L’allontanamento dalla casa familiare non è sempre motivo di addebito
Il matrimonio, inteso quale fondamento della società naturale chiamata famiglia, è il vincolo che lega la vita dei due coniugi creando reciproci diritti ed obblighi sia di carattere personale che patrimoniale. In particolare, l’art. 143 c.c., il cui dispositivo viene letto in occasione della celebrazione delle nozze, afferma chiaramente che tra i nubendi sorgono una serie di obblighi fondamentali quali la coabitazione, l’assistenza morale e materiale nonché la reciproca fedeltà.
Non tutto, però, è destinato a durare in perpetuo ed anche il matrimonio, nel caso in cui si verifichino fatti tali da renderne intollerabile la prosecuzione, può essere sciolto.
L’istituto del divorzio, introdotto dalla L. n. 898 del 1970, è lo strumento deputato a tale fine e necessita, quale suo presupposto, l’avvenuta pronuncia della separazione da almeno 3 anni a decorrere dall’avvenuta comparizione dei coniugi avanti al Presidente del Tribunale. L’intollerabilità della convivenza, inoltre, costituisce la summa dei motivi che conducono alla separazione personale dei coniugi e qualora sia originata da comportamenti che rappresentino la consapevole violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, il giudice, dopo aver pronunciato la separazione, può anche dichiarare a quale dei due, ed eventualmente ad entrambi, essa sia addebitabile in base al combinato disposto degli artt. 151, comma 2, e 156 c.c..
L’addebito, perciò, costituisce una sorta di sanzione dovuta alla violazione dei doveri coniugali e produce i suoi effetti sia sui rapporti patrimoniali che su quelli successori tra i coniugi.
La casistica delle condotte che possono dare luogo ad una pronuncia di tal genere è estremamente varia, tanto da aver condotto, nel corso degli anni, ad un’articolata evoluzione giurisprudenziale. Infatti, se in una fase più remota, in cui ancora era forte l’eco della separazione per colpa, la violazione dei doveri matrimoniali costituiva, di per sé, motivo di addebito, progressivamente si è andato affermando un concetto ben diverso: non ogni comportamento contrario ai doveri matrimoniale risulta oggi rilevare ai fini dell’addebito della separazione, ma soltanto quelli che abbiano concretamente determinato l’intollerabilità della convivenza. In pratica, la pronuncia di addebito presuppone che venga data in giudizio la prova di comportamenti, assunti volontariamente da un coniuge in violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, che siano stati all’origine, e quindi causa efficiente, della rottura del rapporto coniugale.
La separazione, in sintesi, deve essere pronunciata perché tra i coniugi è ormai intollerabile la convivenza, ma solo se tale intollerabilità è provocata dalla violazione dei doveri familiari potrà pronunciarsi l’addebito nei confronti di uno di essi o di entrambi.
Quanto appena detto trova conforto nella recente giurisprudenza, in special modo nella sentenza n. 1402 del 28 maggio 2008, secondo cui la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola inosservanza dei doveri coniugali implicando, invece, la prova dell’irreversibilità della crisi coniugale ricollegabile esclusivamente al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario a tali doveri da parte di uno o di entrambi i coniugi. Pertanto, solo in caso di raggiungimento della prova che il comportamento contrario ai predetti doveri tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato causa efficiente del fallimento della convivenza, legittimamente viene pronunciata la separazione con addebito.
Naturalmente, laddove la violazione dei doveri coniugali sia dovuta a “giusta causa”, cioè sia stato la condotta tenuta dall’altro coniuge ad aver prodotto una situazione tale da rendere intollerabile la convivenza, per ovvie ragioni non è possibile procedere ad una pronuncia di addebito nei confronti del coniuge inadempiente.
Fatte tali premesse, bisogna ora addentrarci nell’analisi della recente ordinanza, cioè la n. 4540 del 24 febbraio 2011, con la quale gli Ermellini hanno ribadito il concetto secondo cui in caso di “giusta causa” il motivo di addebito della separazione viene meno.
L’attuale giurisprudenza, infatti, concorda nell’affermare che l’allontanamento dalla casa coniugale, in violazione del dovere di coabitazione, non costituisce di per sé motivo di addebito poiché è necessario verificare se esso sia l’effetto dell’intollerabilità del rapporto oppure la causa.
In pratica, se l’intollerabilità della convivenza sia derivata dall’allontanamento di uno dei due coniugi dalla residenza familiare, allora si avrà una pronuncia di addebito nei confronti di quest’ultimo; invece, quando l’intollerabilità della convivenza sia prodotta da altri fattori, l’abbandono del tetto coniugale dovrà considerarsi un semplice effetto del primo e, perciò, non si potrà dare luogo all’addebito per la c.d. giusta causa. In quest’ultimo caso, l’allontanamento dalla casa coniugale non concreta una violazione del dovere matrimoniale alla coabitazione e non è motivo di addebito poiché è cagionato dal comportamento dell’altro coniuge ovvero risulta intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della convivenza si è già verificata così da non spiegare rilievo causale ai fini della crisi matrimoniale.
Ma allora, quando si può parlare della c.d. giusta causa? Quali condotte possono dirsi tali da rendere intollerabile la convivenza tra i coniugi?
In primo luogo, l’indagine del giudice deve essere effettuata con una valutazione globale e con la comparazione delle condotte di tutti e due i coniugi, non potendo il comportamento dell’uno essere giudicato senza un raffronto con quello dell’altro. Infatti, solo tale comparazione permette di riscontrare se e quale rilevanza essi abbiano avuto nel verificarsi della crisi matrimoniale.
In secondo luogo, bisogna cercare di capire se tale condotta abbia prodotto in uno, od in entrambi, una situazione psicologica, riferibile tanto alla formazione culturale quanto alla sensibilità ed al contesto interno alla vita dei due coniugi, da rendere intollerabile la convivenza.
Così, nell’evoluzione giurisprudenziale sono state considerate rientranti nel concetto di “giusta causa”, per esempio, una relazione extraconiugale o gli atti di violenza perpetrati da un coniuge nei confronti dell’altro, la mancata contribuzione alle necessità familiari oppure un atteggiamento tale da non permettere di concordare bilateralmente l’indirizzo familiare, ecc. I motivi, perciò, sono sempre stati molto vari.
Nel caso de quo, ciò di cui si lamenta la ricorrente è che l’intollerabilità della convivenza sia stata causata dai continui e plateali litigi sia con il marito che con la suocera, senza però che vi siano stati episodi di violenza o di tradimento. Ciò può bastare a fondare la c.d. “giusta causa” e, quindi, ad evitare l’addebito nei suoi confronti per abbandono del tetto coniugale?
Come ha giustamente rilevato la Suprema Corte, rapportandosi all’enunciato espresso nella sentenza n. 1202/2006, “l’allontanamento dalla residenza familiare che, ove attuato unilateralmente dal coniuge, e cioè senza il consenso dell’altro coniuge, e confermato dal rifiuto di tornarvi, di per sé costituisce violazione di un obbligo matrimoniale e conseguentemente causa di addebitamento della separazione poiché porta all’impossibilità della coabitazione, non concreta tale violazione allorché risulti legittimato da una “giusta causa”, tale dovendosi intendere la presenza di situazioni di fatto, ma anche di avvenimenti o comportamenti altrui, di per sé incompatibili con la protrazione di quella convivenza, ossia tali da non rendere esigibile la pretesa di coabitare”. In sostanza, se la frattura del rapporto coniugale è precedente all’allontanamento dall’abitazione, della quale pertanto non poteva essere stato causa, l’addebitabilità della separazione al coniuge che si allontani deve essere esclusa senza necessità di verificare ulteriormente se il comportamento dell’altro coniuge costituisca violazione dei suoi doveri coniugali.
L’intollerabilità della convivenza che cagiona in astratto tale violazione non necessariamente deve poi manifestarsi in atti di violenza, essendo sufficiente anche un contesto di vicendevole intolleranza; a differenza di quanto affermato dalla Corte d’Appello territorialmente competente, infatti, non elide il nesso causale tra l’allontanamento volontario e la persistenza di una pregressa condizione d’irreversibile dissidio della coppia, che avrebbe indotto l’abbandono, l’assenza di episodi di maltrattamenti o di vessazioni da parte del coniuge abbandonato.
Peraltro, non contrasta con quanto si è venuto dicendo sino ad ora il fatto che il matrimonio durava da 15 anni ed era già stato contrassegnato dai riferiti lamentati episodi; come si può giungere a dire che la routine di episodi del genere possa renderli tollerabili!
In conclusione, la sintesi di quanto affermato dalla Suprema Corte è che l’allontanamento dalla casa familiare non costituisce di per sé alcuna violazione qualora risulti legittimato da una “giusta causa”, la quale può ravvisi anche nei casi di frequenti litigi domestici della moglie con la suocera convivente e nel conseguente progressivo deterioramento dei rapporti tra gli stessi coniugi anche in assenza di tradimento o di violenze da parte del marito.