Importante sentenza della Cassazione sui criteri di accertamento della colpa medica
Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza n. 7997 del 18.4.2005
Svolgimento del processo
B. e C. con atto di citazione notificato il 27 febbraio 1987, convennero, in proprio e quali genitori del minore A. la ASL n. X di D. dinanzi al locale tribunale, esponendo:
– che il figlio minore, affetto da malattia epilettica fin dai primi anni di vita, era sottoposto a trattamento terapeutico presso l’istituto di neuropsichiatria infantile dell’A. – che essi genitori erano soliti, quantomeno a far data dal dicembre del 1983, ricorrere a periodici ricoveri notturni del figliolo, onde consentirgli lo svolgimento di una vita il piu’ possibile normale durante la i giornata, frequentando la scuola e dedicandosi alle ordinarie attivita’;
– che l’11 dicembre 1985 alle ore 7.45 il ragazzo, ricoverato presso l’istituto nella notte precedente, dopo essersi alzato dal letto ed aver percorso il corridoio dell’ospedale, cadeva in preda ad una crisi epilettica, crollando al suolo;
– che, ricondotto a braccia dal personale intervenuto nella sua stanza, veniva sottoposto a terapia antishock sulla base di una diagnosi (poi rivelatasi del tutto erronea) di collasso cardiocircolatorio;
– che soltanto alle ore 13, perdurando lo stato di shock, il minore venne trasferito al centro di rianimazione di altro ospedale, ove gli fu diagnosticata una tetraparesi da trauma midollare cervicale con postumi invalidanti del 100%;
tanto premesso, e sull’assunto che detta invalidita’ fosse conseguenza di specifiche responsabilita’ del personale sanitario dell’ospedale per omessa vigilanza, errata diagnosi e ritardo nell’attuazione di idonea terapia, gli attori chiesero che la convenuta ASL fosse condannata al risarcimento dei danni subiti sia dal minore, sia da essi genitori.
Il tribunale rigetto’ la domanda ritenendo non compiutamente assolto all’onere probatorio, gravante sull’attore istante per il risarcimento del danno, circa la sussistenza del nesso causale tra la condotta del personale sanitario e l’insorgenza o l’aggravamento della lesione midollare sofferta dal minore, e con la stessa motivazione la Corte dell’Aquila confermera’ la sentenza di primo grado, rigettando cosi’ l’appello dei coniugi B. e C. che ricorrono oggi per la cassazione di tale pronuncia con ricorso affidato a tre motivi di doglianza.
Resiste con controricorso la Asl di D. I ricorrenti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Il ricorso e’ fondato e va, pertanto, accolto.
Alla decisione del caso di specie pare opportuno premettere una sintetica analisi della categoria giuridica del nesso causale (e, in parte qua, della colpa medica), onde pervenire – senza alcuna pretesa di completezza o di esaustivita’ di una ricognizione concettuale che affronti uno dei piu’ antichi ossimori dell’intero ordinamento penale e civile – ad accettabili conclusioni in punto di diritto circa la predicabilita’ della sua sussistenza nel caso di specie.
Prima, significativa (ed inquietante) rilevazione ermeneutica e’ quella per cui nulla di definito emerge dalle fonti legislative, penali e civili, sul tema della causalita’ in se’ considerata (l’art. 40 del codice penale fissa l’equivalenza fra il non fare ed il cagionare; il successivo art. 41 si occupa, con apparente salto logico, “dell’interruzione del nesso causale” senza punto definirne la portata concettuale, l’art. 2043 del codice civile descrive il rapporto tra fatto doloso o colposo e danno in termini di “cagionare”, senza ulteriori specificazioni). Cosi’, la dottrina, nel tempo, elabora un numero imprecisato di teorie sull’argomento, complessivamente riducibili ad una restricted area costituita da cinque “macrogruppi” (condicio sine qua non; causalita’ adeguata;
prevedibilita’ dell’evento; scopo della norma violata; signoria dell’uomo sul fatto, quest’ultima di derivazione prettamente tedesca). La giurisprudenza civile, a sua volta, pur non senza oscillazioni (dettate non di rado dagli “umori” dei periodi storici attraversati), si attestera’ in prevalenza sulla linea di principio secondo cui tutti gli antecedenti causali in mancanza dei quali non si sarebbe verificato l’evento lesivo assumono rilievo eziologico, abbiano essi agito in via diretta o soltanto mediata, salvo il temperamento normativo della “causa prossima da sola sufficiente a produrre l’evento”. Non mancano pronunce che, con lo sguardo rivolto al concetto di giudizio probabilistico ex ante, sposeranno tout court la teoria della causalita’ adeguata, aggiungendovi il consueto limite del caso fortuito inteso come vis maior (ovvero, meno esattamente, come mancanza di riprovevolezza del comportamento) ed esteso anche al fatto del terzo o della vittima dell’illecito, a condizione che il responsabile stesso non avesse l’obbligo di impedire l’evento (in questi sensi registrandosi, nella sostanza, un considerevole avvicinamento alla dottrina tedesca della signoria del fatto).
In realta’, quello del nesso causale, problema ermeneutico pressoche’ insolubile sul piano della dogmatica giuridica pura, pare destinato inevitabilmente a risolversi entro i (piu’ pragmatici) confini di una dimensione “storica”, o, se si vuole, di politica del diritto, che, come si e’ da piu’ parti osservato, di volta in volta individuera’ i termini dell’astratta prevedibilita’ delle conseguenze dannose delle proprie azioni in capo all’agente secondo un principio guida che potrebbe essere formulato, all’incirca, in termini di rispondenza, da parte dell’autore del fatto illecito, delle conseguenze che “normalmente” discendono dal suo atto, a meno che non sia intervenuto un nuovo fatto rispetto al quale egli non ha il dovere o la possibilita’ di agire (la c.d. teoria della regolarita’ causale e del novus actus interveniens): cosi’, osserva la piu’ attenta e recente dottrina, il nesso causale diviene la misura del dovere posto a carico dell’agente da ricostruirsi sulla base dello scopo della norma violata, di quel dovere di avvedutezza comportamentale (o, se si vuole, di previsione e prevenzione, attesa la funzione – anche – preventiva della responsabilita’ civile) che si estende sino alla previsione delle conseguenze a loro volta normalmente ipotizzabili in mancanza di tale avvedutezza. L’assunto, apparentemente meritevole di incondizionata condivisione, postula, peraltro, una ineludibile quanto fondamentale precisazione: troppo spesso l’evoluzione del concetto di colpa, segnatamente in tema di responsabilita’ professionale, e l’enucleazione via via piu’ frequente di una concezione “soggettiva” della colpa medesima, segnata sempre piu’ dall’individuazione di c.d. “standards” generali di comportamento, ha finito per ingenerare una (forse) inconsapevole (ma non per questo piu’ accettabile) confusione/sovrapposizione tra l’indagine sul nesso causale e quella sull’elemento soggettivo dell’illecito (la colpa, appunto), dovendo, per converso, le due categorie giuridiche attestarsi su piani morfologicamente distinti, poiche’ la colpa, anche intesa come giudizio relazionale “oggettivato”, e’ pur sempre misura dell’avvedutezza dell’agente nel porre in essere il comportamento in ipotesi illecito, e’ pur sempre “valutazione” di un “comportamento”, valutazione, dunque, inscritta tout court all’interno della relativa dimensione soggettiva, mentre il nesso causale, al di la’ e prima di qualsivoglia analisi di prevedibilita’/evitabilita’ soggettiva, e’, puramente e semplicemente, la relazione esterna intercorrente tra comportamento ed evento, svincolata da qualsivoglia giudizio di prevedibilita’ soggettiva: la rigorosa oggettivazione del concetto di eziologia dell’evento consente di tenere irrinunciabilmente distinti i due piani di analisi strutturale dell’illecito, fungendo la colpa come limite alla oggettiva predicabilita’ della responsabilita’ una volta accertata la relazione causale tra la condotta e l’evento. Specie nella giurisprudenza penale dell’ultimo ventennio si e’ assistito, invece, ad un inquietante avvicinamento dei due concetti (particolarmente significativa in tal senso, la pronuncia di cui a Cass. pen. 371/1992 – il celebre caso Silvestri -, secondo cui sussisterebbe il rapporto di causalita’ tra condotta ed evento lesivo, ove il sanitario ometta di intervenire o intervenga scorrettamente, qualora il corretto e tempestivo intervento avrebbe avuto una anche scarsa probabilita’ di successo: nella specie, si trattava di morte del paziente evitabile con probabilita’ non superiore al 30%: traspare in tutta la sua pericolosita’ il – moralmente lodevole, ma giuridicamente inaccettabile – tentativo di procedere ad una sorta di compensatio culpae cum causae, mentre, con la sentenza 6.11.1990, la stessa cassazione penale aveva gia’ inaugurato il filone causalistico secondo cui, adottato in ‘ limine il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, un antecedente puo’ essere configurato come condizione necessaria solo a patto che esso rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validita’ scientifica – la cosiddetta legge generale di copertura – portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto).
Anche in tema di nesso causale, e lungo un sentiero speculare a quello seguito in tema di colpa, si assiste dunque al tendenziale approdo, da una posizione originariamente attestata su postulati di necessaria certezza della correlazione condotta-evento, verso le meno solide (ma non per questo meno necessario) sponde del giudizio probabilistico, in campo medico specie in ordine alla prognosi, alla terapia ed all’intervento, cosi’ che, quando il rapporto della malattia con l’agente patogeno si presenta in termini di assoluta o estrema probabilita’, la prova del nesso causale si ritiene addirittura in re ipsa. Il concetto di probabilita’ viene ancora inteso, peraltro, dalla maggioritaria giurisprudenza giuspenalistica, non secondo la c.d. teoria frequenzialista, ma in ossequio alla regola aristotelica per cui “probabile” e’ quanto avviene “nella maggior parte dei casi”, mentre gia’ da tempo si andava osservando, in dottrina, come fosse preferibile adottare, in tema di nesso causale, il concetto epistemologico-logicista di probabilita’, secondo cui quest’ultima consiste nel grado di credenza razionale nel verificarsi di un evento, – atteso che la statistica mal si attaglia all’analisi di accadimenti individuali, che postulano un apprezzamento logico di tutte le circostanze del caso concreto, con particolare riferimento alle “circostanze differenziali” rispetto alla situazione astratta cui si riferisce in dato statistico. La specificazione concreta del concetto di probabilita’ rilevante ha incontrato, in seno al processo penale, varie formulazioni nella giurisprudenza di legittimita’ e di merito: tra le piu’ efficaci e significative, quelle di “serio e ragionevole criterio di probabilita’ scientifica” (Cass. 30.4.1993), ovvero di “adozione dei criteri oggettivi di prevedibilita’ ed evitabilita’, assenza di fattori eccezionali non dominabili dal soggetto agente” (Pret. Verona 9.6.1994, Ferrari), moderna applicazione, quest’ultima, della teoria condizionalistica aggiornata secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, premessa la necessaria distinzione, peraltro, tra condotta colposa commissiva, in cui il nesso causale va provato con certezza, e condotta colposa omissiva, che postula pur sempre il ricorso ad un giudizio probabilistico ex ante. La sentenza 30328/2002 delle SSUU penali, come noto, ha riportato, quanto alla fattispecie del c.d. “reato colposo omissivo improprio” il nesso causale al concetto di “alta probabilita’ logica”, non ritenendo piu’ sufficiente il solo coefficiente di probabilita’ statistica, ma postulando l’indefettibile concorso di un “elevato grado di credibilita’ razionale”, di talche’ “l’insufficienza, la contraddittorieta’, l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, cioe’ il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio”: le sezioni unite, risolvendo con tale pronuncia l’ormai radicato contrasto giurisprudenziale in subiecta materia, privilegiano, cosi, la scelta di un percorso cognitivo articolato in due fasi onde verificare il rapporto causale tra omissione ed evento, sicche’, da un canto, il giudice e’ chiamato ad accertare il coefficiente di probabilita’ statistica di verificazione dell’evento secondo lo schema logico del giudizio controfattuale, dall’altro a predicare l’esistenza del nesso eziologico sulla base di tale risultato (espresso dalla legge statistica), ma ricorrendo poi (anche) ai criteri mai obsoleti della logica aristotelica, poiche’ il nesso di condizionamento “dovra’ invero sussistere nel caso concreto, in base alle circostanze del fatto ed alle risultanze probatorie, con ulteriore valutazione dell’eventuale incidenza di fattori alternativi interferenti”.
La giurisprudenza civile di questa Corte ha, a sua volta, seguito un percorso ermeneutico (forse non sempre omogeneo) funzionale alla ricostruzione dei caratteri essenziali del nesso causale che si e’, il piu’ delle volte, dipanato secondo modelli apparentemente ispirati alla teoria della causalita’ adeguata (“con riguardo alla sussistenza del nesso di causalita’ fra lesione personale ed un intervento chirurgico, al fine dell’accertamento di eventuali responsabilita’ risarcitorie dell’autore dell’intervento, ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalita’ non puo’ essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relativita’, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilita’ scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti”), per giungere non di rado a sostenere (predicando principi non lontani da quelli cardine della teoria della condicio sine qua non), che, “in tema di nesso di causalita” ex art. 1223 cod. civ., che tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota, salvo il temperamento di cui all’art. 41, secondo comma, cod. pen., secondo cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l’evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni; di guisa che, per escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in mancanza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe ugualmente verificato senza quell’antecedente” (cosi’, in particolare, Cass. 12103 del 2000, sulla scia di Cass. 3609 e 7467 del 1984), ovvero ancora che individuazione del rapporto di causalita’ tra evento e l’ultimo fattore di una serie causale non esclude la rilevanza di quelli anteriori, che abbiano avuto come effetto di determinare la situazione su cui il successivo e’ venuto ad innestarsi, il limite alla configurazione del rapporto di causalita’ tra antecedente ed evento essendo rappresentato solo dalla idoneita’ della causa successiva ad essere valutata, per la sua eccezionalita’ rispetto al decorso causale innescato dal fattore remoto, come causa sufficiente ed unica del danno. (Nella specie, la S.C. ha riconosciuto immune da censure la valutazione di sussistenza del nesso di causalita’ tra l’evento epatite da trasfusioni e un incidente stradale nel quale le lesioni prodotte avevano richiesto di eseguire sull’infortunato un intervento chirurgico, nel quale si era appunto fatto ricorso alle trasfusioni), di talche’ “in virtu’ del principio di regolarita’ causale, tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un determinato evento dannoso non si sarebbe verificato debbono ritenersi causa del medesimo, salvo che non si accerti, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, cod. pen., applicabile anche nel giudizio civile, che la causa prossima sia stata da sola idonea a produrla; accertato il concorso delle cause nella produzione dell’evento, la graduazione delle responsabilita’ ai fini del risarcimento dei danni deve essere effettuata avendo esclusivamente riguardo al loro grado di incidenza eziologia ed alla gravita’ della colpa di ciascuno dei concorrenti (Nella specie, concernente un incidente stradale occorso tra due autoveicoli i cui conducenti, rispettivamente, procedevano a velocita’ elevata in un centro abitato e non rispettavano l’obbligo di precedenza, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che aveva, dando rilievo assorbente al profilo – in se’ – della priorita’ temporale della relativa violazione, ritenuto il secondo conducente responsabile dei danni nella misura del 75% in quanto, violando l’obbligo di precedenza, avrebbe trasformato la condotta colposa del primo conducente da meramente potenziale a concretamente idonea a provocare il sinistro).
Di recente, questa stessa sezione, con la sentenza n. 4400 del 2004, ha ricostruito funditus gli stessi aspetti strutturali della responsabilita’ medica riaffermando, in premessa, come, secondo la propria, costante giurisprudenza, le relative obbligazioni siano, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non al suo conseguimento (sicche’ “il danno derivante da eventuali sue omissioni in tanto e’ ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito secondo un’indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, e non censurabile in sede di legittimita’ se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici: Cass. 26/02/2002, n. 2836; Cass. 10/09/1999, n. 9617; Cass. 10/09/1999, n. 9617)”, e rilevando a sua volta che, al criterio della certezza degli effetti della condotta si possa senz’altro sostituire, nella ricerca del nesso di causalita’ tra la condotta del professionista e l’evento dannoso, quello della probabilita’ di tali effetti e dell’idoneita’ della condotta a produrli. “Il rapporto causale sussiste, dunque, anche quando l’opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto non gia’ la certezza, bensi’ serie ed apprezzabili possibilita’ di successo (Cass. 6 febbraio 1998, n. 1286)”.
Anche nella parte motiva di tale sentenza si evidenzia come l’evoluzione giurisprudenziale in tema d’individuazione del nesso di causalita’ tra inadempimento della prestazione dedotta in contratto e danno – pur con qualche non condivisibile ritorno alla “certezza morale” (Cass. 28.4.94 n. 4044), o qualche esitazione tra “ragionevole certezza” e “ragionevole previsione” (Cass. 27.1.99 n. 722) – postuli l’esigenza di superamento della concezione tradizionale, dal criterio della certezza degli effetti della condotta omessa a quello della probabilita’ di essi e dell’idoneita’ della stessa a produrli ove posta in essere; criterio per il quale il rapporto causale puo’ e deve essere riconosciuto anche quando si possa fondatamente ritenere che l’adempimento dell’obbligazione, correttamente e tempestivamente intervenuto avrebbe influito sulla situazione, connessa al rapporto, del creditore della prestazione in guisa che la realizzazione dell’interesse perseguito con il contratto si sarebbe presentata in termini non necessariamente d’assoluta certezza ma anche solo di ragionevole probabilita’, non essendo dato esprimere, in relazione ad un evento esterno gia’ verificatosi, oppure ormai non piu’ suscettibile di verificarsi, “certezze” di sorta, nemmeno di segno “morale”, ma solo semplici probabilita’ d’un eventuale diversa evoluzione della situazione stessa (criterio desumibile, con gli adattamenti logici resi necessari dalle diverse situazioni di fatto considerate, dalle pronunce di cui a Cass. 21.1.2000 n. 632, cass. 6.2.1998 n. 1286, Cass. 18.4.1997 n. 3362, Cass. 5.6.1996 n. 5264 Cass. 11.11.1993 n. 11287).
La ricognizione (necessariamente parziale ed incompleta) del complessivo panorama normativo, dottrinario e giurisprudenziale in tema di nesso causale comporta, a questo punto, la necessita’ di predicare alcune premesse di principio (con tutti i limiti che tale operazione comporta), secondo le quali:
– il nesso di causalita’ e’ elemento strutturale dell’illecito, che corre – su di un piano strettamente oggettivo, e secondo una ricostruzione di tipo sillogistico – tra un comportamento (dell’autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora qualificabile come damnum iniuria datum), e l’evento dannoso;
– nell’individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilita’, tanto soggettiva quanto “oggettivata”, da parte dell’autore del fatto, essendo il concetto di previsione insito nella fattispecie della colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo dell’illecito, motivo di analisi collocato in un momento successivo della ricostruzione della fattispecie);
– il nesso di causalita’ materiale tra condotta ed evento e’ quello per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o anche soltanto contribuito a generare tale, obbiettiva relazione col fatto, deve considerarsi “causa” dell’evento stesso;
– il nesso di causalita’ giuridica, e’ quello per cui i fatti sopravvenuti, idonei di per se’ soli a determinare l’evento, interrompono il nesso col fatto di tutti gli antecedenti causali precedenti;
– la valutazione dal nesso di causalita’ giuridica, tanto sotto il profilo della dipendenza dell’evento dai suoi antecedenti fattuali, sia sotto quello della individuazione del “novus factus interveniens”, si compie secondo criteri: a) di probabilita’ scientifica, se esaustivi, b) di logica aristotelica, se appare non praticabile o insufficiente il ricorso a leggi scientifiche di copertura, con l’ulteriore precisazione che, nell’illecito omissivo, l’analisi morfologica della fattispecie segue un percorso “speculare”, quanto al profilo probabilistico, rispetto a quello commissivo, dovendosi, in altri termini, accertare il collegamento evento-comportamento omissivo in termini di probabilita’ inversa, per inferire che l’incidenza del comportamento omesso e’ in relazione non probabilistica con l’evento stesso (che si sarebbe probabilmente avverato anche se il comportamento fosse stato attuato), a prescindere, ancora una volta, da ogni profilo di colpa intesa nel senso di mancata previsione dell’evento e di inosservanza di precauzioni doverose da parte dell’agente: cosi’, a titolo esemplificativo: 1) la morte caratterizzata da sintomatologia da avvelenamento e l’ingestione di diossina da parte del defunto sono vicende legate da un nesso causale predicabile sulla (sola) base di leggi di tipo chimico-scientifico; 2) la morte da infezione tetanica del paziente operato per discopatia sara’, viceversa, causalmente collegata all’erronea diagnosi dell’infezione stessa e all’omesso intervento terapeutico-farmacologico nella misura in cui, al momento dell’insorgere dell’infezione, risulti probabile, ancora secondo regole scientifiche, che diagnosi e cura avrebbero potuto scongiurare l’esito letale se tempestivamente realizzate (risulti, cioe’, specularmente improbabile, anche se possibile, che l’omissione sia stata causa dell’evento), sicche’ la risposta negativa a tale, primo quesito (scarse possibilita’ di elidere la conseguenza dannosa del fatto/probabilita’ che esso si sarebbe ugualmente verificato) si pone come ostativa ad ogni ulteriore valutazione degli aspetti soggettivi del comportamento, quantunque predicabili in termini di gravissima negligenza (ostativa, dunque, come gia’ si e’ avuto modo di osservare in precedenza, ad una impredicabile compensatici inter culpam et causam; 3) la mancata, opportuna sorveglianza di un paziente ricoverato per un night-hospital perche’ soggetto a crisi di epilessia (ricovero ovviamente funzionale allo scopo di prevenire tali crisi, o di impedirne piu’ gravi conseguenze) e’, secondo un criterio logico-aristotelico (mancando, in questo caso, una “legge scientifica di copertura”), causa probabile di eventuali lesioni che quegli si procuri se assalito da una crisi improvvisa;
– il positivo accertamento del nesso di causalita’, che deve formare oggetto di prova da parte del danneggiato, consente il passaggio, logicamente e cronologicamente conseguente, alla valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito, e cioe’ della sussistenza o meno della colpa dell’agente (a tacere, ovviamente, del dolo), che, pur in presenza di un nesso causale accertato, ben potrebbe essere esclusa secondi i criteri (storicamente “elastici”) di prevedibilita’ ed evitabilita’ del danno: criteri si ripete, che sono tutti iscritti entro l’orbita dell’elemento soggettivo dell’illecito, e che postulano il positivo, oggettivo accertamento del preesistente nesso causale, elemento dell’illecito al quale non e’, pertanto, consentito collegare alcuna inferenza di colpevolezza/incolpevolezza, attenendo tale aspetto al successivo momento di valutazione dell’elemento soggettivo: se, in altri termini, il comportamento del sanitario e’ astrattamente configurabile in termini di gravissima negligenza, ma il paziente muore (illico et immediate, e prima che la negligenza possa spiegare i suoi effetti causali sull’evoluzione del male) per altra patologia, del tutto (“probabilmente”) indipendente dal comportamento del sanitario, l’indagine sulla colpevolezza di questi e’ preclusa dalla interruzione del nesso causale tra il suo comportamento (omissivo o erroneamente commissivo) e l’evento;
– criteri funzionali all’accertamento della, colpa medica, la prova della cui assenza grava, quantomeno in ipotesi di colpa ex contractu, sul professionista, sono, sintetizzando all’estremo il quadro che complessivamente emerge dallo screening giurisprudenziale di legittimita’ e di merito degli ultimi anni sono quelli che indagano:
1) sulla natura, facile o non facile, dell’intervento del professionista; 2) sul peggioramento o meno delle condizioni del paziente; 3) sulla graduazione della colpa di volta in volta richiesta (lieve, nonche’ presunta, se in presenza di operazioni di routine o dai protocolli ben codificati; grave, se relativa ad operazione che trascende la preparazione media ovvero non sufficientemente studiata o sperimentata, con l’ulteriore limite della particolare diligenza richiesta in questo caso, e dell’elevato tasso di specializzazione nel ramo imposto al sanitario); 4) Sul corretto adempimento dell’onere di informazione e sull’esistenza del conseguente consenso del paziente (di talche’, in quei pochi casi in cui l’art. 2236 del c.c. e’ stato realmente applicato nella sua portata limitativa della responsabilita’, la valutazione della non gravita’ della colpa risulta implicitamente contenuta nel giudizio espresso sulla natura dell’intervento, mentre la regola inversa, elaborata per la prima volta da Cass. pen. 6141/1978, della facilita’ dell’intervento e del risulta peggiorativo come presunzione di colpa “tout court”, e’ il primo passo verso la sostanziale trasformazione dell’obbligazione del professionista da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato); 5) sulla regolare e completa tenuta della cartella clinica.
Sulla base di tali premesse, questa Corte ritiene complessivamente fondate, in parte qua, le doglianze di violazione di legge e di omessa, contraddittoria, illogica motivazione mosse dal ricorrente alla sentenza della Corte dell’Aquila con i tre motivi dell’impugnazione.
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 2176 comma secondo e, e”, specificando come la pretesa risarcitoria avanzata fin dal primo grado del giudizio riposasse “su due” (in realta’ tre) “diversi, concorrenti profili di responsabilita’ colposa addebitabile al personale sanitario (infermieristico e medico) dell’ospedale abruzzese”, sub specie:
1) dell’omessa sorveglianza e vigilanza continua (nonche’ adeguata al disturbo del paziente) nei confronti del giovane (…) omissione cui andava eziologicamente connesso l’evento dannoso;
2) dell’erroneita’ del “primo soccorso” prestato al paziente;
3) dell’erroneita’ del trattamento terapeutico prescelto a causa un’errata diagnosi del tipo di danno fisico subito.
Il motivo, sviluppato, peraltro, soltanto in relazione al primo dei tre profili di doglianza sopra rappresentati, e’ fondato per quanto di ragione. La motivazione adottata dalla Corte d’appello sul punto dell’asserita, omessa sorveglianza da parte del personale medico e paramedico, da esercitarsi, a detta del ricorrente, “in modo continuativo ed adeguato” – atteso la natura del disturbo del paziente ed il tipo di ricovero prescelto proprio in relazione alla peculiare patologia da cui il giovane risultava affetto – appare, da un canto, insufficiente, dall’altro contraddittoria: dopo aver (correttamente) evidenziato che il ricovero dell'(…) affetto da epilessia, era di tipo night hospital (e cioe’ temporaneo e funzionale ad assicurargli una modalita’ di vita “normale” durante la giornata), la Corte poi omette del tutto di considerare, come correttamente evidenziato dal ricorrente, che proprio tale scelta comportava, da parte dei genitori, una (tanto implicita quanto) incontestabile “domanda di controllo” da parte alla struttura (salva totale inutilita’ del ricovero stesso), cosi’ che la conclusione, in punto di diritto, di sostanziale “non rimproverabilà” di alcuna omissione colposa al personale sanitario sotto il profilo della mancata sorveglianza del paziente e’ affetta da grave vizio logico, poiche’ viene (del tutto arbitrariamente) ad identificare nella costante immobilizzazione dell'(…) l’unico comportamento positivo alternativo alla sua “non” sorveglianza. La corte di merito omette cosi’ tout court ogni indagine (pur doverosa) sul nesso causale tra l’evento tanto prossimo quanto remoto (crisi epilettica/tetraparesi) e la condotta, (nella specie, omissiva) dell’agente, indagine che, come si e’ sottolineato in precedenza, andava premessa, e non posposta o addirittura omessa, rispetto a quella sui profili soggettivi di colpa. Il preliminare accertamento dell’esistenza o meno del nesso eziologico (innegabile, nella specie, alla luce delle circostanze evidenziate dalla stessa Corte di merito nella parte espositiva della sentenza oggi impugnata, atteso che proprio dalla omessa sorveglianza – ed a prescindere dai profili di colpa – derivo’ il deambulare solitario del fanciullo dal suo letto sino al corridoio dell’ospedale dove, colto da crisi epilettica, egli rovino’ al suolo, sicche’ la serie causale omesso controllo/deambulazione solitaria dal letto al corridoio/crisi comziale/caduta al suolo/lesioni appare, sul piano rigorosamente oggettivo, del tutto “normale” e non interrotta da alcun novus actus interveniens) postulava poi il conseguente, successivo accertamento di eventuali profili di colpa della lamentata omissione da parte dei resistenti. Accertamento da condurre, peraltro (differentemente da quanto compiuto dalla Corte abruzzese, che e’ pertanto incorsa, in parte qua, in un’ulteriore errore di diritto), nel rispetto delle ordinarie regole di riparto dell’onere della prova in tema di responsabilita’ contrattuale, che vedono il creditore tenuto alla dimostrazione del nesso causale, mentre grava sul debitore il simmetrico onere di provare l’assenza, di colpa, (sul tema della natura contrattuale della responsabilita’ del personale dipendente da strutture sanitarie pubbliche, il collegio ritiene di prestare adesione a quanto gia’ affermato da questa stessa sezione, con la sentenza 589/1999, che ricostruisce la fattispecie in termini di responsabilita’ da “contatto sociale”). Quanto, in particolare, all’affermazione secondo cui “l’unico comportamento positivo al quale e’ possibile rapportare un’omissione e’ quello inerente l’obbligo del pronto intervento nel caso di crisi comiziale, ed un tale intervento positivo e’ stato certamente tenuto dal personale sanitario dell’istituto” (pp. 6 ss. della sentenza), il giudice d’appello omette, in realta’, di considerare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della responsabilita’ di una U.S.L. per lesioni riportate per omissione di vigilanza da un paziente durante il ricovero ospedaliero, e’ irrilevante il carattere volontario ed obbligatorio del trattamento sanitario praticato in concreto, non potendo quest’ultimo condizionare l’obbligo di sorveglianza da parte del medico e del personale sanitario, basato sulla stessa diagnosi del sanitaria sulle precise prescrizioni affidate al personale infermieristico e sulla loro mancata osservanza (Cass. 10.11.1997, n. 11038, citata anche dal ricorrente): il principio di diritto, pur applicato a diversa fattispecie (riguardante un caso di invalidita’ riportata in conseguenza di un tentativo di suicidio, in assenza di personale ospedaliero, da una paziente ricoverata per malattia mentale con la consegna di continua sorveglianza) postula, peraltro, in linee generali una analisi puntuale ed approfondita (del tutto pretermessa dal giudice di merito) in ordine alle modalita’ di sorveglianza di pazienti che possano, con alto grado di probabilita’ porre in essere comportamenti autolesionistici o comunque imprevedibili, tali, in ogni caso, da legittimare, se non il sacrificio della liberta’ di movimento dei medesimi quantomeno modalita’ di sorveglianza appropriate secondo una ragionevole prognosi ex ante. La Corte abruzzese, per converso, si astiene da ogni (pur doverosa) indagine relativa al lasso temporale antecedente all’insorgere della crisi epilettica, ne’ si sofferma a valutare le prove (nella specie non fornite) dal personale paramedico circa le misure di sorveglianza comunque adottate in corso di ricovero, ovvero circa il momento dell’ultimo controllo del paziente con riferimento alla fase immediatamente precedente all’evento (integrando gli estremi dell’evidente errore logico ipotizzare, attesa la natura stessa del ricovero, che tali misure potessero legittimamente consistere semplicemente nel lasciar dormire il ragazzo nel suo letto, nel consentirgli di alzarsi e percorrere dal solo il corridoio dell’ospedale e nell’intervenire soltanto a seguito dell’ormai insorta crisi epilettica, tutto cio’ ben potendo verificarsi presso l’abitazione del paziente, senza necessita’ di ricorrere al ricovero ospedaliero). Appartiene non solo alla scienza medica, ma alle cognizioni di comune esperienza (le c.d. Erfahrungssaetze della giurisprudenza tedesca) la consapevolezza che l’epilettico in preda a crisi comiziale, se non adeguatamente assistito, crolla al suolo in modo incontrollato,con i conseguenti rischi di lesioni di vario genere e gravita’, di talche’ la sentenza di merito si appalesa, sull’argomento, ancora una volta gravemente lacunosa, in quanto la predicata di assenza di colpa del personale, anziche’ enucleata da concreti elementi probatori prodotti dal preteso responsabile (frequenza dei controlli, protocolli applicabili in casi consimili, orario dell’ultimo controllo, eventuali medicinali somministrati), si fonda su di una semplicistica quanto apodittica ed indimostrata affermazione secondo la quale “il controllo non poteva estrinsecarsi attraverso mezzi di coercizione fisica”, in palese violazione della norma di cui all’art. 1176 comma 2 c.c. che impone, come e’ noto, nell’esercizio di un’attivita’ professionale, la “diligenza da esercitarsi con riguardo alla natura dell’attivita’ esercitata”, natura dell’attivita’ che va ovviamente coniugata, nella valutazione del comportamento dell’agente in campo medico e paramedico, con le peculiari caratteristiche dei casi clinici trattati.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, sostenendo che la sentenza gravata presta il fianco a piu’ di una censura, sul piano della legittimita’, quanto agli ulteriori profili di responsabilita’, sub specie:
a) della condotta negligente ed imperita del personale sanitario che si trovo’ ad intervenire e ad operare sull’A. nell’immediatezza dell’incidente e nelle ore immediatamente successive, condotta qualificabile in termini di indubitabile colpa;
b) della (ulteriore) rilevanza eziologica di tale condotta nella verificazione dell’evento lesivo finale (la tetraparesi irreversibile).
Anche tale motivo (che ripete, nella sostanza, questa volta sviluppandole, le doglianze di cui ai punti 2 e 3 del primo motivo di ricorso) risulta fondato, per quanto di ragione.
La Corte d’appello, premesso di condividere l’impostazione adottata dal giudice di primo grado, secondo la quale la responsabilita’ del personale andava esclusa, attesa la valutazione “puramente probabilistica del ruolo peggiorativo che il successivo trasporto avrebbe avuto nel decorso della malattia”, precisa, a sua volta, essere “dubbio” se la lesione midollare fosse stata, “1) immediata e completa; 2) parziale, e completatasi nelle ore successive per il persistere dello schiacciamento del midollo da parte della vertebra sublussata con conseguente lesione ischemica progressiva fino alla irreparabilita’; 3) conseguenza ingravescente di un aggravamento della lesione primitiva per iniziali o successive manovre incongrue del personale sanitario” (p. 12-13 della sentenza d’appello). Sul punto, il secondo consulente nominato dal tribunale affermera’ (pp. 27 ss. della CTU, testualmente riportata in sentenza), con riguardo alle circostanze del trasporto e dell’allettamento, che “non puo’ non rilevarsi, nella deposizione degli infermieri e della caposala, che non viene fornita alcuna spiegazione circa la posizione iniziale del paziente, che era caduto in avanti, e quindi circa le modalita’ con cui egli e’ stato rivoltato nella posizione supina. Pertanto non puo’ negarsi che questo soccorso, in carenza di sospetti di una lesione cervicale, possa avere avuto un ruolo di concorso quantomeno nel momento di passaggio del leso dalla posizione prona a quella supina, non descritta nelle testimonianze. Queste considerazioni hanno il valore di far attribuire una rilevanza, probabilistica al ruolo peggiorativo che il trasporto del paziente puo’ aver avuto nel decorso della malattia”. Il giudice di merito, sulla base di tali conclusioni peritali, osservera’, dal suo canto, senza peraltro fornire alcuna logica motivazione al suo assunto, che “il giudizio circa la sussistenza di un probabile rapporto causale fra le condotte del personale sanitario e la tetraparesi, in presenza di una causa certa antecedente quelle condotte, costituita dalla caduta a terra, deve articolarsi sulla base della valutazione delle prove, testimoniali e documentali, offerte dalle parti”, per concludere, sulla scorta delle testimonianze del caposala del reparto e degli infermieri che prestarono soccorso al ragazzo, che “il personale infermieristico ebbe ad adottare le precauzioni necessarie”, sicche’ “deve escludersi che sia stata fornita la prova che quella condotta sia stata antecedente causale della lesione midollare”. La sentenza, in tal modo, contraddice inspiegabilmente le risultanze della seconda consulenza – l’unica ritenuta rilevante ai fini del decidere dalla Corte di merito – che aveva invece ritenuto, quanto al profilo eziologico (sia pur piu’ sfumatamente rispetto alla prima CTU che ricostruisce la vicenda addirittura in termini di certezza della responsabilita’ del personale sanitario), il danno subito dall’A. una “possibile, ed anche probabile”, conseguenza delle modalita’ del primo soccorso (p. 32 della consulenza Fiori, testualmente riportata dal ricorrente a folio 9 del ricorso, in ossequio al principio di autosufficienza di tale atto). Ne’ il giudice di secondo grado si sofferma sulla (pur rilevata in sede di CTU) assenza di qualsivoglia spiegazione circa la posizione iniziale del paziente e circa le modalita’ di rivoltamento nella posizione supina (pp. 14-15 della sentenza d’appello), circostanze in ordine alle quali, una volta accertato (sempre in sede di CTU) come “probabile” il nesso causale tra intervento del personale e danno midollare, era senz’altro onere del personale sanitario stesso quello di fornire una positiva dimostrazione di assenza totale di colpa, in ossequio ai piu’ volte ricordati principi sulla ripartizione dell’onere della prova in subiecta materia.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, infine, violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2697 c.c., sostenendo che la Corte di merito non avrebbe correttamente valutato i profili di colpa medica quanto all’errata diagnosi ed alla conseguente, errata terapia adottata nelle ore immediatamente successive alla lesione subita dal paziente.
Anche questo motivo risulta fondato, per quanto di ragione. il ritardato accertamento della grave lesione cervicale riportata dall’A. (accertamento che, come si legge nella narrativa della sentenza di 2^ grado, tardo’, sotto il profilo della diagnosi e della terapia, al punto “da non potersene seriamente discutere la incongruita’ colpevole”), viene, peraltro, ricondotto, dalla Corte d’appello, ad una “mancanza (o meglio, insufficienza) della prova del nesso di causalita’ tra la colpevole omissione da ritardo dei medici e l’evento dannoso” (folio 21 della sentenza). L’affermazione si pone, peraltro, ancora una volta in insanabile contraddizione con le risultanze della seconda consulenza, la quale, con precipuo riferimento tema della rilevanza probabilistica dell’incidenza causale del comportamento medico sull’evento, afferma invece che tale rilevanza era ben predicabile con riferimento “all’assistenza successiva, in quanto il ritardo di formulazione del sospetto di una lesione cervicale grave puo’ anch’esso, oggettivamente, aver prolungato il periodo di compressione ischemica midollare”, di talche’ “anche questo secondo concorso” (al pari del trasporto del paziente) “viene ritenuto probabile”, pur se sulla base di “considerazioni logiche, in carenza di elementi di prova diretti” (la perizia si concludera’, pertanto, nel senso della prospettazione “in chiave probabilistica, di un concorso di parte convenuta nel produrre il maggior danno”). In proposito, la sentenza della Corte d’appello si limita a riportarsi alla motivazione adottata dal tribunale (del tutto erronea in punto di diritto, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte: per tutte, Cass. 12103/2000) secondo il quale “dovendosi ritenere aperta ogni possibilita’, non puo’ escludersi che la lesione midollare si fosse gia’ interamente verificata al momento della caduta”, cosi’ confondendo, del tutto illegittimamente, la necessita’ di una prova certa dell’esistenza di un probabile nesso causale con l’esigenza di una prova certa del nesso causale stesso, e discorrendo, inopinatamente, di ipotesi alternative residuali soltanto possibili. Il ricorso va, conclusivamente accolto, con la cassazione dell’impugnata sentenza, e la causa rinviata, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla corte d’appello di Roma, che fara’ applicazione dei principi di diritto sopra enunciati.
P. Q. M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla Corte d’appello di Roma.