Italiano, questo sconosciuto “Studenti quasi analfabeti”
Io cossi tu cuocesti egli cosse: cos’è ‘sta roba? Piccolo esame di
verbi: “Se io sarebbe più abile, tu mi affiderai una squadra”. Ma
anche: “Se tu saresti più alto, potessi giocare a pallacanestro”. Nel
cimitero dove giacciono, insepolte, sintassi e ortografia, accenti e
apostrofi si confondono in un’unica insalata nizzarda di parole: “Non
so qual’è la prima qualità di un’uomo”. E tutto questo accade, si
legge, si scrive all’Università.
Test d’ingresso per le facoltà a
numero chiuso, anno di disgrazia 2009: alcuni degli aspiranti dottori
del terzo millennio hanno risposto così. “I giovani che arrivano dalle
scuole superiori sono semi-analfabeti”, ha dichiarato il magnifico
rettore dell’ateneo bolognese, Ivano Dionigi.
E chi ha già superato il traguardo della laurea non sta poi tanto
meglio: secondo una ricerca del Centro Europeo dell’Educazione (CADE, o
forse sarebbe meglio dire casca: l’asino), l’otto per cento dei nostri
laureati non è in grado di utilizzare pienamente la scrittura. Anzi,
peggio: 21 laureati su 100 non vanno oltre il livello minimo di
decifrazione di un testo. Cioè, se proprio va bene riescono a far
partire la lavastoviglie leggendo le istruzioni, oppure intuiscono le
controindicazioni dell’aspirina. Ma di più no.
Ancora: un laureato su cinque non riesce a dirimere un’ambiguità
lessicale. E un laureato su tre ha meno di cento libri in casa, quasi
sempre quelli che ha (più o meno) sfogliato per arrivare al pezzo di
carta. Ma su quella carta, troppo spesso è come se fossero impressi
geroglifici. E non parliamo poi di quando è necessario scrivere un
testo.
Per questo, molti atenei hanno deciso di organizzare corsi di recupero
di italiano per le matricole: grammatica e sintassi, cioè argomenti da
prima media. “I ragazzi non conoscono il significato di espressioni
lessicali banalissime”, spiega Pier Maria Furlan, preside di Medicina 2
a Torino, dove appunto si torna sui banchi quasi per fare le aste, e
per ripassare (o per studiare?) il congiuntivo. “Credetemi, è una
situazione da mettersi le mani nei capelli. Per fortuna, gli studenti
sono abbastanza consapevoli dei propri limiti: gli iscritti ai corsi di
recupero sono oltre 35 su cento”.
Come nasce lo “studente analfabeta”? Quando comincia a diventarlo? “I
guasti iniziano nella scuola dell’obbligo”, risponde Tullio De Mauro,
il padre degli studi linguistici italiani. “Il buonismo degli
insegnanti ha fatto grossi danni, ormai si tende a promuovere un po’
tutti e non si sbarra il passo a chi non è all’altezza. Ma il disprezzo
per la lingua italiana risiede anche in certi romanzi di nuovi autori,
pieni di parolacce e di inutili scorciatoie, e nel linguaggio sempre
più sciatto dei giornali dov’è quasi scomparsa la ricchezza della
punteggiatura”.
Insomma, oggi s’impara poco anche leggendo. E si studia male. “Credo
che il predominio dell’inglese stia nuocendo all’uso dell’italiano”,
sostiene il noto linguista Gian Luigi Beccaria. “Ormai è necessario
alfabetizzare adulti e ragazzi, e la colpa è di un intero percorso
scolastico che non sempre funziona. Le lacune nascono da lontano.
Inoltre, l’uso esclusivo di telefoni cellulari e computer come
strumenti di comunicazione non aiuta la nostra lingua: l’italiano sta
regredendo quasi a dialetto”. Lasciando perdere gran parte della
narrativa italiana contemporanea, dov’è possibile far tesoro della
lingua giusta? “Leggendo o rileggendo autori esemplari per pulizia
dello stile e chiarezza: penso a Primo Levi, a Calvino, ma anche a
Pirandello e Pavese, oppure al Fenoglio di Primavera di bellezza,
mentre Il partigiano Johnny è più complesso”.
Secondo recenti e sconfortanti statistiche, il venti per cento dei
laureati italiani rischia l’analfabetismo funzionale, cioè la perdita
degli strumenti minimi per interpretare e scrivere un testo anche
semplice. E la percentuale sale tra i diplomati: trenta su cento
possono diventare semi-analfabeti di ritorno. Una delle cause può
essere l’abbandono della grammatica e della fatica della sintassi: già
alle medie non si studiano quasi più, figurarsi al liceo. Nella scuola
superiore, ormai pochissimi insegnanti si sobbarcano la correzione di
trenta temi pieni di bestialità, una fatica tremenda e scoraggiante. E
guai se non si promuove chiunque: scatterà la reazione anche violenta
delle famiglie (sempre più spesso si rivolgono all’avvocato per
rintracciare vizi di forma nei registri, anche dopo la più sacrosanta
delle bocciature dei loro pargoli).
“Siamo molto preoccupati”, dice
Franca Pecchioli, preside di Lettere a Firenze. “Se gli studenti non
sanno dov’è il Mar Nero, beh, è grave ma glielo possiamo insegnare. Ma
se non sono in grado di seguire la spiegazione di un docente perché
ignorano il significato di certe parole, allora è peggio”. Ha un suono
sinistro anche la testimonianza di Elio Franzini, preside di Lettere
alla Statale di Milano: “L’anno scorso, insegnando ai primi anni di
filosofia chiesi chi avesse letto Proust, e alzarono la mano in tre. E
quasi nessuno sapeva chi avesse scritto Delitto e castigo”.
Invece è palese il delitto nei confronti della lingua italiana, o di
quella che dovrebbe essere la formazione universitaria: tra i paesi
industrializzati, solo Messico e Portogallo stanno peggio di noi. Vale
forse la pena ricordare che in Italia soltanto 98 persone su mille
acquistano ogni giorno un quotidiano, mentre in Giappone sono 644. Un
problema di formazione, o di scarsa informazione? “Siamo di fronte a
un’autentica violenza nei confronti della parola”, risponde Giovanni
Tesio, critico letterario e docente all’Università del Piemonte
Orientale. “Ma non dipende solo dalla scuola: la colpa è anche delle
famiglie e dei modelli culturali. La prevalenza dell’immagine porta a
una disattenzione verso i testi, e comunque è vero che mancano le basi.
Me ne accorgo correggendo tesi di laurea non solo scritte male, quello
sarebbe il meno, ma anche piene di strafalcioni. Perché per decenni si
è demonizzata la grammatica, come se tutto dovesse essere facile e
divertente. Ebbene, a scuola non tutto può né deve esserlo. Un’altra
fesseria è credere che la grammatica s’impari leggendo, quello è un
universo che non accetta usi strumentali”. Ma l’analfabetismo dei
laureati può essere arginato? “Siccome la letteratura è il luogo in cui
il senso della complessità diventa più forte, io la insegnerei anche
nelle facoltà scientifiche”.
Forse in Italia manca un vero
sistema di educazione per adulti, non siamo più capaci di aggiornarci,
allenando cervello e conoscenza come se fossero muscoli. La faciloneria
portata da Internet, strumento meraviglioso e banale, ricco di
potenzialità ma anche di comode tentazioni, ha ormai diffuso una specie
di cultura del “copia e incolla”, attraverso l’utilizzo di una lingua
spesso piatta e tutta uguale, riprodotta all’infinito. Molti esami
scritti, all’Università, vengono condotti come i test per la patente,
mettendo crocette su un questionario; e le relazioni degli studenti
procedono con “Powerpoint”, un altro strumento che riduce la dialettica
a riassunto di qualche schema, sillabando quattro parole.
“Abbiamo vastissima conoscenza orizzontale e istantanea, però non siamo
più in grado di approfondire, di scendere nel cuore delle cose”,
conclude Tesio. Il sessanta per cento degli italiani non ha mai letto
un libro (anche se molti di loro, purtroppo, hanno provato a
scriverlo). E non è affatto vero che “val più la pratica della
grammatica”. Altrimenti non sarebbe possibile che 45 laureati su cento
ignorino qual è (scritto senza l’apostrofo) il passato remoto del verbo
cuocere.