La crisi? In Italia la pagano i giovani
Forse perché è insicura della propria identità, l’Italia adora paragonarsi al resto del mondo. Gli italiani prendono sul serio e compulsano febbrilmente qualunque classifica internazionale li riguardi, quasi avessero bisogno di scoprire chi sono tramite il giudizio altrui. Si specchiano negli altri per capire se stessi. Poi magari si deprimono o invece, altre volte, concludono che in fondo, a guardar bene certi indicatori, «siamo quelli che stanno meglio». Eppure c’è una graduatoria nella quale questo Paese occupa un posto importante, senza che questo attragga granché l’attenzione nazionale: siamo l’economia avanzata nella quale la minoranza costituita dai giovani ha pagato il prezzo più alto alla recessione, e continua a farlo. Statisticamente, le generazioni nate fra il 1974 e il 1994 hanno assorbito l’intero costo della più grave crisi economica del dopoguerra.
Lo hanno fatto per tutti e in tutto, sia in termini di occupazione che nel livello delle retribuzioni. Lo hanno fatto a tal punto da aver assunto su di sé quasi tutti gli oneri di questi anni, risparmiandoli (almeno per ora, finché terrà la cassa integrazione) alla maggioranza di popolazione costituita dai padri e dai fratelli maggiori. Insomma quasi tutti i colpi li hanno incassati gli ultimi arrivati, la tipologia di residenti sul suolo nazionale demograficamente minoritaria. Nell’Ocse, il club delle trenta democrazie avanzate del pianeta, si tratta di un record che mette l’Italia al primo posto in questa graduatoria. Al secondo, un po’ distante, la Spagna. L’osservazione è di Stefano Scarpetta, capo della divisione Politiche e analisi del lavoro dell’Ocse di Parigi. Secondo le stime ufficiali, nota Scarpetta, in Italia nell’ultimo anno tutte le perdite nette di posti (il saldo fra assunzioni e licenziamenti) si concentrano nel bacino degli occupati atipici e temporanei; lì chi ha meno di 35 anni è in netta maggioranza: quasi il 60% della popolazione dei precari è nato dopo il ’74.
In Spagna, il valore comparabile segnala un’emorragia di lavoro concentrata all’85% in questa fascia di popolazione giovane, e lo squilibrio è considerato così serio da essere al centro di un dibattito sull’ingiustizia intergenerazionale. In Italia se ne parla meno. In parte, forse è perché la disoccupazione non è salita altrettanto in fretta. In Spagna è rapidamente raddoppiata ed è ormai vicina al 20% mentre, nel biennio della grande frenata, la crescita italiana del tasso dei senza- lavoro è stata di circa due punti (all’8,3%, senza contare i cassaintegrati): meno della media europea e meno degli Stati Uniti, che viaggiano intorno al 10%. Ma la peculiarità italiana è appunto nella distribuzione squilibrata dei sacrifici: la mette in luce, con elaborazioni sulla base degli ultimi dati Istat (sui primi tre trimestri dell’anno), uno studio della ricercatrice Valeria Benvenuti della Fondazione Leone Moressa di Mestre. Nel confronto fra il 2008 e il 2009 l’ecatombe del lavoro dei giovani emerge così come l’autentica cifra italiana nella crisi. Si scopre che nella fascia di popolazione di chi ha fra i 15 e i 24 anni, il numero degli occupati è sceso dell’11,6%; in quella fra i 25 e i 34 anni si è ridotto del 5,5%; invece fra gli adulti e gli anziani in età lavorativa cambia tutto. Qui le tracce della grande recessione (ancora) non sono evidenti: nella popolazione residente in Italia compresa fra 35 e i 64 anni, il tasso di occupazione è addirittura salito (dello 0,9%) fra il 2008 e il 2009, mentre intanto l’economia crollava quasi del 5%. Più avanti si va nell’età anagrafica, più sembra che i lavoratori dipendenti siano protetti dagli effetti avversi della congiuntura.
Non è dunque un caso se in Italia la maggioranza della popolazione disoccupata è costituita dalla minoranza (demografica) di popolazione giovane. Sull’esercito di 1,87 milioni di senza-lavoro italiani, oltre un milione di persone hanno meno di 34 anni; solo 840 mila ne hanno di più. Quasi il 60% dei disoccupati sono persone giovani. Si tratta di un dato che a suo modo riassume usi e costumi di una società, perché questi numeri sono il contrario esatto di ciò che ci si aspetterebbe dalla demografia. Gli adulti e gli anziani della fascia 35-64 anni sono molto più numerosi, 25,5 milioni. Il popolo dei nati fra il ’74 e il ’94 è invece di appena 14 milioni, eppure fornisce comunque il grosso dei disoccupati. Questa tendenza, presente da tempo, nella recessione non ha fatto che radicarsi. La disoccupazione nella fascia 15-24 anni nel 2009 è salita del 4,2%; quella nella fascia 25-34 dell’ 1,3%; e quella nella fascia 35-64 invece di appena 0,9%. Un motivo immediato di questa distorsione a danno dei giovani è semplice e ben noto: sono loro (con gli immigrati e i poco qualificati) a costituire il nerbo dell’esercito degli atipici, temporanei e insomma dei precari facili da licenziare alle prime difficoltà.
Gli adulti sono invece più spesso inquadrati con contratti a tempo indeterminato, molto costosi da rescindere. È un mercato del lavoro spezzato in due e i dati dell’Istat-Fondazione Leone Moressa ne confermano le caratteristiche: quasi uno ogni quattro lavoratori dipendenti sotto i 35 anni ha un contratto temporaneo, mentre sopra i 35 anni lo ha solo il 7,7% degli assunti. Il risultato? Nel 2009 il numero dei dipendenti precari è crollato (meno 10,5% per gli under-35, meno 5,8% per gli over-35) e anche quello dei dipendenti permanenti è diminuito, ma in questo caso è successo solo per i giovani. Per gli over-35, paradossalmente, il numero dei lavoratori con un contratto permanente è invece addirittura cresciuto malgrado la crisi (più 2,4%). È proprio la strana storia dei dipendenti permanenti — crollati fra i giovani, cresciuti fra gli adulti e anziani— a segnalare che forse il precariato non spiega tutto del trattamento punitivo riservato in Italia ai giovani. Espressa in molti meccanismi, sembra pesare anche la preferenza generale di una società anziana per i suoi membri anziani.
L’Italia concorre infatti anche per un altro primato internazionale: è abitata da persone molto più in là con gli anni che altrove. Secondo l’annuario della Cia, l’età mediana nel Paese è la terza più alta al mondo (43,3 anni) subito dietro il Giappone e la Germania. Le fette di popolazione nelle fasce 35-44, 45-54 e 55-64 anni sono tutte molto più numerose di quella della fascia 15-24 e, ancora di più, della fascia 5-14. Gran parte della popolazione è in età piuttosto matura. Forse è dunque normale che attraverso il welfare, i partiti, i sindacati o nelle imprese, emergano scelte collettive che favoriscono le maggioranze relative anziane (più organizzate, per il fatto stesso dei loro privilegi) a scapito delle minoranze giovani e disorganizzate. La stessa tendenza si nota del resto anche nell’andamento delle retribuzioni: quelle dei giovani e precari non solo sono più basse, crescono anche molto più lentamente. Così la forbice retributiva si allarga: fra il 2006 e il 2008, la differenza nella retribuzione media giornaliera fra un contratto permanente e uno a tempo determinato è salita da 18,17 a 21,38 euro: la crisi anche qui ha ampliato gli squilibri ai danni delle ultime generazioni.
La busta-paga dei lavoratori dipendenti permanenti è cresciuta del 7,22%, mentre quella dei dipendenti a tempo determinato solo del 4,04%. Su questi valori, elaborati in base ai dati Inps, può incidere certo il fatto che molti atipici sono impegnati in mestieri semplicemente pagati peggio. E conta senz’altro la posizione di debolezza del precario nel negoziare il proprio compenso. L’impressione generale è però quella di un’Italia bizzarramente «democratica» nel modo di reagire alla grande crisi: ha deciso quasi tutto la maggioranza anziana, e lo ha fatto a proprio favore. Che poi davvero le convenga soffocare le speranze di quelli venuti dopo, la loro crescita professionale e capacità produttiva, le nuove nascite e il futuro di tutti—in una spirale di sempre maggiore invecchiamento «democratico » — è ovviamente un’altra storia.