La dequalificazione può nascondersi anche dietro una riclassificazione delle mansioni per contratto collettivo
Proteggere la professionalità acquisita dal lavoratore prima di tutto,
anche in presenza di contingenti esigenze di organizzazione aziendale.
È questo il baricentro dell’articolo 2103 del Codice civile (“Mansioni
del lavoratore”) nella formulazione introdotta dallo Statuto dei
lavoratori (legge 300/70) ed è questo, in sintesi, il valore che va
salvaguardato di fronte ad un “riclassamento” delle mansioni disposto
dalla contrattazione collettiva. Quest’ultimo, che si sostanzia in un
riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni,
infatti, non preclude l’accertamento di un demansionamento secondo
l’articolo 2103 del codice civile. Insomma, per non esserci danno alla
professionalità del lavoratore è necessario che tra le vecchie e le
nuove mansioni si riscontri un nucleo di omogeneità ed affinità così da
non porre nel nulla e vanificare l’acquisita esperienza lavorativa del
dipendente. È quanto emerge dalla sentenza 23877/09 con cui la
Cassazione ha confermato il riconoscimento del danno da
dequalificazione professionale ad un impiegato delle Poste perché le
sue nuove mansioni – in seguito ad una riclassificazione disposta dal
Ccnl – non solo gli impedivano di utilizzare le pregresse capacità
professionali e di accrescerle ma, addirittura, comportavano la
progressiva perdita di quelle acquisite nel precedente incarico. Sul
punto, infatti, cruciale è l’indagine condotta dal giudice del merito
che deve essere rivolta a verificare i contenuti concreti dei compiti
precedenti e di quelli nuovi al fine di formulare il giudizio di
equivalenza, da fondare sul complesso della contrattazione collettiva e
delle determinazioni aziendali. Insomma, le nuove mansioni devono
essere comunque aderenti alla specifica competenza del dipendente per
garantirne il livello professionale acquisito, lo svolgimento e
l’accrescimento del suo bagaglio di conoscenze ed esperienze.