IL LAVORO DEL PARTNER VA SEMPRE RETRIBUITO
Non può essere considerato a
titolo gratuito il lavoro del
partner quando esso è configurabile come subordinato. Lo ha stabilito la
Corte di Cassazione con la sentenza numero 19304/2015 emanata pochi giorni fa. Una donna si era
presentata in Tribunale chiedendo che le venissero riconosciuti i compensi per
le prestazioni lavorative da lei svolte per numerosi anni nell’impresa del
partner. Accogliendo il suo ricorso, gli ermellini hanno precisato che «ogni
attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si
presume effettuata a titolo oneroso», tranne nei casi in cui le parti
dimostrino che si è trattato «di un rapporto diverso, istituito affectionis vel
benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione».
In tal caso però le parti sono tenute a fornire «prova rigorosa della finalità di solidarietà e quindi non lucrativa, per una
comunanza di vita e di interessi tra i conviventi che non si esaurisca in un
rapporto meramente affettivo o sessuale, ma dia luogo anche alla
partecipazione, effettiva ed equa, del convivente alla vita e alle risorse
della famiglia, in modo che l’esistenza del vincolo di solidarietà
porti ad escludere la configurabilità di un rapporto a titolo oneroso».
Nel caso in esame era stata invece
accertata l’esistenza di un rapporto di prestazione lavorativa intercorso tra
le parti per oltre sei anni, vale a dire nel corso della relazione affettiva tra i due. La
donna si era rivolta alla Suprema Corte dopo che le precedenti sentenze avevano
stabilito l’insussistenza di un rapporto di subordinazione, giustificando la
pure intensa attività lavorativa prestata con il vincolo di affettività e
solidarietà proprio di una tale relazione. Ora con questa sentenza di Cassazione viene giustamente valutato il lavoro delle tante donne costrette a lavorare “in nero” nelle imprese di famiglia, rasentando talvolta condizioni di autentica schiavitù.