Con una sentenza che lascerà spazio a qualche perplessità, la Cassazione stabilisce che in tema di assegno di mantenimento da parte dell’altro coniuge, non è sufficiente allegare meramente uno stato di disoccupazione, dovendosi verificare, avuto riguardo a tutte le circostanze concrete del caso, la possibilità del coniuge richiedente di collocarsi o meno utilmente, ed in relazione alle proprie attitudini, nel mercato del lavoro.
Si tratta della sentenza 9-27 dicembre 2011, n. 28870 rilasciata nello stesso giorno in cui la stessa Cassazione ha stabilito che l’ex moglie ha diritto all’assegno di divorzio anche se lavora e percepisce un reddito proprio. In realtà, i due casi sono basati su presupposti diversi anche se riconducibili alla situazione di disagio lavorativo in cui versano i singoli.
Nel caso di specie il ricorrente contesta la decisione della Corte di appello di Lecce che, nel dicembre 2007, dopo aver rilevato che l’uomo aveva trovato un’occupazione a tempo determinato, lo aveva condannato al mantenimento dei figli, affidati all’ex moglie, con 300 euro mensili. La decisione andava a modificare il precedente decreto depositato in data 8 marzo 2006 con cui il Tribunale di Brindisi omologava la separazione personale consensuale dei due coniugi, affidando alla moglie i figli minori, senza che fosse previsto alcun obbligo contributivo a carico del padre disoccupato. Da qui il ricorso per cassazione, nel tentativo per il padre di far rivivere la decisione di primo grado, in base alla permanenza dello stato di disoccupazione.
Il ricorrente formula anche il quesito da proporre alla Corte: se si possa disporre l’aumento dell’assegno in favore dei figli minori senza tener conto dei redditi delle parti, non esplicitando il ragionamento logico giuridico seguito per giungere alla decisione dell’aumento, non tenendo in alcuna considerazione le informative dalle quali emergeva che nel periodo considerato l’obbligato era disoccupato.
Tuttavia, gli Ermellini dichiarano l’inammissibilità del motivo di doglianza, a causa della formulazione del quesito di diritto in maniera non conforme alla disposizione contenuta nell’art. 366 bis c.p.c. Infatti, proseguono i giudici, nel motivo in esame sono prospettate doglianze che, intrecciandosi fra loro, ineriscono tanto a violazioni di legge, quanto a vizi motivazionali. In ogni caso, il giudice di merito aveva precisato che nel caso in cui dovesse nuovamente prospettarsi un mutamento, peggiorativo, delle condizioni economiche e reddituali del medesimo, il ricorrente potrebbe ben richiedere, a sua volta, il mutamento delle condizioni della separazione.
D’altra parte, concludono i giudici di Piazza Cavour, la mera allegazione dello stato di disoccupazione non è sufficiente per stabilire il mutamento peggiorativo del le condizioni del soggetto, dovendo necessariamente verificarsi, con attenzione alle circostanze concrete del caso, la possibilità per lo stesso di collocarsi o meno utilmente ed in relazione alle proprie attitudini nel mercato di lavoro.
Da qui la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.