La fine del distacco non legittima il licenziamento
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza n. 5403 del 5
marzo 2010, si è pronunciata sul tema del distacco e dei suoi riflessi
sul rapporto di lavoro. É frequente il caso in cui un lavoratore
distaccato per un lungo periodo presso un altro datore di lavoro venga
licenziato, alla fine del distacco, per giustificato motivo oggettivo.
La Corte esclude la legittimità di tale scelta, osservando che la fine
del distacco di per sé non è un fatto sufficiente a soddisfare i
requisiti di legittimità del recesso. Ma vediamo come si è svolta la
vicenda che ha condotto alla pronuncia della Corte.
Il fatto
Una lavoratrice adiva il Tribunale di Vicenza sostenendo di essere
stata assunta da una società (che chiameremo “nuova società”), per
passaggio diretto da un precedente datore di lavoro (che chiameremo
“vecchia società”), restando a lavorare distaccata presso la vecchia
società anche dopo la cessione del contratto.
Per un certo periodo
il rapporto di lavoro veniva sospeso; successivamente, il distacco
veniva interrotto, in quanto la vecchia società cessava la propria
attività, e la dipendente veniva licenziata per giustificato motivo
oggettivo, per soppressione del posto di lavoro.
La lavoratrice
andava in giudizio e chiedeva la retribuzione per il periodo di
sospensione e la reintegra nel posto di lavoro, previa declaratoria di
illegittimità del licenziamento.
La nuova società si costituiva
deducendo che il precedente datore di lavoro si era trovato in forte
crisi, tanto che tutti i dipendenti, tranne la ricorrente avevano
trovato una nuova occupazione.
Con la ricorrente era stato raggiunto
un accordo che ne prevedeva l’assunzione presso la nuova società, ma la
stessa era rimasta distaccata presso il precedente datore di lavoro al
fine di gestirne le residue attività.
Quando la vecchia società era
stata posta in liquidazione, la lavoratrice aveva comunicato di aver
trovato un altro lavoro, e pertanto era stato raggiunto un accordo per
sospendere il rapporto in vista della sua cessazione; tuttavia,
l’interessata aveva cambiato idea e aveva deciso di tornare al lavoro.
Quando,
alla fine del 1999, era ormai cessata ogni residua attività presso la
società originaria, era stato intimato il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo.
Le decisioni del Tribunale e della Corte d’Appello
Il Tribunale di Vicenza accoglieva solo in parte la domanda.
Infatti, veniva considerato non provato l’accordo sulla sospensione, e
pertanto veniva condannata la società al pagamento delle retribuzioni e
dei contributi per quel periodo. Invece, veniva dichiarato legittimo il
licenziamento, in quanto al momento della sua irrogazione non
esistevano più mansioni da affidare alla dipendente.
La dipendente
proponeva appello sul capo relativo al licenziamento, deducendo che la
nuova società non aveva fornito la prova del giustificato motivo
oggettivo, e che la stessa dopo il licenziamento aveva provveduto a
nuove assunzioni, incompatibili con la asserita carenza di mansioni
alle quali adibire la dipendente.
La società proponeva appello
incidentale per ottenere la restituzione delle retribuzioni relative al
periodo di sospensione sostenendo che la sospensione era stata
concordata.
La Corte di Appello di Venezia respingeva entrambi gli
appelli; la Corte territoriale rilevava che il rapporto di lavoro, pur
pacificamente a tempo indeterminato, era finalizzato esclusivamente
alla gestione delle ultime attività commerciali della vecchia società,
per cui era inevitabile che, una volta concluse tali residue attività,
non vi fosse più alcun interesse della nuova datrice di lavoro a
ricevere le prestazioni di lavoro della ricorrente.
Inoltre, la
Corte osservava che la lavoratrice non era mai stata inserita
nell’organico vero e proprio della nuova società, è pertanto dovevano
considerarsi irrilevanti i nuovi rapporti instaurati dalla ditta.
Con
riferimento all’appello incidentale proposto dalla società, la Corte
osservava che non era emersa alcuna prova in ordine alla sussistenza di
un accordo tra le parti circa la sospensione del rapporto, mentre era
risultato provato che la ricorrente aveva dichiarato di essere a
disposizione per riprendere l’attività lavorativa.
La ricorrente
proponeva ricorso per Cassazione contro la sentenza, lamentando il
fatto che la Corte di Appello si era pronunciata per la sussistenza di
un rapporto di lavoro solo formale con la nuova società, e di fatto con
la vecchia società; in tal modo, secondo la ricorrente, la Corte
avrebbe introdotto nel processo un fatto nuovo e diverso da quello
posto dalla ricorrente a base della sua domanda.
Proseguiva la
ricorrente osservando che la sussistenza del rapporto di lavoro “a
tutti gli effetti” alle dipendenze della nuova società era pacifica,
tanto che la stessa società non aveva contestato tale assunto, ma si
era limitata a giustificare il licenziamento per giustificato motivo
oggettivo con la cessazione del distacco presso la vecchia società.
Per gli stessi motivi, la ricorrente lamentava che la Corte di merito,
senza alcuna sufficiente motivazione, aveva ritenuto che la lavoratrice
era solo formalmente assunta dalla nuova Società, e che il rapporto era
finalizzato esclusivamente alla gestione delle ultime attività
commerciali della vecchia società.
Il ricorso per cassazione e la sentenza
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, considera fondate queste censure.
In
primo luogo, osserva la Corte che la sentenza di Appello avrebbe
violato il principio di cui all’art. 112 c.p.c., che impone la c.d.
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato; osserva la Corte che la
nuova società, in sede di merito, si è difesa riconoscendo che la
lavoratrice era divenuta a tutti gli effetti una sua dipendente, anche
se era rimasta sempre “distaccata” presso la precedente. A fronte di
questa ammissione, la Corte di Appello è incorsa nella violazione
dell’art. 112 c.p.c., nel momento in cui ha affermato che la
lavoratrice era stata solo “formalmente assunta” dalla nuova società,
“non essendo stata mai inserita organicamente nella forza-lavoro di
tale società”.
Secondo la Corte, la violazione del principio di
corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato è -infatti
-configurabile anche nel caso in cui il giudice di appello abbia
confermato la sentenza di primo grado ponendo a fondamento della
propria decisione un fatto giuridico costitutivo diverso da quello
dedotto in giudizio e oggetto di contestazione in sede di gravame (v.
Cass. 13-5-1993 n. 5463).
Peraltro, prosegue la sentenza, la Corte
d’Appello, pur affermando la sussistenza del rapporto a tempo
indeterminato tra la lavoratrice e la nuova Società, ha ritenuto nella
fattispecie la sussistenza del giustificato motivo oggettivo di
licenziamento, senza avere una valida motivazione.
In particolare,
il giustificato motivo è stato ritenuto esistente in base alla semplice
considerazione che il rapporto era finalizzato esclusivamente alla
gestione delle ultime attività commerciali della società presso cui la
dipendente era distaccato, per cui, una volta terminato il distacco, la
società non aveva più alcun interesse a ricevere le prestazioni della
lavoratrice.
In tal modo, secondo la sentenza della Cassazione, la
Corte di Appello è incorsa in un errore di diritto, non essendo
certamente sufficiente a integrare il giustificato motivo oggettivo di
licenziamento la semplice cessazione dell’interesse al distacco o la
soppressione del posto presso la società distaccata. In questa ipotesi,
infatti, il datore di lavoro ha comunque l’onere di verificare la
sussistenza degli elementi costitutivi del giustificato motivo
oggettivo, con riferimento all’ambito aziendale del datore di lavoro
(nella specie la società distaccante); su questo soggetto ricade anche
l’onere probatorio circa la impossibilità di repechage, in conseguenza
della scelta di procedere al licenziamento per giustificato motivo
oggettivo (v. fra le altre Cass. 1-10-1998 n. 9768).
In
conclusione, la sentenza osserva che anche nell’ipotesi di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo di lavoratore
distaccato, deve applicarsi il principio (più volte affermato dalla
Corte) secondo cui il datore di lavoro ha l’onere di provare, con
riferimento all’organizzazione aziendale esistente all’epoca del
licenziamento l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in
mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, giustificandosi il
recesso solo come “extrema ratio” (v. Cass. 14-6-1999 n. 5893, Cass.
5-12-2000 n. 15451, Cass. 20-5-2009 n. 11720).
La Corte di Appello
ha omesso tale verifica, limitandosi a prendere atto della fine del
distacco, e pertanto la decisione viene cassata.