La Cassazione boccia le sentenze scritte a mano
Giudici, buttate la penna. Se scrivete sentenze, fatelo al computer. La
tirata d’orecchie arriva dalla Cassazione, che invita i magistrati
italiani ad abbandonare nostalgie e vezzi da amanuensi. Non perché il
Palazzaccio voglia d’un tratto buttare al macero secoli d’arte
calligrafica. Ma semplicemente perché molte sentenze, vergate a mano,
risultano incomprensibili. Giubilano, pare di sentirle, le praticanti
che negli studi legali devono stendere atti per poche decine d’euro, e
inciampano in scarabocchi, s’impuntano su una «f» che somiglia a una
«l», rischiando l’isteria. E gioiscono tutti quelli che nella vita
quotidiana hanno a che fare o per mestiere o per casualità con fogli
rigati d’inchiostro da mani che non sanno maneggiare penne. Le ricette
d’un medico, è noto, sembrano scarabocchi psicopatici. I compiti in
classe degli studenti con le dita atrofizzate dai telefonini, per i
poveri docenti alla Pennac, paiono tsunami di geroglifici.
La
singolare sentenza (numero 49568) parte dalla Corte d’Appello di
Napoli, dove due rapinatori hanno cercato di farsi annullare una
condanna aggrappandosi a una penna. Ci vogliono condannare – hanno
detto – ma è nostro diritto saper perché. E dato che il verdetto è
buttato giù peggio che da una gallina, i motivi ci restano ignoti. Il
caso è arrivato in Cassazione. I giudici hanno scorso il documento
incolpato. E qualcosa di faticoso l’hanno sicuramente trovato. Perché
alla fine hanno emesso una nota di biasimo, riconoscendo che il testo
era «caratterizzata da un ormai obsoleto ricorso alla scrittura a mano,
non vietato ma certamente segno di attenzione ridotta da parte del
magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione
giurisdizionale». A rincarare la dose: «gli stilemi personalissimi e
frettolosi pongono in secondo piano le esigenze del lettore e in
particolare di chi, avendo riportato condanna, pretende di conoscerne
agilmente le ragioni». Insomma, scrivere sentenze a mano non è vietato.
Ma digitarle su un computer è meglio, perché appena eruttate dalla
stampante sono immediatamente comprensibili. E’ un segno di civiltà,
fin dai primordi del diritto. Chi incise i cuneiformi nella diorite di
Hammurabi, si preoccupò di rendere ogni segnetto chiarissimo, meglio
d’un bassorilievo divino. Essendoci di mezzo la legge del taglione,
ogni tacchetta poco chiara, poteva costare una mano o una testa.
Scrivere
a mano, codice penale a parte, è da secoli un’arte sopraffina. Che
suscita talvolta meraviglia, talaltre pensieri devianti e cocciute
ribellioni, perché la mano che scorre lenta sul foglio parla sempre con
il cuore, con l’anima, con la mente. Gli orientali, sulla calligrafia,
hanno costruito un sistema di potere e di perfezione poetico-artistica.
Bartleby, lo scrivano di Melville, a forza di ricopiare, imparò a
ribellarsi sussurrando un mite «preferirei di no», come fosse una
virgola venuta male nell’ordine americano. I copisti del nostro
medioevo, dopo aver sudato quattro tonache a miscelare inchiostri e
appuntire piume d’uccelli, si divertivano poi a nascondere nei colofoni
dei nobili testi sms pruriginosi, tipo «Dentur pro penna scriptori
pulchra puella» – la penna dello scrittore si merita una fanciulla
carina – che suonano scaltri e beffardi quanto l’appello dei due
rapinatori napoletani.
Per la storia della Giurisprudenza,
comunque, gli sgorbi legali non bastano a farla franca. La Cassazione
ha respinto la richiesta dei due rapinatori: «La lettura del testo non
è impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione la
quale, seppur non propriamente agevole, risulta possibile al di là di
ogni ragionevole dubbio». Meglio, però, passare al computer. Meno zen,
più ineccepibile.