità, cosa non consentita dalla legge, dovendo la Suprema Corte soltanto verificare se la valutazione delle prove compiuta dai giudici di merito sia o meno sorretta da una motivazione immune da vizi logici. Ebbene la motivazione del provvedimento impugnato possiede i requisiti per superare il vaglio di legittimità.