Poche parole per commentare una sentenza di merito, allo stesso tempo coraggiosa, perchè pubblicamente disattende un orientamento che tanti criticavano, ma che pochi disapplicavano, ed importante perchè affronta in modo serio e condivisibile il tema delal coltivazione.
Il G.I.P. presso il Tribunale di Milano, mostrandosi, quindi, di avviso del tutto contrario rispetto all’indirizzo adottato dalle SS.UU. della Suprema Corte, con la famosa sentenza 10 luglio 2008 n° 28605 (criticata da chi scrive su questa rivista: Sostanze stupefacenti: sulla punibilità della condotta coltivativa), esplicita una visione non solo plausibile, ma, soprattutto, concreta e pragmatica in ordine al problema concernente il tema della coltivazione di piante destinate alla produzione di stupefacenti.
La rigorosa esegesi filologica del termine “coltivazione”, che la sentenza offre, diversamente da un stile ormai invalso giusprudenzialmente, non si risolve affatto in un vuoto esercizio di acrobazia giuridica.
Tale visione, invece, risulta abbinata e complementare, in modo assai perspicuo, ad una ricostruzione convincente del dettato di legge, cioè del testo del dpr 309/90.
Appare, infatti, fondamentale e significativo il risultato della fusione delle due indagini (quella relativa al profilo semantico e quella relativa al profilo normativo).
Decisivo si palesa, pertanto, lo specifico richiamo ad una disposizione – l’art. 26 dpr 309/90 – la quale, pur non avendo, ma solo all’apparenza, un contenuto riverberante effetti e conseguenze di natura strettamente penale, costituisce, comunque, il paradigma assoluto di partenza, allo scopo di ottenere una corretta definizione della condotta di coltivazione a fini penali.
E’, quindi, prima facie, importante sottolineare l’impostazione metodologica cui si richiama la sentenza in parola.
Essa recupera, proprio da una norma precettiva (cd. “di riferimento”) a contenuto non strettamente penale, il citato art. 26[1], il presupposto necessario dal quale muovere, per focalizzare la nozione di coltivazione penalmente rilevante, operando – così – un collegamento armonico e logico all’interno del medesimo testo normativo.
Ma vi è certamente di più.
La sentenza del G.I.P. presso il Tribunale di Milano, inoltre, premette con nettezza un dato fattuale di comune esprienza forense, che le SS.UU. hanno disatteso in modo palesemente erroneo.
Il provvedimento in commento, infatti, critica (e giustamente) la negazione della distinzione fra coltivazione agraria e coltivazione domestica, che si rinviene nella citata sentenza interpretativa di legittimità, affermando: “L’assimilazione tout court della coltivazione industriale o semi-industriale della coltivazione della marijuana alla coltivazione “domestica” effettuata dalla Suprema Corte è assai discutibile sul piano ermeneutico”.
Il recupero, quindi, dell’apprezzabile indirizzo ermeneutico che distingue, in modo razionale, condotte, che, pur sussunte sotto la specie della “coltivazione”, appaiono tra loro assolutamente differenti per modalità dell’azione, per tecnica e strumenti utilizzati , per estensione dell’aria oggetto della coltivazione, costituisce uno sforzo di adeguamento del dato normativo e giursprudenziale alla realtà quotidiana.
Si può anche non essere del tutto d’accordo in ordine alla limitazione ed alla circoscrizione della parola “coltivazione” ai soli episodi di attività “industriale o semi industriale”, che la sentenza opera, giacchè il termine in questione può effettivamente attagliarsi in senso lato anche ad un’attività non concepita su vasta scala e che trascenda una destinazione domestica.
E’, comunque, del tutto evidente, la diversità che emerge fra fra le due tipologie dell’azione in disamina; soprattutto risulta decisiva la circostanza che la “coltivazione domestica” assolve ad evidenti funzioni di uso strettamente personale del coltivatore, il quale non opera affatto al fine di creare un incremento della diffusione degli stupefacenti.
Se, dunque, questo è un parametro che va tenuto in considerazione, consegue, direttamente ed intimamente, la validità di un’ulteriore elemento che la sentenza evoca e cioè quello dell’offensività della condotta.
In buona sostanza.
Se, come appena detto, la sostanza prodotta, con la coltivazione domestica, è destinata all’uso del produttore stesso, l’azione in parola finisce per esprimere la propria apparente antigiuridicità in un contesto del tutto privato, sostanzialmente diverso e ridotto rispetto a quello della minaccia pubblica della salute dei cittadini.
Ciò in quanto i terzi estranei al produttore, non sono, per evidente scelta originaria, coloro che devono fruire dell’esito della coltivazione.
L’ipotetica offensività della condotta in questione, che rimane, così, confinata in un ambito strettamente personalistico, non appare idonea a vulnerare il bene giuridico che il Dpr 309/90 tutela.
E’, quindi, auspicabile che una siffatta pronunzia non rimanga vox clamantis in deserto, e come tale isolata od emarginata.
Essa deve essere presa come riferimento per una giustizia adeguata ai concreti comportamenti dei cittadini.