La fattura indica un nome falso, ma l’acquisto è vero: la rettifica Iva scatta fino a prova contraria
Operazioni inesistenti: il fatto che l’impresa
abbia comunque acquistato i beni fatturati, anche se da soggetti
diversi da quelli indicati nei documenti contabili, risulta irrilevante
ai fini della rettifica Iva. A meno che il contribuente non dimostri
inerenza e competenza dei costi. E l’onere della prova è molto
rigoroso, specie quando il Fisco ha in mano indizi pesanti come
contabilità in nero, ricorso a “cartiere” e rimanenze finali abnormi
rispetto ai depositi. È quanto emerge dalla sentenza 3419/10, emessa
dalla sezione tributaria della Cassazione.
Il caso
La Suprema corte decide nel
merito rigettando il ricorso introduttivo del contribuente, che pagherà
sanzioni per quasi 2,9 miliardi di vecchie lire, dopo due verdetti di
merito favorevoli. Resta da capire perché la detrazione non risulti
comunque consentita se la merce è entrata davvero in azienda, anche se
non proviene da chi fattura: il punto è che chi ha emesso il documento
non è stato controparte dell’operazione, mentre la qualità del
venditore può ben incidere sulla misura dell’aliquota. Spetta
all’acquirente provare l’inerenza all’impresa della transazione
effettuata. L’inesistenza solo “soggettiva” delle operazioni fatturate
non esclude la deducibilità ai fini dell’imposta sul reddito. Ma per la
rettifica Iva la circostanza che l’impresa abbia realmente acquistato i
beni, sia pure da un soggetto diverso da quello indicato, nulla
dimostra su tre fronti importanti: la veridicità dei costi
rappresentati; l’inerenza all’impresa; la riferibilità all’anno
d’imposta contestato. Il contribuente, invece, deve fornire elementi
probatori certi e precisi, anche al di là delle scritture contabili e
non in base a regole di esperienza.