In ufficio sempre più stressati Fare i conti con la recessione
pressioni rispetto all’anno scorso. Paura di perdere il lavoro,
necessità di mantenere livelli di vendite e profitti e riduzione del
personale tra le principali cause. E in Europa il 61 per cento pensa
che il peggio deve ancora arrivare.
più pressioni per mantenere vendite e profitti a un livello
accettabile, paura di perdere l’impiego, la riduzione del personale con
cui fare i conti quotidianamente e una competizione sempre più
aggressiva da parte dei colleghi. Se a pagare il prezzo della crisi è
soprattutto chi ha perduto il lavoro, anche chi è riuscito a mantenerlo
non se la passa poi così bene.
Sì, perché con il persistere della crisi, con il tasso di
disoccupazione che continua a crescere e la situazione delle aziende
che non accenna a dare segnali positivi, lo stress sembra aumentare
sempre di più lasciando pochissimi spazi di tranquillità a chi il
lavoro vorrebbe riprendere a svolgerlo al meglio delle proprie
possibilità.
In Italia i senza lavoro, secondo i dati Istat resi noti il primo
dicembre, hanno superato i due milioni e il tasso di disoccupazione ha
raggiunto l’8 per cento. Sono i valori più elevati dal novembre del
2004. In Europa la media è pari al 9,8 per cento. E anche negli Stati
Uniti, seppure l’ultimo dato mostri un lievissimo miglioramento, siamo
intorno al 10 per cento. In questo contesto, lo stress trova il
migliore humus per alimentare se stesso. Non soprendere quindi che il
60 per cento dei lavoratori nel mondo confessi di vivere il proprio
impiego con maggiore ansia rispetto all’anno scorso. I risultati sono
quelli di un’indagine globale realizzata da Regus Group che ha
coinvolto oltre 11 mila imprese in 15 nazioni. Dall’India alla Cina.
Dalla Germania alla Francia.
La principale fonte d’ansia per molti è rappresentata dal timore di
essere coinvolti in ulteriori tagli al personale. Ne fanno riferimento
quattro americani su dieci e nel Regno Unito se ne preoccupano il 44
per cento. Lievemente minore la percentuale in altri paesi. In Cina è
la causa prima della tensione per il 17,6 per cento e in Germania la
citano il 16,4 per cento dei lavoratori.
La rilevazione di Eurobarometro, l’istituzione della Commisione
europea che effettua rilevazioni dell’opinione pubblica degli Stati
membri, sull’impatto della crisi descrive una situazione non certo
migliore. Molti sono quelli che hanno avuto un’esperienza, diretta o
indiretta con i “tagli”. Il 36 per cento degli europei ha avuto negli
ultimi mesi qualcuno della propria famiglia o delle proprie amicizie
che è rimasto impigliato in ridimensionamenti aziendali. In Italia la
cifra è pressoché uguale (33 per cento). E preoccupati di un possibile
licenziamento sono circa il 40 per cento degli italiani, rispetto a una
media continentale pari al 32 per cento. Con il 61 per cento degli
intervistati che pensa che il peggio debba ancora arrivare.
Ma non si tratta solo del timore del licenziamento. Ci sono anche
ragioni più sottili e persistenti che si insinuano nell’attività
quotidiana forse persino con maggiore invasività. Tra queste,
soprattutto il pressing dei responsabili d’area rispetto alla necessità
di assicurare un livello di profitti o di vendite. Allo stesso tempo,
diversi sono gli impiegati nel mondo che segnalano un crescente stress
per colpa dell’assenza di un supporto amministrativo al proprio lavoro.
E quelli che lamentano le eccessive richieste dei clienti. Infine ci
sono quelli che, con percentuale compresa tra il 6,4 per cento dei
francesi e il 17,4 per cento degli australiani, indicano come causa
principale dell’ansia, forse quella che ogni giorno pesa di più, la
riduzione del personale avvenuta nella propria azienda.