La responsabilità civile del magistrato
di Chiara Ponti
Il problema relativo alla responsabilità dei magistrati da cui dipende il corretto funzionamento dell’amministrazione della Giustizia, suscita, da sempre, un notevole interesse nell’opinione pubblica. Nondimeno, al contempo, è meritevole di approfondimento da parte dei cd operatori del diritto.
La responsabilità del magistrato si ravvisa in una diversa situazione giuridica soggettiva, rispetto a quella che si evince dal concetto generale di responsabilità la quale, notoriamente, esprime sul piano giuridico l’idea di un soggetto che in presenza di precipue regulae iuris può essere chiamato a rispondere per determinati fatti posti in essere da lui stesso direttamente o da altri. Il discrimen consiste nel fatto che deve necessariamente essere contemperata con l’indipendenza della funzione giurisdizionale, assicurata dall’Ordinamento.
Il fondamento costituzionale è rinvenibile nell’art. 28 della Costituzione, che estende per orientamento pacifico e consolidato, una responsabilità finanche ai giudici ed alle loro attività, pur assicurando loro in maniera inequivocabile piene garanzie di autonomia ed indipendenza.
Ciò posto, la responsabilità civile si configura allorquando il magistrato pone in essere eventuali errori od inosservanze nell’esercizio delle sue funzioni, nei confronti delle parti processuali o di altri soggetti. Nello fattispecie, è prevista una forma di responsabilità cd disciplinare che si ravvisa allorchè si compiano delle violazioni di tutti quei doveri che il giudice assume nei confronti dello Stato, al momento della sua nomina. La giurisprudenza, è giunta ad affermare la piena e totale legittimità di un paradigma di illecito civile differente per alcune categorie di soggetti, rispetto alla generalità dei consociati.
Infatti, in virtù della posizione super partes propria di un giudice, le condizioni ed i limiti alla di lui responsabilità sono di per sè delimitate senza, con ciò, prevedere una negazione totale della stessa che violerebbe manifestamente il principio suddetto, corroborato da garanzia costituzionale. Ciò posto, alla luce, per l’appunto, di una lettura costituzionalmente orientata, una limitazione della responsabilità del magistrato non costituisce in nessun modo un irragionevole ed irrazionale privilegio attribuito ad una particolare categoria di soggetti; anzi trova la sua ratio nella discrezionalità del legislatore ordinario, atteso che la stessa sia ragionevole e correlata alla valutazione di particolari situazioni e condizioni, tali da legittimare la previsione di deroghe o limiti alla disciplina comune.
La L. 117/1988 prevedeva il risarcimento dei danni cagionati nell’espletamento delle funzioni giurisdizionali, abbattendo quello stato di “immunità” proprio del magistrato e da sempre riservato alla categoria cui appartiene, in virtù di quel principio di irresponsabilità dello Stato e dei suoi collaboratori, trasmodando in quell’alea di privilegio consona alla magistratura. Da un lato, infatti viene affermato il principio di risarcibilità di qualunque danno ingiusto conseguente ad un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un Giudice con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, ovvero susseguente ad un diniego di giustizia. Dall’altro, allorquando si ravvisa un ‘ipotesi di responsabilità del magistrato, non sempre, peraltro, agevole da parte del cittadino da far valere se non fortemente motivato, si configura, indi, un procedimento disciplinare a carico del medesimo.
In questo contesto, a fronte delle innumerevoli prospettive de iure condendo succedutesi nel tempo, proprio recentemente con la Legge 31 luglio 2007, n. 111, denominata la c.d. controriforma Mastella, è stato riformato l’Ordinamento Giudiziario. Tra i più importanti interventi innovativi si annoverano l’accesso alla magistratura ed il relativo tirocinio. Non solo, ma anche è stata perfezionata la progressione di carriera e l’assegnazione delle funzioni. Si è distinto, di poi, tra le funzioni giudicanti ed inquirenti, in forza di quel cd principio di separazione delle carriere. Quest’ultimo, come è noto, è stato negli ultimi anni tra i più controversi e discussi nello scenario politico, in forza del suo essere profondamente politicizzato. Sul punto, autorevoli commentatori hanno asserito che v’è stato un autentico “restyling” per le progressioni in carriera. La normativa di riferimento di cui agli artt. 10 e 12 del D.Lgs. 160/2006, stabilisce l’organizzazione degli uffici requirenti e la temporaneità delle funzioni. Viene, di poi, imposta ai magistrati ordinari una formazione permanente mediante la partecipazione alla Scuola della Magistratura.
Tutto il sistema della distinzione delle funzioni e del loro conferimento ha quale presupposto fondamentale la valutazione di professionalità. Essa rappresenta uno degli aspetti cruciali della L. 111/07, in richiamo all’art. 11 del D.Lgs. 160/2006.
E’ appena il caso di ricordare che, ex ante, la riforma Castelli prevedeva invece una progressione di carriera dei magistrati ordinari in forza di concorsi interni per titoli ed esami, rigidamente connessa alle funzioni ed al trattamento economico giuridico.
Con la riforma Mastella, invece, si predilige un altro sistema cd carrieristico, caratterizzato da un avanzamento di carriera a seguito di un iter differente rispetto a quello derivante dalla selezione di concorsi interni. Si tratta, infatti, nella fattispecie, di controlli sulla professionalità da effettuarsi con cadenza quadriennale, concernenti l’attività di un giudice, salvo l’ermeneutica delle norme di diritto da applicare al caso concreto, nonché sulla valutazione del fatto e delle prove.
Ciò posto, la ratio risiede logicamente nel voler salvaguardare il principio cardine proprio dell’attività di un giudice, id est il libero convincimento nell’espletamento delle di lui funzioni, costituzionalmente garantito dall’art. 101, II c., Costituzione.
Trattasi, pertanto, di valutazioni riguardanti in primis la capacità, intesa sia nell’esercizio delle funzioni esercitate che in relazione alla preparazione giuridica propria di ciascun magistrato, intimamente connessa al grado di aggiornamento acquisito sino al momento della valutazione. In secondo luogo, la laboriosità che invece include tutto ciò che si riferisce alla produttività ed ai tempi di smaltimento del lavoro. Ulteriore criterio di valutazione riguarda, di poi, la diligenza ovvero l’assiduità e puntualità nella presenza in ufficio, alle udienze, al rispetto dei termini per la redazione od il deposito dei provvedimenti emessi e più in generale per il compimento delle attività giudiziarie.
Da ultimo, l’impegno profuso id est la disponibilità nelle sostituzioni dei magistrati assenti, nonchè la frequenza ai corsi di aggiornamento organizzati dalla Scuola Superiore della Magistratura.
Una volta che tutti quanti i parametri summenzionati vengono dal CSM considerati, potranno configurarsi tre tipologie di giudizi finali, ovvero positivi, non positivi, e negativi. I primi, verranno emessi a fronte di una valutazione sufficiente in relazione a ciascun parametro. Quelli, invece, non positivi, in presenza di carenze relativamente ad uno o più dei criteri discretivi suddetti. Infine, giudizi negativi verranno emendati laddove emergeranno carenze gravi in merito a due o più parametri. In quest’ultimo caso, trascorsi due anni, una volta eseguita una successiva valutazione, se l’esito sarà nuovamente negativo, vi sarà la sospensione dal servizio.
Alla luce di tale breve disamina, si evince che laddove il comportamento di un magistrato si concretizzi in un vulnus al prestigio ed all’onore della categoria di cui fa parte, la violazione o la mancanza di professionalità potrebbe riflettersi sulla tematica in questione, poiché, a seconda dei casi, ne deriverebbero giudizi non positivi o negativi, oltrechè eventuali procedimenti disciplinari in relazione agli illeciti posti in essere.
Ciò posto, il D.Lgs. 160/2006 in materia di illeciti disciplinari dei magistrati ha previsto, inoltre, la modifica alla disciplina in materia di incompatibilità con l’esercizio delle funzioni giudiziarie, da applicarsi alle fattispecie concrete.
Nel merito, alla luce dell’ elaborazione giurisprudenziale, a titolo esemplificativo, si rammenti una recente pronuncia della Suprema Corte, a Sezioni Unite n. 2685 del 2007 che ha visto coinvolto un sostituto procuratore, il quale oltre ad esercitare le funzioni giudiziarie, ricopriva al contempo la carica di socio accomandante di una s.a.s., finalizzata alla partecipazione ad aste giudiziarie che si svolgevano, peraltro, presso il tribunale in cui il PM era facente funzione. Ciò aveva implicato l’instaurazione di un procedimento disciplinare a suo carico che aveva portato quale esito prima una censura e poi un ammonimento, attesa la manifesta incompatibilità ed il mancato dovere di astensione che nelle circostanze di tempo e di luogo sarebbe stato doveroso, oltrechè necessario.
Già da tale pronuncia ed a fronte della successiva giurisprudenza formatasi sul punto (cfr. Cass. Civ., SS.UU., sentenza 28 novembre 2007, n. 24661) la SC ha ritenuto costantemente e conformemente che la ripetuta trasgressione del dovere di diligenza nello svolgimento della funzione giurisdizionale lede oggettivamente il prestigio dell’ordine giudiziario integrando, pertanto, l’illecito disciplinare. Si evince chiaramente che non si possa più argomentare in termini di perdurante irresponsabilità dei giudici. Anzi. Tutt’altro. E’ stato, infatti, scardinato quel concetto di intangibilità dei Giudici e di esenzione da responsabilità. Al riguardo, infatti, allorquando un comportamento sia contrario alla normativa vigente ed integri al contempo una fattispecie, altresì, illecita, a nulla rileva che il soggetto agente sia un magistrato o chicchessia. Ed il far parte di una categoria tanto prestigiosa quanto importante all’interno del novero delle cariche statali, altro non può che aggravare la posizione di per sé già contra ius, venendo meno quel dovere di correttezza e di soggezione che un Giudice deve tassativamente rispettare. Diviene, pertanto, inevitabile, l’offesa al prestigio di cui un magistrato deve sempre godere in ossequio al delicato ruolo che ricopre all’interno dello Stato, nonché nel sistema giudiziario. Un vulnus in sostanza ingiustificato, accentuato talvolta a seconda della modalità della condotta con cui si pone in essere un illecito. Diversamente, si tratterebbe di una palese fictio iuris a danno dell’immagine, del prestigio e dell’onore dell’O.G.: grave, intollerabile ed inammissibile.
A livello comunitario, invece, in virtù di una visione d’insieme in relazione ad esperienze a confronto, pare ancora radicato quel concetto di perdurante irresponsabilità dei magistrati. Basti pensare all’innumerevole casistica giurisprudenziale affermatasi sul punto, primo fra tutti il noto caso Francovich, e di poi quelli riuniti Brasserie du pecheur e Factortime III, il caso Dillenkofer, e Kobler. Non a caso, infatti, le sentenze in materia di responsabilità dei magistrati sono state prevalentemente caratterizzate da assoluzioni dei giudici coinvolti. E la responsabilità civile dei magistrati si configurava esclusivamente per comportamenti integranti fattispecie criminose.
Tuttavia, con la sentenza C-173/03 dei Traghetti del Mediterraneo, la Corte di Giustizia ha ritenuto che, nel caso di specie, il giudice nazionale non avendo sollevato questione di pregiudizialità avesse commesso una violazione del diritto comunitario, posta in essere in spregio alle previsioni comunitarie nell’esercizio dell’attività interpretativa. In altri termini, tale pronuncia è importante ai fini di cui ci si occupa, in quanto è da collocarsi appieno in quel risalente filone all’interno del quale, da decenni, il giudice comunitario ribadisce la responsabilità degli Stati per mancato rispetto del diritto comunitario da parte di tutte le loro istituzioni, in qualsivoglia forma perpetrata.
In conclusione, dunque, in richiamo a quanto scritto da autorevole dottrina, “la responsabilità giudiziale […] deve essere vista non in funzione del prestigio e dell’indipendenza della magistratura in quanto tale, né in funzione del potere di un’astratta entità quale “lo Stato” o “il sovrano”, sia questo individuo o collettività. Essa deve essere vista, al contrario, in funzione degli utenti, e quindi come elemento di un sistema di giustizia che congiunge l’imparzialità […] con un grado ragionevole di apertura e di sensibilità alla società ed agli individui che la compongono, al cui servizio soltanto il sistema giudiziario deve operare”.