Impresa familiare: al reddito del contribuente si somma quello del lavoro del coniuge
Nella dichiarazione congiunta il contribuente deve sommare al proprio
reddito quello che scaturisce dal rapporto di lavoro del coniuge
nell’impresa familiare. Lo precisa la sentenza 23396/09, emessa dalla
sezione tributaria della Cassazione. È vero, la doppia imposizione
risulta vietata ex articolo 67 del Dpr 600/73: lo stesso tributo non
può essere applicato «più volte in dipendenza dello stesso presupposto,
neppure nei confronti di soggetti diversi». Ma questo sacrosanto
principio, nella specie, non può essere invocato dal contribuente che
ha compiuto un errore nella dichiarazione congiunta. E la soluzione del
problema – spiegano gli “ermellini” – è racchiusa proprio nell’altra
norma cui fa riferimento il gestore dell’impresa familiare, l’articolo
62 del Dpr 917/86 (contenuto nel Capo VI dedicato ai redditi
d’impresa): è senz’altro corretto – aggiungono – che non sono ammessi
in detrazione i redditi da lavoro del coniuge e che i compensi esclusi
dalla deduzione non concorrono a formare il reddito del percipiente. Il
punto è – osservano i giudici di legittimità – che qui il percipiente
s’identifica con il coniuge e l’entrata economica “incriminata” non
solo è tassabile ma va denunciata dal dichiarante in aggiunta al
proprio reddito. Confermato il “no” al contribuente che contestava il
maggior accertamento Irpef contenuto nella cartella di pagamento.
Infine, una questione procedurale del giudizio tributario: è nulla, e
non inesistente, la notifica del ricorso per cassazione all’Agenzia
delle entrate effettuata presso l’Avvocatura dello Stato se la prima
non è stata patrocinata dalla seconda in sede di merito. La nullità è
sanata dall’Agenzia che si costituisce senza sollevare eccezioni.