Il Piano Vesuvio non decolla
Centomila abitanti in meno nel
giro di tre anni, attraverso la concessione di bonus da trentamila euro per chi
fosse disposto a trasferirsi al di fuori della zona rossa, a più alto rischio
vulcanico. Guerra dichiarata all’abusivismo edilizio dilagante. Progetti di
trasformazione produttiva nei diciotto Comuni del comprensorio più vicino al
cratere. Via le industrie pesanti, incentivi crescenti per le imprese (in
particolare per le cooperative giovanili) impegnate nelle attività tradizionali
del turismo ecologico e culturale, della ricerca scientifica, delle produzioni
artigianali. Duecento milioni di fondi, regionali ed europei, per il varo,
nella primavera 2003, di un primo autentico piano di sicurezza per difendersi dal
possibile risveglio del Vesuvio. Tante speranze, riflettori puntati da tutto il
mondo sulle scelte degli amministratori campani. Tutto sfumato. Alla fine il
ritorno delle polemiche, dei veti incrociati, dei campanilismi esasperati e
l’ambiziosa operazione «VesuVia» diventa un libro dei sogni. Una grande
occasione mancata in tema di prevenzione e di corretta gestione del territorio.
Un semplice cambio di legislatura, qualche contrasto fra gli assessori della
rinnovata giunta regionale e tutto precipita ancora una volta nel baratro
dell’indifferenza. Con il peso allucinante dei seicentomila residenti ammassati
intorno alle pendici del vulcano forse più pericoloso del mondo, con la
sospensione delle «prove di fuga», che almeno erano servite per mettere in evidenza
le carenze della rete logistica, autostradale, ferroviaria, portuale, con i
contrasti fra gli amministratori comunali, gli ambientalisti e i rappresentanti
della comunità scientifica, inutilmente impegnata a segnalare l’assurdità di
una situazione che da un momento all’altro potrebbe degenerare in un quadro di
paurosa emergenza per lo stesso capoluogo (tutti d’accordo sull’attuale
condizione di letargo del vulcano, destinato però a svegliarsi prima o poi). Ma
cosa provocò il mancato decollo del piano Vesuvio? «Nei primi mesi l’entusiasmo
fu tanto», ricorda l’allora assessore all’Urbanistica Marco Di Lello,
firmatario del progetto di legge regionale. «Sindaci in prima fila, tranne
qualche eccezione, seimila richieste di esodo incentivato, prime parte delle
famiglie vesuviane verso le nuove case, acquistate nella zone del Sannio e
dell’alto Casertano». Poi improvvisamente le polemiche si accentuarono, i dubbi
aumentarono, i benefici dell’operazione sicurezza si svuotarono, anche perché
capitava che le case liberate, a Portici, San Giorgio o Somma Vesuviana,
piuttosto che essere trasformate in bed and breakfast o laboratori artigianali
(come prevedeva lo spirito della legge) erano rapidamente affittate a nuove
famiglie di residenti. Niente sfoltimento, insomma. Nelle città del vulcano
spontaneamente si è registrata una tendenza all’esodo abitativo, peraltro
lontana dalle quote (almeno centomila partenze) previste dal piano. E non è
stata eliminata, purtroppo, la piaga degli abusi edilizi. Certo è meno facile,
oggi, costruire illegalmente una palazzina, trasformare un garage, allargare
una terrazza o un balcone. Ma lo scempio continua, per la scarsa coscienza
delle comunità locali e le difficoltà operative delle amministrazioni comunali.
Per ora il Vesuvio dorme ancora sonni tranquilli. Se da un momento all’altro
decidesse di uscire dal torpore, però, sarebbero guai per molti in un’area
metropolitana che ha ormai superato i quattro milioni di abitanti.