Indennizzo, irragionevole durata del processo, parametri europei, sussistenza
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 6 febbraio – 3 aprile 2008, n. 8521
(Presidente Losavio – Relatore Panebianco)
Svolgimento del processo
Con decreto depositato in data 2.12.2004 la Corte d’Appello di Roma – pronunciando sulla domanda di equa riparazione ex lege 89/01 proposta da A. G. in relazione al giudizio dalla medesima promosso avanti al Tar della Regione Campania e successivamente, a seguito di impugnazione della Regione Campania, avanti al Consiglio di Stato per il riconoscimento e la liquidazione dei contributi di cui all’art. 26 della L.r. Campania 15.3.1984 n. 11 e protrattosi, relativamente al giudizio avanti al Consiglio di Stato al quale era stata limitata la domanda, dal 16.11.1996 al 29.9.2003 – determinava la durata non ragionevole in anni quattro e liquidava per il dedotto danno non patrimoniale la somma complessiva dì euro 2.000,00 in considerazione della pretesa economica fatta valere in giudizio e del conseguente modesto patema d’animo che la vicenda processuale può aver cagionato, in parte compensato dal riconoscimento degli interessi.
Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione A. G. che deduce sei motivi di censura.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri non ha svolto alcuna attività difensiva.
Il Procuratore Generale ha depositato le proprie conclusioni chiedendo l’accoglimento, per quanto di ragione, del ricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso A. G. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della Legge 89/01 e dell’art. 6 paragrafo 1 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Lamenta che la Corte d’appello, nel fissare in anni tre la durata ragionevole del procedimento avanti al Consiglio di Stato, non ha considerato che avanti al giudice amministrativo la durata di una causa di natura assistenziale non deve superare il termine di sei mesi.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ancora violazione dell’art. 2 L. 89/01 e dell’art. 6 della Convenzione Europea. Sostiene che in base alla richiamata normativa ed alla giurisprudenza della Corte Europea il giudice di merito avrebbe dovuto riconoscere un indennizzo pari ad euro 1.000,00-1.500,00 per ogni anno di durata del procedimento.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione delle normative sopra richiamate nonché vizio dì motivazione nella parte in cui la Corte d’appello assume che la tardiva definizione del giudizio, essendo stata compensata dal riconoscimento degli interessi, abbia determinato un modesto patema d’animo, senza considerare l’ammontare del contributo richiesto (euro 10.000,00 oltre agli interessi ed alla rivalutazione per complessivi euro 35.000,00 circa). Lamenta altresì che la Corte d’appello non abbia considerato che la Legge 89/01 è stata emanata per assicurare una tutela interna in tema di applicazione dell’art. 6 della Convenzione relativa all’equa riparazione correlata alla durata non ragionevole del procedimento e che pertanto ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo per il danno non patrimoniale si deve tener conto della giurisprudenza della Corte Europea per la quale la prova del danno è “in re ipsa” e che i tempi di durata del procedimento sono da considerare non ragionevoli se superano i due anni per il primo grado ed un anno e mezzo per il secondo, termini ridotti a mesi sei nella cause di lavoro, con la conseguenza però in tal caso che l’indennizzo deve essere riconosciuto per l’intera durata del procedimento con ulteriore “bonus” di euro 2.000,00 trattandosi di causa previdenziale.
Con il quarto motivo il difensore in proprio, denunciando la violazione delle stesse norme lamenta che le spese del giudizio siano state liquidate in misura inferiore al dovuto.
Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della Legge 1034/71, deducendo che ai fini in esame deve tenersi conto anche della fase stragiudiziale di costituzione in mora della P.a. che è prodromica e necessaria per la successiva instaurazione del procedimento.
Con il sesto motivo la ricorrente denuncia ancora violazione dell’art. 2 L. 89/01 e dell’art. 6 paragrafo 1 della Convenzione europea, deducendo che il giudice nazionale deve applicare le norme della Convenzione secondo l’interpretazione della Corte europea, come del resto hanno affermato anche le Sezioni Unite.
Il ricorso è fondato nei limiti che saranno qui di seguito espressi.
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo, ai cui principi il giudice nazionale deve tendenzialmente uniformarsi nella determinazione della durata ragionevole del procedimento, oltre che come si vedrà nella determinazione dell’indennizzo (Sez. Un. 1340/04), ha in linea di massima stimato tale durata in anni tre per quanto riguarda il giudizio di primo grado ed in anni due per quello di secondo grado, non tralasciando di precisare che da detto parametro il giudice possa discostarsi, riconoscendo una durata ragionevole maggiore o minore in considerazione della maggiore o minore complessità del procedimento.
Nell’ipotesi in esame la Corte d’appello non si è attenuta a tali principi, determinando la durata ragionevole per il giudizio di secondo grado avanti al Consiglio di Stato in anni tre anziché in anni due e, conseguentemente, quella non ragionevole in anni quattro anziché in anni cinque.
Uno scostamento da tali parametri per una durata ragionevole minore non può essere giustificato però, come sostiene invece la ricorrente, dal mero riferimento alla natura assistenziale della questione sottoposta al giudice amministrativo. Questa Corte, sia pure con riferimento alle cause di lavoro avanti al giudice ordinario, ha infatti sottolineato che la violazione del principio della ragionevole durata del processo non possa discendere in modo automatico ed astratto dalla natura delle questioni trattate, dovendo in ogni caso il giudice procedere a tale valutazione alla luce degli elementi previsti dall’art. 2 della Legge 89/01 (Cass. 6856/04) ed effettuare il suddetto apprezzamento in concreto (Cass. 21390/05). Sul punto non sono state però formulate censure sufficientemente specifiche.
Fondata è anche la censura relativa alla entità dell’indennizzo riguardante il danno non patrimoniale, essendosi la Corte d’Appello, nella sua determinazione, discostata dai parametri fissati dalla Corte europea e recepiti anche sotto tale profilo dalla giurisprudenza di questa Corte la quale ha chiarito come una tale valutazione non possa prescindere anche qui, in considerazione del rinvio operato dall’art. 2 della Legge 89/01, dall’ interpretazione della Corte di Strasburgo e debba pertanto uniformarsi, per quanto possibile, alla liquidazione effettuata in casi simili dal giudice europeo, sia pure con possibilità di apportare, purché in misura ragionevole, le deroghe suggerite dalla singola vicenda (Sez. Un. 1340/04).
Orbene, dalle decisioni adottate a carico dell’Italia (vedi in particolare la pronuncia sul ricorso n. 62361/01 proposto da Riccardi Pizzati e sul ricorso n. 64897/01 proposto da Zullo) risulta che la Corte europea ha individuato nell’importo compreso fra euro 1.000,00 ed euro 1.500,00 il parametro medio annuo per la quantificazione dell’ indennizzo.
In tali limitati termini vanno accolti pertanto anche il secondo ed il terzo motivo di ricorso.
La Corte d’appello infatti, nell’ambito di una durata complessiva non ragionevole ritenuta, peraltro erroneamente, di anni quattro, ha riconosciuto solo la complessiva somma di euro 2.000,00, discostandosi in tal modo in misura rilevante da detti parametri.
Né una tale minore valutazione può essere giustificata, come ha fatto invece la Corte d’Appello, dalla modesta entità della posta in gioco, non potendosi a tal fine tener conto unicamente dell’importo richiesto, di cui del resto non v’è traccia nella sentenza impugnata, ma dovendosi considerare anche le condizioni economiche in cui versa il richiedente e la conseguente rilevanza che detto importo può assumere nel caso concreto.
Infondato deve ritenersi però l’assunto secondo cui, una volta superato il termine ragionevole, l’indennizzo debba essere parametrato all’intera durata del procedimento, prevedendo espressamente l’art. 2 comma 3 della Legge 89/01 che, ai fini in esame, rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di durata del processo.
Al riguardo questa Corte ha già sottolineato che, anche se per la Corte europea l’indennizzo calcolato in ragione d’anno debba essere moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante il terzo comma dell’art. 2 della Legge 89/01, secondo cui è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Si è sostenuto infatti che detta diversità di calcolo non tocca la complessa attitudine della Legge 89/01 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo e pertanto non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della Convenzione europea e con il pieno riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all’art. 6, paragrafo 1 della Convenzione medesima (art. 111 comma 2 Cost. nel testo fissato dalla legge costituzionale 23.11.1999 n. 2; Cass. 8714/06).
Del pari non può trovare accoglimento la richiesta di riconoscimento di un “bonus” di euro 2.000,00 in relazione alla natura della controversia, non essendo previsto dalla legislazione nazionale e non potendo comunque considerarsi un effetto automatico, slegato dalla particolarità della fattispecie sulla quale nulla è stato però detto al di là di un generico richiamo al carattere assistenziale della controversia.
Inammissibili devono ritenersi il quinto ed il sesto motivo di ricorso.
Quanto al quinto, con cui si sostiene la necessità di far riferimento anche alla fase stragiudiziale di costituzione in mora della Amministrazione in quanto prodromica alla instaurazione del procedimento civile, dalla sentenza impugnata non solo non è dato desumere una richiesta del genere ma addirittura risulta precisato che la domanda verteva unicamente sul procedimento avanti al Consiglio di Stato. La ricorrente pertanto avrebbe dovuto rilevarne l’avvenuta deduzione in sede di merito, contestando l’affermazione della Corte e lamentarne poi eventualmente la mancata pronuncia con il presente ricorso. Al di là pertanto di ogni valutazione di ordine sostanziale, la censura, così come prospettata, non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.
Relativamente infine al sesto motivo, il suo contenuto, circa la necessità di far riferimento alla giurisprudenza europea, è assolutamente generico, non svolgendo censure specifiche riferibili al provvedimento impugnato. Ad ogni modo le argomentazioni sopra esposte a sostegno della presente decisione a tale giurisprudenza hanno fatto più volte riferimento.
Orbene, non essendo necessari ulteriori accertamenti, ricorrono le condizioni per una pronuncia nel merito ai sensi dell’art. 384 comma 2 c.p.c..
Si ritiene pertanto, in considerazione della durata non ragionevole del procedimento come sopra confermata (anni 5) , dei richiamati parametri europei nonché della mancanza di valide circostanze che potrebbero giustificare uno scostamento nel caso concreto dai parametri minimi, di riconoscere a titolo di equo indennizzo la somma di euro 5.000,00 pari ad euro 1.000,00 per ciascun anno di durata non ragionevole oltre agli interessi dalla domanda al saldo.
In considerazione della soccombenza solo parziale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, si ritiene di compensare per metà le spese del presente giudizio di legittimità e di condannare il resistente all’altra metà, spese da distrarsi a favore del difensore dichiaratosi antistatario e che si liquidano come in dispositivo, ferma restando la liquidazione delle spese operata in sede di merito da ritenersi adeguate anche al maggior importo riconosciuto.
Su tale ultimo punto v’è altresì da osservare che la censura, prospettata con il quarto motivo di ricorso, deve ritenersi inammissibile, essendo stata proposta dal difensore in proprio il quale può ritenersi legittimato solo se, dichiaratosi antistatario, non sia stata pronunciata direttamente a suo favore la condanna della controparte al pagamento delle spese e non già per contestare, come invece è stato fatto, l’entità delle spese liquidate.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione.
Cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento della somma di euro 5.000,00 oltre agli interessi dalla domanda al saldo.
Compensa per metà le spese del giudizio di legittimità che liquida, già compensate, in euro 400,00 per onorario ed euro 35,00 per spese oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.
Condanna inoltre la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento delle spese del giudizio di merito che liquida in euro 750,00 di cui euro 500,00 per onorario ed euro 50,00 per spese effettive.
Distrae dette spese a favore del difensore del ricorrente dichiaratosi antistatario.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 5 della Legge 89/01.