IL NUOVO ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO OBBLIGATORIO EX ART. 445 BIS C.P.C. – PROBLEMI INTERPRETATIVI E DUBBI DI COSTITUZIONALITA’
Dal 1° gennaio di quest’anno, chi intende agire in giudizio per il
riconoscimento dei propri diritti in materia di invalidità civile,
cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione
di inabilità e di assegno di invalidità, deve preventivamente proporre,
ai sensi del nuovo art. 445 bis c.p.c ., dinanzi al tribunale nel cui
circondario risiede, istanza di accertamento tecnico per la verifica
delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere.
L’espletamento di tale “accertamento tecnico preventivo obbligatorio”
costituisce condizione di “procedibilità” della domanda (rilevabile su
istanza di parte o d’ufficio, a pena di decadenza, non oltre la prima
udienza), ma il giudice ove rilevi che lo stesso non è stato espletato
ovvero che è iniziato e non si è concluso, assegna alle parti il termine
di quindici giorni per la presentazione della relativa istanza o per il
relativo completamento. Al procedimento si applica l’articolo 696 bis
c.p.c. (consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della
lite), in quanto compatibile, nonché le disposizioni che regolano
l’accertamento peritale di cui all’art. 195 c.p.c. e all’art. 10 co. 6
bis, del d.l. 30 settembre 2005 n. 203, come convertito dalla l. 2
dicembre 2005 n. 248 (disposizioni, queste ultime, che prevedono la
partecipazione obbligatoria del c.t.p. dell’Ente Previdenziale). Il
giudice, terminate le operazioni di consulenza, con decreto comunicato
alle parti, fissa un termine perentorio non superiore a trenta giorni,
entro il quale le medesime devono dichiarare, con atto scritto
depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del
consulente tecnico dell’ufficio. In assenza di contestazione, il
giudice, se non procede ai sensi dell’articolo 196 c.p.c. (rinnovazione
della c.t.u. o sostituzione del consulente), con decreto pronunciato
fuori udienza entro trenta giorni dalla scadenza del termine previsto
dal comma precedente, omologa l’accertamento del requisito sanitario
secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente
tecnico dell’ufficio, provvedendo sulle spese. Il decreto, non
impugnabile né modificabile, è notificato agli enti competenti, che
provvedono, subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori
requisiti previsti dalla normativa vigente, al pagamento delle relative
prestazioni, entro 120 giorni. Nei casi di mancato accordo la parte che
abbia dichiarato di contestare le conclusioni del consulente tecnico
dell’ufficio deve depositare, presso la cancelleria del giudice di cui
al comma primo, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla
formulazione della dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo
del giudizio, specificando, a pena di inammissibilità, i motivi della
contestazione. La sentenza che definisce il giudizio previsto dal comma
precedente è inappellabile. Questa, la disciplina processuale dettata
dal cit. art. 445 bis c.p.c. Ebbene, a sommesso parere di chi scrive,
tale disciplina presenta notevoli lacune e imperfezioni, che daranno
sicuramente luogo a gravi problemi interpretativi ed applicativi,
soprattutto a causa della sua evidente inidoneità a garantire ai
cittadini che, per loro umana disgrazia, sono portatori di handicap o
affetti gravi patologie invalidanti, efficaci e stingenti strumenti di
tutela dei loro diritti. Già l’intitolazione del nuovo art. 445 bis
c.p.c., “Accertamento tecnico preventivo obbligatorio”, appare
terminologicamente inadeguata a sintetizzare il significato e la portata
processuale delle successive disposizioni dello stesso articolo. E’
noto, difatti, che l’accertamento tecnico preventivo è un mezzo di
istruzione preventiva della causa, che consente, qualora ne ricorra
l’urgenza, di verificare lo stato di luoghi o la qualità e la condizione
di cose, prima della proposizione della domanda di merito, rispetto
alla quale si pone in funzione del tutto strumentale. E’ altresì
risaputo che l’espletamento di una consulenza tecnica preventiva può
essere richiesto anche al di fuori delle condizioni di cui al primo
comma dell’articolo 696 c.p.c. (ossia a prescindere dalla ricorrenza del
requisito dell’urgenza), ma soltanto ai fini dell’accertamento e della
quantificazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta
esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito (c.d.
consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite).
Dunque, il nuovo procedimento assistenziale di cui al cit. art. 445 bis
c.p.c., così come previsto e disciplinato, non può essere considerato né
un mezzo di istruzione preventiva e né, nonostante siano ad esso
applicabili le disposizioni di cui al cit. art. 696 bis c.p.c., un
valido strumento di conciliazione. Difatti, se, da una parte, la sua
obbligatoria utilizzazione, prescindendo dalla sussistenza del requisito
dell’urgenza dell’accertamento ed essendo volta all’ottenimento di un
provvedimento di carattere sostanzialmente decisorio, non è direttamente
finalizzata alla successiva instaurazione di un giudizio di merito,
dall’altra, l’espletamento del preliminare tentativo di conciliazione
che il C.T.U. dovrebbe effettuare prima di sottoporre a visita il
periziando, risulta di scarsa o pressoché nulla utilità pratica, dal
momento il ricorso all’a.t.p. in parola presuppone che l’INPS – tenuto,
peraltro, quale Ente facente parte della P.A. alla rigida osservanza dei
principi di legalità, di imparzialità e trasparenza dell’azione
amministrativa, senza alcun tentennamento di carattere transattivo e/o
conciliativo – abbia già negato, a chiusura della precedente e
necessaria fase amministrativa del procedimento assistenziale e proprio a
seguito del compimento di tutti gli accertamenti sanitari del caso, la
prestazione assistenziale richiesta dall’interessato. Non si capisce,
pertanto, sulla base di quali presupposti ed attraverso quali reciproche
concessioni, l’interessato e l’INPS potrebbero quindi addivenire, prima
dell’espletamento dell’a.t.p. de quo, ad accordi e/o conciliazioni di
sorta. L’accertamento tecnico preventivo in parola viene, poi, definito
dall’art. 445 bis c.p.c. come condizione di “procedibilità” della
domanda. Anche tale definizione, attesa la più blanda conseguenza
ricollegata al mancato espletamento dello stesso a.t.p. (il giudice –
dice l’art. 445 bis c.p.c. – ove rilevi che l’accertamento tecnico
preventivo non è stato espletato ovvero che è iniziato ma non si è
concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la
presentazione dell’istanza di accertamento tecnico ovvero di
completamento dello stesso) rispetto a quelle, molto più gravi,
normalmente ricollegate all’improcedibilità della domanda (si pensi
all’improcedibilità dell’opposizione a d.i. ed al conseguente passaggio
in giudicato del provvedimento monitorio, all’improcedibilità
dell’appello ed alla conseguente perdita del diritto all’impugnazione),
appare inidonea, sotto il profilo terminologico, a sintetizzare le
conseguenze connesse al suo mancato previo esperimento. Trattasi,
quindi, di una improcedibilità sui generis o, meglio, di semplice
improseguibilità della domanda, sanabile nel termine fissato dal
giudice. Nulla è previsto, inoltre, per il caso in cui il ricorrente,
omettendo di proporre l’istanza di a.t.p., abbia agito direttamente in
via ordinaria e, nonostante la concessione del suddetto termine di
sanatoria, non abbia istaurato o abbia instaurato fuori termine lo
stesso a.t.p. Nel silenzio della legge, è da ritenere che, in tal caso,
il giudice non possa che dichiarare la suddetta atipica
“improcedibilità” del ricorso di merito (se con decreto, ordinanza o
sentenza, non è dato però sapere; così come non è dato sapere se il
provvedimento sia o meno impugnabile e con quale rimedio). Macchinosa e
traboccante di inutili termini perentori appare, poi, la fase successiva
alla conclusione delle operazioni peritali, per la quale – come già
detto – è previsto che il giudice debba assegnare alle parti, con
decreto comunicato, un termine non superiore a trenta giorni (laddove,
peraltro, per ovvie esigenze di salvaguardia del diritto di difesa, il
legislatore avrebbe dovuto prevedere anche un termine non inferiore),
entro il quale le medesime devono dichiarare, con atto scritto
depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del
consulente tecnico dell’ufficio, dovendo poi in caso affermativo,
depositare in cancelleria, entro l’ulteriore termine perentorio di
trenta giorni dalla “formulazione” della dichiarazione di dissenso
(dalla data della dichiarazione o dalla data di deposito della stessa?),
il ricorso introduttivo del giudizio, specificando, a pena di
inammissibilità, i motivi della contestazione. Sul punto, difatti, è
innanzitutto da considerare che, in tema di c.t.u., l’art. 195 c.p.c.
(richiamato dallo stesso art. 445 bis c.p.c.) già prevede che il giudice
debba assegnare al consulente, con l’ordinanza di ammissione, un
termine per la comunicazione della relazione alle parti costituite, un
altro termine entro il quale le parti possono trasmettere al consulente
le loro osservazioni sulla relazione e un ulteriore termine, entro il
quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le
osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse. Se,
dunque, le parti già hanno la possibilità di contestare, nei predetti
termini generali di cui al cit. art. 195 c.p.c., le risultanze
dell’accertamento tecnico in parola, che bisogno c’era, allora – si ci
chiede – di prevedere ulteriori termini aggiuntivi? Una possibile
spiegazione, che consentirebbe di eliminare in radice l’inutile
duplicazioni di termini di cui sopra, potrebbe essere quella di ritenere
applicabili al nuovo a.t.p. assistenziale, data la specialità del
relativo procedimento, soltanto i nuovi termini previsti dall’art. 445
bis e non anche quelli generali ex art. art. 195 c.p.c., con conseguente
possibilità, per le parti, di proporre osservazioni scritte (e, quindi,
contestazioni) soltanto dopo il deposito della consulenza e nei termini
successivamente fissati dal giudice. Del tutto inutile sembra, inoltre,
l’assegnazione di un duplice termine perentorio, il primo per la
formulazione di una prima semplice “dichiarazione di dissenso” e, il
secondo, per il successivo deposito del ricorso introduttivo del
giudizio di merito con specificazione dei motivi di contestazione. A
rigor di logica, sarebbe bastato, difatti, un unico termine, magari più
ampio, per il deposito del solo ricorso introduttivo. Notevoli
perplessità suscita, poi, la previsione del comma 6 dell’art. 445 bis
c.p.c., secondo cui il ricorso introduttivo deve contenere, a pena di
inammissibilità, i’indicazione specifica dei motivi di contestazione
della relazione di consulenza. E ciò, beninteso, non per l’obbligo della
parte istante di esporre compiutamente le ragioni di fatto e di diritto
poste a fondamento della domanda di merito (obbligo, invero, già
desumibile dall’art. 414 c.p.c.), quanto per il non meglio definito
potere del giudice di poter dichiarare la “inammissibilità” del ricorso
nel caso in cui ritenga che l’istante non abbia compiutamente adempiuto a
tale suo obbligo. Dalla secca formulazione della previsione
legislativa, sembra, infatti, che il giudice possa dichiarare detta
inammissibilità in via preliminare ed esercitare tale suo potere come
filtro volto ad eliminare i ricorsi che, a suo insindacabile giudizio,
appaiono manifestamente infondati e privi di validi motivi, prescindendo
da ogni ulteriore accertamento e senza dar corso allo svolgimento di un
ordinario processo. Un potere discrezionale così forte, tale da
consentire al giudice di valutare il merito e dunque la fondatezza della
domanda in via preliminare e di inibire lo svolgimento di un regolare
processo, ovvero di stroncare sul nascere il ricorso alla tutela
giurisdizionale ordinaria da parte del cittadino, non si era finora
ancora visto. Non si discute – sia chiaro – del potere del giudice di
decidere nel merito la causa (ci mancherebbe altro!), ma si contesta il
fatto che tale potere possa essere dallo stesso esercitato in via
preliminare, senza processo e senza possibilità di poter impugnare la
relativa decisione. Nulla dice, infatti, il legislatore in ordine a tale
ultima possibilità, né in ordine alla forma del provvedimento di
inammissibilità (ordinanza, decreto o sentenza?), ma pare che lo stesso,
in applicazione dei principi che regolano la materia della forma dei
provvedimenti del giudice, debba essere adottato con ordinanza da
ritenere, al pari degli altri possibili provvedimenti conclusivi del
procedimento, non impugnabile. E siamo così giunti agli aspetti più
problematici e, allo stesso tempo, più preoccupanti sotto il profilo
della tutela dei diritti degli invalidi, del nuovo procedimento
assistenziale, ossia alla disciplina dei provvedimenti conclusivi di
tale procedimento (decreto di omologa dell’accertamento emesso in caso
di non contestazione e sentenza emessa a definizione dell’eventuale
giudizio di merito). Quanto al primo, oltre alla scelta, anche qui poco
felice, di definirlo “decreto” non modificabile ed non impugnabile –
dato che il decreto, come tipo di provvedimento è, per sua stessa
natura, generalmente revocabile e modificabile – va innanzitutto
rimarcato che lo stesso si concreta in un provvedimento ibrido ed del
tutto unico nel suo genere, andandosi a collocare a metà strada tra i
provvedimenti di istruzione preventiva ed i provvedimenti decisori con
efficacia di accertamento. Un provvedimento che, come comunemente si
direbbe, “non è né carne e né pesce”, non risultando immediatamente e
strumentalmente volto ad istruire un successivo giudizio di merito, né
utile ad intraprendere un’eventuale esecuzione forzata. Pare, difatti,
che il decreto de quo non possa costituire titolo esecutivo, sia perché
non espressamente previsto come tale dallo stesso art. 445 bis c.p.c. e
sia perché, involgendo esso soltanto il semplice accertamento di un
requisito sanitario e concretizzandosi, dunque, in una “pronuncia”
sostanzialmente dichiarativa, non potrebbe, in ogni caso, porsi a
fondamento di un’azione esecutiva. Un provvedimento siffatto, dunque, se
paragonato alla sentenza che definisce il giudizio di merito – che è
invece dotata di efficacia esecutiva, contenendo essa, normalmente,
l’accertamento del diritto del ricorrente alla prestazione assistenziale
richiesta e la contestuale condanna dell’Ente Previdenziale al
pagamento dei ratei di pensione arretrati e di quelli a scadere –
risulta assolutamente non idoneo a garantire, sotto il profilo
sostanziale, un’adeguata ed effettiva tutela giurisdizionale dei diritti
dell’invalido. Quest’ultimo, difatti, a seguito del positivo
espletamento dell’a.t.p. in questione, vedrebbe accertato solo il
proprio stato di invalidità, spettando poi all’INPS di verificare la
sussistenza degli altri requisiti di legge necessari all’ottenimento
della prestazione assistenziale richiesta e di provvedere, nei
successivi 120 giorni successivi alla notifica del decreto ed all’esito
di tale verifica, alla erogazione della stessa prestazione, senza
tuttavia che lo stesso Ente Previdenziale possa esservi astretto
esecutivamente. Al fine di conferire efficacia esecutiva al decreto in
questione, si potrebbe tuttavia ipotizzare una sua natura di
provvedimento costitutivo contenente statuizione di condanna c.d.
implicita al pagamento dei ratei di pensione scaduti ed a scadere. La
tesi, però, risulterebbe troppo audace, dal momento che, con il decreto
de quo – come sopra accennato – non si dichiara o costituisce alcun
diritto dell’invalido ad ottenere la prestazione assistenziale, ma si
addiviene soltanto ad un mero accertamento della sola invalidità
necessaria all’ottenimento della stessa prestazione. Efficacia esecutiva
dovrebbe invece riconoscersi, in applicazione della disposizione di cui
al III comma dell’art. 696 c.p.c. (articolo richiamato dall’art. 445
c.p.c. e ritenuto applicabile, in materia di a.t.p. assistenziale, in
quanto compatibile), all’eventuale verbale di conciliazione redatto
preliminarmente allo svolgimento delle operazioni peritali. Tale ultima
ipotesi risulta tuttavia del tutto residuale e di scarso interesse
pratico, stante – come sopra detto – la trascurabile esiguità dei casi
in cui, prima l’espletamento degli accertamenti peritali, l’invalido e
l’INPS potrebbero addivenire ad una conciliazione. Poco felice, inoltre,
è la disposizione che riguarda il regime delle spese dell’a.t.p.
assistenziale. Qui il legislatore dice soltanto che il giudice, con il
decreto di omologazione dell’a.t.p., provvede anche sulle spese.
Ponendole a carico di chi? – si ci domanda. Dell’Ente Previdenziale in
caso di accertamento positivo per l’istante ed a carico di quest’ultimo
in caso contrario e qualora non superi il limite reddituale previsto
dalla legge per l’esenzione dalla relativa condanna? Si applica, dunque,
il principio della soccombenza (anche se, trattandosi di un a.t.p. e
non di una vera e propria pronuncia di merito di carattere decisorio,
risulta alquanto difficile individuare una parte soccombente) o il
giudice conserva ampia discrezionalità nello stabilire chi debba
sopportare le spese del procedimento? Anche con riferimento a tali
ultimi interrogativi, dunque, non risulta possibile, dare una risposta
certa ed univoca. Di sicuro, però, sarebbe stato meglio prevedere
espressamente, per ovvie ragioni di giustizia sostanziale, il dovere del
giudice di porre le spese del procedimento ad esclusivo carico
dell’Ente Previdenziale, in caso di a.t.p. conclusosi favorevolmente per
l’invalido ricorrente. Perplessità ancor più gravi sorgono, infine, in
ordine alla prevista inoppugnabilità dei provvedimenti conclusivi del
procedimento ed alla conseguente compressione del diritto del cittadino
ad una giusta ed effettiva tutela giurisdizionale dei propri diritti in
una materia così delicata, come quella dell’invalidità civile. Come si è
già detto, sia avverso il decreto di omologa dell’a.t.p. e sia,
soprattutto, avverso la sentenza che definisce l’eventuale giudizio di
merito, non è possibile, difatti, proporre alcun mezzo di impugnazione,
ma bisogna sottostare al verdetto del giudice di I grado. Si dirà, al
riguardo, che il legislatore, per garantire la celerità del processo e/o
per far fronte ad altre contingenti esigenze di natura organizzativa,
ben può escludere, in materia civile, la possibilità dell’impugnazione,
siccome il principio del doppio grado di giudizio è da ritenersi – com’è
noto – non solo privo di “copertura” costituzionale (V. ex plurimis
Corte cost. 22 giugno 1963 n. 110; 23 aprile 1965 n. 36; 31 maggio 1965
n. 41; 4 luglio 1977 n. 125; 15 aprile 1981 n. 62; 21 luglio 1983 n.
224; 7 marzo 1984 n. 52; 22 novembre 1985 n. 299; 18 luglio 1986 n. 200;
31 dicembre 1986 n. 301; 26 gennaio 1988 n. 80; 31 marzo 1988 n. 395;
14 dicembre 1989 n. 543; 3 ottobre 1990 n. 433; 23 dicembre 1994 n.
438), ma anche di un completo riconoscimento nel sistema della CEDU,
all’interno del quale è esplicitamente previsto soltanto in materia
penale dall’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 del 22 settembre
1984, mentre in materia civile è unicamente oggetto di una
Raccomandazione del Comitato dei Ministri del 7 febbraio 1995. Senonché,
con la riforma dell’art. 111 Cost. e l’introduzione, nel nostro
ordinamento, del principio del “giusto processo”, probabilmente
destinato ad avere una funzione centrale nell’evoluzione della
giurisprudenza costituzionale, appare oggi lecito dubitare della
costituzionalità di norme di procedura civile che eliminino o non
prevedano il principio del doppio grado di giudizio. Come ritenuto da
autorevole dottrina (Cfr. VIGNERA, ll “giusto processo” nell’art. 111
comma 1 Cost.: Nozione e Funzione, Ambientediritto.it), la nozione di
“giusto processo” ricavabile dal novellato art. 111 Cost., deve
rinvenirsi, infatti, nella previsione di una vera e propria clausola di
carattere generale con funzione di “norma di apertura” del sistema a
nuove garanzie costituzionali della giurisdizione e, dunque, di
“costituzionalizzazione” di qualsiasi altro principio o potere
processuale ritenuto, secondo l’esperienza e la coscienza collettiva,
necessario per un’effettiva e completa tutela delle ragioni delle parti.
Secondo tale condivisibile impostazione, la suddetta clausola generale
dovrebbe quindi rappresentare, per la Corte costituzionale, uno
strumento per “arricchire” la gamma delle garanzie processuali già
esistenti, aggiungendo a quelle “tipiche” (espressamente previste nel
testo costituzionale positivo) ulteriori eventuali altre garanzie
desumibili dai valori di civiltà oggi condivisi dalla collettività o
contemplati dalla Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali o dagli altri Accordi
internazionali in materia. E’ da ritenere, pertanto, che il principio
del doppio grado di giudizio potrebbe ben presto ottenere, proprio
grazie alla portata innovativa di detta clausola generale del “giusto
processo”, la copertura costituzionale sino ad oggi ingiustamente
negatagli in materia civile, in considerazione delle evidenti, profonde e
condivise ragioni di civiltà giuridica cui esso si ispira. Per quanto
appena detto, risulta quindi non manifestamente infondato l’insinuato
dubbio di costituzionalità del nuovo art. 445 bis c.p.c., nella parte in
cui lo stesso esclude l’impugnabiltà del decreto di omologa dell’a.t.p.
(qualora si attribuisca allo stesso portata decisoria) e, soprattutto,
l’appellabilità della sentenza di I grado che definisce il giudizio di
merito. In definitiva, sembra che la nuova disciplina dell’a.t.p. in
materia di invalidità civile vada a collocarsi tra i tanti recenti
tentativi del legislatore di risolvere gli arcinoti problemi della
giustizia civile – che a parere di scrive sono unicamente STRUTTURALI –
attraverso estemporanei ed avventati intereventi normativi, spesso molto
discutibili anche sotto il profilo della tecnica legislativa, che
aboliscono o stravolgono meccanismi o modelli processuali ben congegnati
e largamente collaudati nel tempo (sia sotto il profilo della loro
idoneità funzionale, che sotto l’aspetto garantistico), introducendo, al
loro posto, aberranti forme di giustizia sommaria o alternativa ed
iniqui oneri e spese a carico delle parti istanti. Di tali interventi,
costituiscono esempi lampanti la cd. media-conciliazione, i ripetuti
aumenti del contributo unificato e la previsione dello stesso, oltre
determinati limiti reddituali, in materie dapprima totalmente esenti
(lavoro, previdenza, separazioni e divorzio), l’onere per la parte di
presentare istanza di trattazione per dimostrare il proprio interesse
alla prosecuzione del giudizio di impugnazione, la previsione di
possibili sanzioni a carico della parte che propone istanza
inammissibile o manifestamente infondata di sospensione dell’efficacia
esecutiva della sentenza di primo grado, la dimidiazione del termine
lungo per l’appello ed il ricorso per cassazione, nonché per la
riassunzione del processo in caso di interruzione. Ed in tale aberrante
direzione si ci sta purtroppo ancora muovendo, con il tentativo, allo
studio presso la Commissione Giustizia del Senato, di introdurre la
prova testimoniale a pagamento, da assumere peraltro dinanzi ai
cancellieri, e, addirittura, la motivazione a pagamento della stessa
sentenza civile. Il dichiarato obiettivo di politica legislativa
perseguito con tali interventi normativi è di ridurre l’enorme mole del
contenzioso civile pendente presso tutti gli uffici giudiziari italiani
(nonché quello, malcelato e detestabile, di fare cassa sull’erogazione
di un servizio essenziale, quale quello della giustizia, assolutamente
non garantito come si dovrebbe); il mezzo, odioso e non dichiarato, per
perseguire tale obiettivo è quello di disincentivare il ricorso alla
tutela giurisdizionale, rendendolo sempre più oneroso, tortuoso e
rischioso. Il risultato, non voluto, potrebbe essere, però, quello di
minare alla base le fondamenta dello Stato di diritto, di incrinare la
fiducia che il cittadino deve avere nelle Istituzioni, nella Giustizia e
negli uomini che la amministrano, e di incentivare il ricorso a forme
di “giustizia alternativa” non direttamente garantita dallo Stato. Tutto
ciò – a sommesso parere di chi scrive – potrebbe evitarsi adottando
scelte di politica legislativa del tutto diverse, ossia ponendo in
essere concreti ed efficaci interventi di natura strutturale, volti, ad
esempio: (1) a ridisegnare la geografia degli uffici giudiziari
(delocalizzando gli stessi in base alla domanda di giustizia delle
diverse realtà socio-economiche del Paese e non – come pare si stia
facendo – unicamente per prevalenti ragioni di risparmio economico); (2)
a potenziare gli organici degli uffici giudiziari, provvedendo, ove
necessario, all’assunzione di nuovi magistrati togati e di nuovo
personale ausiliario; (3) a rendere effettiva l’informatizzazione del
processo civile, attraverso la concreta installazione degli strumenti
tecnologici necessari presso gli tutti gli uffici giudiziari ed il
conseguente aggiornamento professionale del relativo personale
ausiliario; (4) ad eliminare, per quanto possibile, le competenze
collegiali e ad utilizzare i magistrati attualmente in servizio soltanto
come giudici unici; (5) a reclutare nuovi magistrati onorari per lo
smaltimento dell’arretrato, avvalendosi soprattutto della collaborazione
e della competenza dell’avvocatura (con salvaguardia, ovviamente, di
ogni garanzia di terzietà ed imparzialità); (6) ad introdurre una
mediazione non obbligatoria, direttamente delegata e controllata dal
giudice, svolta da professionisti competenti ed indipendenti. Le risorse
economiche? Basterebbe aumentare di pochi punti percentuali la quota di
bilancio statale attualmente dedicata al funzionamento della giustizia,
sottraendo, nel contempo, qualche risorsa alle spese militari, ai costi
della politica o a tanti altri meno utili capitoli di spesa.