L’art. 140 bis del codice del consumo nella prospettiva del diritto privato Articolo di Guido Alpa 16.02.2010
L’art. 140 bis del codice del consumo nella prospettiva del diritto privato
Sommario: 1. Premessa –
2. Caratteri della “classe” – 3. Ambiti di tutela dei diritti e
fondamento dell’azione di classe – 4. I “diritti contrattuali” – 5. I
danni da prodotto – 6. Le garanzie nella vendita – 7. I danni da
pratiche commerciali scorrette – 8. I danni da comportamenti
anticoncorrenziali – 9. Alternative sulla applicazione della normativa
– 10. Il “filtro” dell’ azione di classe.
1. Premessa
L’ art.49 della L. 23 luglio 2009, n. 99 ha ridisegnato il profilo dell’ azione collettiva risarcitoria, disciplinata dall’art. 140 bis del Codice del consumo. La precedente versione, dettata dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244 non era mai entrata in vigore.
Ora la rubrica della disposizione è intitolata all’azione di classe.
Riferita alle persone, l’espressione “classe” è inusuale nel nostro
lessico giuridico, e pertanto il suo significato deve essere costruito
sulla base dello stesso contenuto della disposizione. Non possono
essere utilizzati criteri sistematici, perché nell’ambito del codice
del consumo altri strumenti processuali, come le azioni previste dagli
artt. 139 e 140, sono rivolti alla tutela di “interessi collettivi dei
consumatori”, e sono affidati non a rappresentanti di una classe bensì
alle associazioni rappresentative dei consumatori inserite nell’elenco
previsto dall’art. 137. Nell’ ordinamento si contano diverse ipotesi di
azioni a difesa di interessi di categoria – oltre alle azioni
individuali promosse nell’ambito dello stesso giudizio da una pluralità
di soggetti – ma nessuna disposizione che le riguarda può essere
invocata per interpretare l’art. 140 bis, il quale è un unicum nel
nostro universo processuale. Non si possono neppure assumere a modello
o come indirizzo interpretativo le regole comunitarie, posto che una
disciplina uniforme dell’ azione collettiva non è ancora giunta a
maturazione in ambito europeo, e neppure modelli stranieri, posto che
ciascuno di essi ha una propria fisionomia. L’ uso della formula “class
action”, con cui per semplicità ci si riferisce anche allo strumento
processuale italiano, è frutto di una semplice assonanza con la class
action americana, e pur alludendo alla esperienza statunitense che fa
capo alla Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure, che risalgono
al 1938, non si può spingere più in là di una mera convenzione
linguistica. Peraltro nelle esperienze europee questo strumento
processuale è definito in vario modo, facendo riferimento, in
particolare, ad un “gruppo” di soggetti.
2. Caratteri della “classe”
I
caratteri della “classe” si possono rinvenire innanzitutto nella
qualificazione dei soggetti che sono legittimati a proporre l’azione,
qualificati come consumatori e utenti. L’art. 140 bis del
cod.cons. non definisce questo modo di identificare il soggetto, ma ,
essendo la disposizione contenuta in un codice di settore, si può fare
riferimento al contesto normativo in cui essa è collocata: ed è appunto
l’art. 3 c. 1 lett. A) che definisce come consumatore “o” utente <la
persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività
imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente
svolta>. L’azione di classe non può quindi essere promossa da
persone giuridiche, o da enti non provvisti di personalità giuridica,
ad eccezione delle associazioni a cui la persona fisica così
qualificata abbia dato mandato ovvero dei comitati a cui la persona
fisica partecipi (c. 1). Non è consentito neppure estendere il
significato di consumatore o utente a soggetti che svolgano una delle
attività sopra richiamate che valgono ad escludere lo status richiesto.
Non sono legittimati gli avvocati, i quali peraltro possono difendere
anche individualmente il consumatore o utente che voglia promuovere l’
azione di classe , o assistere il consumatore che intenda aderire ad
essa (in questo caso, tuttavia, il c. 3 precisa che l’adesione può
essere effettuata <senza ministero di difensore>).
L’azione
di classe può essere promossa anche da un solo consumatore o utente, ma
deve riguardare una pluralità di soggetti: non è richiesto né un numero
adeguato, né un “rappresentante” di categoria.
Il requisito della pluralità
di soggetti compare varie volte nel testo: ad es., al c. 2, ove si
parla di una <pluralità di consumatori e utenti> (lett.a)),
oppure di <consumatori finali> (lett.b)), oppure al plurale di
<consumatori e utenti >(lett. c)), così come al c. 3. Pur potendo
promuovere la tutela dei propri diritti ( individuali) mediante
l’azione di classe il proponente deve però “apparire” <in grado di
curare adeguatamente l’interesse della classe> (c. 6).
La
“classe” dunque da un lato risulta composta da più soggetti che fanno
valere diritti individuali, dall’altro diventa identificativa dei
soggetti legittimati a coltivare l’azione, perché il vaglio della
ammissibilità della domanda è effettuato dal tribunale nella fase
preliminare con riguardo non tanto alla sommatoria degli interessi
individuali quanto piuttosto all’interesse della categoria.
I caratteri della classe emergono poi da altri indici normativi, dati:
- dall’ambito
dei settori in cui l’azione può essere promossa, che, secondo il c. 2,
riguardano i diritti contrattuali, i danni da prodotti, i danni
derivanti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti
anticoncorrenziali; - dalla titolarità di diritti e dalla fondatezza della domanda (c. 6);
- dalla
insussistenza di conflitti d’interesse dei promotori (il cui interesse
opportunamente identificato e qualificato deve quindi riverberarsi
sull’intera classe) (c. 6); - dalla “omogeneità” dei diritti
individuali fatti valere, omogeneità che riceve, a seconda dei settori
sopra considerati, diverse connotazioni (c. 1); - dai caratteri dei diritti individuali come definiti dal tribunale con l’ordinanza di ammissibilità e
- dai criteri di inclusione o di esclusione degli aderenti all’azione nella classe di riferimento (c. 9).
Oltre che appartenere a più persone, i diritti debbono essere omogenei oppure identici.
L’omogeneità dei diritti fatti valere è specificata:
- per i diritti contrattuali, dalla identità di situazione in cui versano i consumatori e gli utenti nei confronti di una stessa impresa (e non quindi in generale di un professionista, come definito dall’art. 3, c. 1, lett. c) del cod.cons.)
- per i danneggiati dai prodotti, dall’ essere <consumatori finali> titolari di diritti identici
- per
i danneggiati da pratiche scorrette e da comportamenti
anticoncorrenziali, dall’essere gli stessi consumatori e utenti
titolari di diritti identici.
Sono sufficienti questi indici per definire la classe e quindi per valutare la possibilità di coltivare l’azione di classe?
Cosa significa “omogeneità“ e “identità” dei diritti?
A questi interrogativi si può rispondere – per il momento – con altri interrogativi.
Può essere sufficiente considerare il titolo
in base al quale si agisce? Così sembrerebbe dal tenore del c. 3, per
il quale <l’adesione comporta rinuncia a ogni azione restitutoria o
risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo>. Ma l’
identità dei diritti, cioè la loro formale e/o sostanziale
corrispondenza deve essere ancora più profonda? Se il titolo discende
dal rapporto istituito con il convenuto, sarebbe sufficiente la
titolarità del diritto al risarcimento o alla restituzione, a sua volta
fondato sul contratto o sull’atto illecito? Si debbono anche
considerare le circostanze di fatto , cioè il tipo di danno subìto, il
nesso causale tra comportamenti e danno, la lesione dell’interesse
tutelato che porterebbero – in modo formalmente identico per tutti – a
radicare un’azione di classe risarcitoria o restitutoria? O è
sufficiente considerare come omogenei ed identici i diritti formalmente
vantati, senza riguardo alle specifiche circostanze in cui il danno si
è verificato? Cambierebbe la qualificazione della omogeneità e della
identità se l’azione anziché essere rivolta al risarcimento e alla
restituzione fosse circoscritta al mero accertamento del diritto?
La
dottrina non ha ancora sciolto il nodo delle domande che si possono
introdurre con l’azione di classe, perché, se si dovesse accedere alla
tesi per la quale l’espressione <accertamento della responsabilità e
condanna> impiegata nel c. 1 allude ad una duplicità di azioni , si
dovrebbe ammettere la proponibilità di un’azione di accertamento
indipendentemente dall’azione di condanna. Ma se le parole usate dal
legislatore dovessero essere intese in senso letterale, si potrebbe
argomentare in senso contrario, cioè nel senso della inscindibilità
delle azioni in forza del disposto del c. 12, secondo il quale <se
accoglie la domanda, il tribunale pronuncia sentenza di condanna….>.
Il
testo della disposizione si arresta alla qualificazione dei diritti, e
non si dilunga più di tanto nella individuazione dei criteri utili per
la loro qualificazione. In altri termini, fino a che punto si deve
spingere il processo di qualificazione dei diritti omogenei o identici?
Si deve ritenere che il danno lamentato dai proponenti sia identico
anche nell’ammontare? La risposta dovrebbe essere negativa. Rifacendosi
sempre alla lettera della norma , l’interprete nota che il c. 12
menziona le <somme definitive>, il che lascerebbe propendere per
una possibile differenza tra le somme liquidate a ciascun proponente o
aderente; e così quando il comma si riferisce al <criterio omogeneo
di calcolo per la liquidazione di dette somme>.
La formula di
diritti “omogenei”, diritti “identici”, situazioni “identiche”, e così
via può essere dunque assunta almeno in tre diverse accezioni, che
graduano o colorano il suo significato: quella di identità formale,
derivante dallo stesso titolo, quella di identità sostanziale,
derivante dalla stessa tipologia di danno, quella di identità assoluta,
consistente nella ripetitività delle situazioni per così dire
“fotografate” nella loro oggettività, divergenti tra loro solo per la
loro riconducibilità ai soggetti – questi sì non identici,ma accomunati
dal medesimo status – componenti della “classe”.
I problemi interpretativi , però, non finiscono qui.
In
altri termini, si deve considerare la “classe” come una categoria
unitaria, o si possono distinguere sotto-gruppi, sotto-classi,
sotto-categorie di diritti appartenenti ai soggetti inclusi nella
“classe” e protetti da una definizione ampia di essa?
Un esempio
emblematico della questione può tratto dalla casistica in materia di
violazione del dovere di informazione sulle caratteristiche dei
prodotti finanziari, sempre che si ritenga che l’azione di classe sia
applicabile anche a questa materia ( questione che si accennerà tra
poco) : vi sono casi nei quali il consumatore aveva sottoscritto moduli
predisposti dall’intermediario che consentivano a questo di scegliere
tra i prodotti finanziari, altri casi in cui il consumatore aveva
sottoscritto moduli di acquisto di prodotti non adeguatamente
illustrati , altri casi ancora in cui il consumatore aveva sottoscritto
moduli che contenevano clausole di recesso esperibile nella lunga
durata, altre volte ancora il consumatore non aveva sottoscritto moduli
di acquisto ma moduli di gestione del patrimonio; e casi in cui il
consumatore non aveva effettuato l’acquisto ma aveva rinvenuto i titoli
nel proprio portafoglio grazie ad un acquisto per così dire “imposto”.
Di più: in alcuni casi il consumatore aveva effettuato una pluralità di
investimenti, in altri casi gli investimenti erano stati effettuati in
tempi diversi; ancora, alcuni consumatori avevano dichiarato una bassa
propensione al rischio, in altri una media e in altri una alta
propensione .
Oppure, si pensi al danno alla salute derivante
dalla diffusione di una partita di cibo in scatola avariato: i danni
potrebbero riguardare diverse partite dei prodotti, diversi periodi di
tempo di immissione sul mercato, diversi riflessi sulla integrità
fisio-psichica, diverse tipi di danno patrimoniale correlati con
l’attività lavorativa che non si è potuta esercitare, diverse tipologie
di consumatori distinti per età ed esperienza, e così via.
In
tutti queste ipotesi si formano classi separate che richiedono azioni
separate oppure sottoclassi di una unica classe per un’unica azione di
classe?
3. Ambiti di tutela dei diritti e fondamento dell’azione di classe
Alcuni
dei problemi sopra accennati si erano già affacciati nel corso della
discussione della versione precedente del testo dell’art. 140 bis
cod.cons. Il primo fra tutti riguardava – e riguarda tuttora – il
significato della collocazione di questa disposizione nel contesto di
un codice di settore dedicato al consumo , e non nel codice di
procedura civile; si era poi sottolineato che il codice del consumo
attiene per l’appunto alla categoria economica e ai rapporti che si
intrecciano tra professionisti e consumatori e non è uno statuto dei diritti dei consumatori, anche se essi sono enunciati, in modo certamente non esaustivo, dall’art. 2 che apre il codice.
Di qui la sovrapposizione di diversi piani di tutela, tra loro non facilmente coordinabili.
Se
si interpreta la lettera restrittivamente, il nuovo strumento
processuale può essere utilizzato solo per la tutela dei diritti
elencati nelle lett. a), b), c) del c. 2 dell’art. 140 bis, ma non per
la tutela di tutti i diritti <riconosciuti come
fondamentali> dall’art. 2 del cod.cons., e ciò nonostante che i
diritti espressamente elencati come oggetto di tutela offerta
dall’azione di classe siano riconducibili ai diritti fondamentali ,
senza esaurirli interamente . Così accade per i “diritti contrattuali”:
per l’appunto i c.d. diritti contrattuali sono contemplati anche
all’art. 2, c. 2, lett. e), ove si sancisce il diritto dei consumatori
alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti
contrattuali. Così accade per il danno da prodotto: il danno da
prodotto è implicitamente considerato dalle lett. a) e b) dell’art. 2,
c. 2, ove si sancisce il diritto dei consumatori alla tutela della
salute e alla sicurezza della qualità dei prodotti e dei servizi; il
danno da pratiche commerciali scorrette può essere ricondotto alla
lett. c-bis) della medesima disposizione ove si sancisce il diritto dei
consumatori all’ esercizio delle pratiche commerciali secondo principi
di buona fede, correttezza e lealtà; il danno da comportamenti
anticoncorrenziali non è ricompreso nell’ elenco dei diritti
fondamentali del cod.cons., ma la Risoluzione comunitaria sulla tutela
del consumatore risalente al 1975 includeva tra i diritti dei
consumatori anche , genericamente, la tutela degli interessi economici,
tutela ribadita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione
europea , a cui ben possono afferire i diritti derivanti dalla
violazione di regole di concorrenza aventi effetti pregiudizievoli per
i consumatori.
Se si scorrono poi altre disposizioni contenute
nel codice del consumo, a questi diritti si debbono aggiungere i
diritti degli utenti pregiudicati dall’esercizio di attività televisive
e i diritti degli utenti derivanti dalla diffusione di messaggi
pubblicitari di medicinali per uso umano (art. 139, concernente la
legittimazione ad agire delle associazioni iscritte nell’elenco
ministeriale per promuovere l’azione inibitoria in materia).
Il
nuovo testo dell’art. 140 bis rimuove i dubbi sulla tutela degli
interessi collettivi dei consumatori, perché in tante occasioni
sottolinea come l’azione di classe così come congegnata sia rivolta a
proteggere solo diritti individuali. La dimensione “collettiva” però
non è stata definitivamente soppressa: la promozione dell’azione di
classe deve rispondere alla “apparenza” di tutela di un interesse della
classe. Non si deve poi passare sotto silenzio il fatto che l’art. 2
con cui si apre il codice del consumo si premura di enunciare il
riconoscimento e la garanzia dei <diritti e degli interessi
individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti >
promuovendone la protezione <anche in forma collettiva e
associativa>. La tutela degli interessi collettivi sembra dunque
circoscritta alla tutela inibitoria (artt. 139-140 cod. cons.).
L’azione
di classe è uno strumento che riguarda dunque alcuni diritti – non
tutti i diritti – dei consumatori. Sono dunque esclusi dall’ambito di
proponibilità dell’azione di classe i diritti fondamentali della persona
– intesi come diritti inviolabili costituzionalmente garantiti, i
diritti riconosciuti nella Carta dell’ unione europea e i diritti dell’
uomo protetti dalla Convenzione di Roma – e ciò nonostante che proprio
le grandi sfide della nostra epoca e il grado di democrazia di un Paese
si misurino sulla intensità/effettività della tutela dei diritti
fondamentali; anzi, questo settore appare come il più significativo
nella storia della giurisprudenza statunitense che ha consentito il
ricorso alla class action .
E’ escluso dall’ambito di
applicazione dello strumento processuale anche il diritto all’ambiente,
inteso sia come diritto alla salute leso da inquinamento o
deterioramento dell’ambiente, sia come interesse collettivo alla
conservazione dei beni ambientali; e ciò nonostante che i casi via via
sottoposti all’esame dei giudici – dalla vicenda della nube tossica di
Seveso a quella dei fanghi rossi di Scarlino, da quella dell’
inquinamento delle falde acquifere dovuto a scarichi industriali a
quella dell’ inquinamento del suolo cagionato da rifiuti radioattivi,
all’ inquinamento marino per il deposito di residui di cromo o per
l’avaria di una nave petroliera – siano assai eloquenti sulla esigenza
di assicurare alle vittime un adeguato rimedio processuale per rendere
efficiente, sollecita, semplificata la reazione dell’ordinamento di
fronte a disastri che colpiscono intere collettività.
E che dire
dei diritti dei risparmiatori – ormai per giurisprudenza consolidata (
e non solo per orientamento pressoché univoco della dottrina ) –
accomunati ai diritti dei consumatori, ma protetti in due testi unici,
il t.u. bancario e il t.u. sulla intermediazione finanziaria, estranei
al codice del consumo, salva la disciplina dei contratti a distanza di
servizi finanziari? In quanto tali non si potrebbero proteggere con
l’azione di classe, neppure se connessi ad un rapporto di credito al
consumo, a meno che non si facciano rientrare, ma ad altro titolo,
nella categoria dei “diritti contrattuali” – come si è proposto negli
esempi iniziali – o nei danni da comportamenti anticoncorrenziali.
Rimangono
poi estranei alla operatività dell’azione di classe – ma non all’azione
inibitoria di cui agli artt. 139 e 140 del cod.cons. – gli interessi
collettivi e gli interessi diffusi.
Le preoccupazioni
dell’interprete che si proponga di esaminare questa disciplina dal
punto di vista del diritto sostanziale non si esauriscono nelle
questioni che si sono accennate, perché
si estendono anche alle categorie dei diritti in cui l’azione di classe è esplicitamente garantita.
4. I “diritti contrattuali”
Il
c. 2 identifica uno dei settori capitali del mercato del consumo – i
vincoli negoziali istituiti tra consumatori e imprese – alludendo alla
tutela dei diritti che i consumatori possono proteggere anche facendo
ricorso alla azione di classe.
Questi diritti sono denominati
“contrattuali”: di solito ci si riferisce al diritto contrattuale come
ad una branca del diritto civile o ad una sezione dell’ordinamento
privatistico; qui la nozione è soggettivata, e pertanto si dovrebbe
intendere nel senso di diritti che derivano da fonte contrattuale, cioè
da un vincolo contrattuale istituito dal consumatore (o utente) con il
professionista, qui connotato come “imprenditore”.
I diritti che derivano da fonte contrattuale sono i più vari, stante l’orizzonte indefinito dell’autonomia contrattuale.
Nell’ambito
del “rapporto di consumo”, secondo il quale si articola la normativa
contenuta nell’apposito codice di settore, si disciplinano i contratti
del consumatore in generale, cioè le clausole vessatorie (art. 33 ss.),
la promozione delle vendite (art. 39 ss.) il credito al consumo (anche
se solo accennato per un rinvio) , la conclusione di contratti fuori
dei locali commerciali, la conclusione di contratti a distanza –
inclusi i servizi finanziari ai consumatori – la multiproprietà, i
servizi turistici, le clausole di esonero dalla responsabilità del
produttore (art. 1124) e le garanzie nella vendita (art. 128 ss.).
I
diritti riconosciuti dal codice del consumo sono irrinunciabili,
essendo nulla ogni disposizione in contrasto con il codice (art. 143).
Questo è, per scelta legislativa, il corpus delle regole sui contratti
del consumatore, a cui si applicano anche le regole sul contratto in
generale, ove non derogate dalle prime (art. 1469 bis cod.civ.).
Il
c. 2 non fa menzione, a proposito dei “diritti contrattuali”, della
disciplina contenuta nel codice del consumo , ma va da sé che la fonte
contrattuale primaria è costituita dai contratti del consumatore e
quindi dalle regole legislative e convenzionali che si applicano ad
essi. L’inciso <inclusi i diritti relativi a contratti
stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile> è
pertanto additivo. La conoscibilità delle condizioni generali di
contratto (art. 1341, c. 1), la inefficacia delle clausole vessatorie
elencate nel c. 2 della medesima disposizione, la prevalenza delle
clausole aggiunte su quelle predisposte in moduli o formulari (art.
1342) ampliano, in quanto possibile, l’ambito di tutela assicurato
dalle disposizioni contenute nel codice del consumo.
Il codice
del consumo, sempre con riguardo ai contratti del consumatore – e
quindi, ai diritti contrattuali che ne discendono – contiene una norma
di rinvio, l’art. 38, per la quale <ai contratti conclusi tra il
consumatore ed il professionista si applicano le disposizioni del
codice civile>. Ora, anche se si volesse circoscrivere la tutela ai
diritti contrattuali derivanti da rapporti istituiti con le imprese (e
non con tutti i professionisti) , ed anche se i diritti contrattuali
che si possono far valere con l’azione di classe debbono essere vantati
da una <pluralità di consumatori che versano (…) in situazione
identica>, rimarrebbero sempre prospettabili azioni di adempimento,
azioni di risoluzione, azioni di risarcimento del danno. Si può pensare
anche all’azione di nullità prevista dall’art. 36 cod. cons., che è una
azione di accertamento cui consegue però la restituzione? Oppure si può
pensare ad una nullità dichiarata incidentalmente con condanna al
risarcimento del danno ex art. 1338 c.c., oppure ad un risarcimento del
danno per violazione della correttezza e buona fede? E come si devono
intendere i rimedi collegati con le garanzie nella vendita?
O si deve pensare che la normativa riguardi solo i contratti redatto per iscritto e le singole claudsole che essi contengono?
Anche
la identità delle situazioni deve essere meditata. Se identità
significa identità di contratti conclusi dai consumatori che agiscono
mediante l’azione di classe o ad essa aderiscono, nulla quaestio. Ma
ciò significa anche identità di domande derivanti dalla violazione di
diritti contrattuali fondati sul medesimo contratto ? Se la domanda
riguarda una clausola di esonero da responsabilità contenuta nel modulo
contrattuale sottoscritto da una pluralità di consumatori, il giudice
può rilevare d’ufficio (come ha statuito di recente la Corte di
Giustizia dell’ Unione europea) la nullità di altre clausole? Si
debbono promuovere tante azioni di classe quante sono le clausole o i
gruppi di clausole che si vogliono colpire? Se la prima delle azioni di
classe promossa ne colpisce solo una, i suoi promotori o i consumatori
aderenti possono poi promuovere o aderire ad altre azioni di classe
avviate per colpire altre clausole del medesimo contratto diffuso dalla
medesima impresa? Se tutte le azioni promosse per ogni singola clausola
sono presentate dinanzi al medesimo giudice, questi può decidere di
riunirle?
5. I danni da prodotto
Il danno da
prodotto non colpisce solo il consumatore finale, ma ogni vittima che
sia venuta a contatto con il prodotto, come il semplice bystander ,
l’ospite, il componente della famiglia che non ha comprato il prodotto;
il “consumo” del prodotto non è necessario per potersi avvalere della
disciplina . Gli intenti della direttiva comunitaria , della disciplina
attuativa,e delle regole del codice del consumo che l’hanno recepita ,
agli artt. 114 ss.cod.cons., sono indubbi a questo proposito. Il testo
del c. 2, lett. b) che fa riferimento ai <diritti identici spettanti
ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del
relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto
contrattuale> dovrebbe essere dunque inteso nel senso che – come già
per l’interpretazione del cod.cons. – l’inserimento di queste
disposizioni nel codice di settore non implica una riduzione della
categoria dei soggetti tutelati , ma una interpretazione letterale
delle disposizioni non superabile – cioè non comprimibile – da quella
sistematica. Tutte le vittime di un prodotto difettoso possono invocare
questa disciplina, se hanno subito un danno dal prodotto. Certo la
disciplina qui prevista deve essere poi integrata da quella recata
dagli artt. 114 ss. cod. cons..
I soggetti sono tutelati <anche
a prescindere da un diretto rapporto contrattuale> con il
<relativo produttore>. L’azione ha natura extracontrattuale , se
si tratta di consumo o contatto con il prodotto; il consumatore o danneggiato possono avvalersene anche se non hanno istituto un rapporto contrattuale con il produttore. Sorgono però due questioni.
La
prima è se l’azione sia proponibile dall’acquirente, che sia
consumatore solo per status ma non abbia direttamente consumato il
prodotto e quindi non sia stato colpito nella sua integrità fisica, ma
abbia però istituito un rapporto contrattuale diretto con il produttore
. L’<anche> inserito nel testo sopra riportato porterebbe ad
ammetterlo.
La seconda è se legittimato passivo sia solo il
produttore, visto che il c. 2 della lett. b) si riferisce al
“produttore” senza definirlo. Il cod.cons. ne dà una definizione ampia,
che comprende anche altre categorie di professionisti . La formula
dell’art. 3, c. 1, lett. d) cod. cons. riprende le regole previste
dall’art. 116 cod. cons. sulla responsabilità del fornitore e
dell’importatore. Anche in questo caso occorre individuare la regola
interpretativa che collega l’art. 140 bis con le regole interne al
codice del consumo.
E’ necessario poi stabilire se si debba
istituire un collegamento delle disposizioni – processuali e
sostanziali – anche dal punto di vista del tipo di danno risarcibile e
delle condizioni di decadenza e prescrizione stabilite dal cod.cons. in
deroga al codice civile.
Ma questo rinvio alle regole sulla
responsabilità del produttore contenute nel codice del consumo non si
rinviene nel testo dell’art. 140 bis: ed allora, anche in questo caso,
o si ritiene che si tratti di una disciplina che si deve ricondurre in
via sistematica al contesto normativo nel quale essa è collocata, e
quindi deve essere integrata dalle disposizioni della materia, anche se
non esplicitamente richiamate, oppure si tratta di una disciplina che,
introducendo un nuovo strumento processuale, può esorbitare dall’ambito
del codice del consumo. Se così fosse, non si applicherebbero le
limitazioni riguardanti la tipologia dei danni risarcibili, la
decadenza e la prescrizione, e così via, ma se l’azione fosse fondata
sull’art. 2043 c.c. sarebbe dubbia la possibilità di imputare al
produttore una responsabilità oggettiva. Sul punto, per la verità, la
dottrina non è univoca, perché già in epoca anteriore alla attuazione
della direttiva comunitaria in materia si era convenuto da molti che si
fosse in presenza di responsabilità senza colpa.
6. Le garanzie nella vendita
Anche
i diritti derivanti dal contratto di vendita di beni di consumo hanno
natura contrattuale: pertanto i consumatore-acquirenti possono farli
valere, alle condizioni previste ,anche mediante azione di classe. Ciò
a duplice titolo: come diritti contrattuali derivanti da contratti
conclusi mediante moduli o formulari ex artt. 1341 e 1342 c.c., come
diritti contratti derivanti da un rapporti istituito con l’impresa
anche al di fuori della applicazione degli artt. 1341 e 1342 – ed
allora mi riferirei agli artt. 128 ss. del cod.cons. – e come soggetti
danneggiati dal prodotto, che si aggiungono alle categorie delle
vittime che non abbiano istituito un rapporto contrattuale con il
produttore.
I rimedi concessi dalla disciplina speciale del
rapporto di consumo rientrano nell’ambito della garanzia e quindi in
senso lato della responsabilità contrattuale (sostituzione ,
riparazione) a cui si può aggiungere il risarcimento del danno. Sarebbe
difficile impedire il ricorso a queste regole sol perché nel testo
dell’art. 140 bis non sono menzionate direttamente le garanzie nella
vendita.
7. I danni da pratiche commerciali scorrette
Il
riferimento alle pratiche commerciali scorrette consiste in una pura
menzione: non se ne dà la definizione, non si dice in che cosa possano
consistere la lesione subìta dal consumatore e il danno che ne possa
conseguire. E’ giocoforza dunque fare riferimento alla normativa ad
hoc, che si rinviene, sistematicamente articolata, nel codice del
consumo, nel capo secondo del titolo terzo, agli artt. 20 -26. Qui sono
previste le diverse tipologie tecniche e metodi con cui si possono
fornire od omettere informazioni al consumatore, creandogli quindi un
danno per la falsa rappresentazione della realtà che lo induce a
concludere il rapporto contrattuale per l’acquisto del prodotto o del
servizio oggetto dell’iniziativa dell’imprenditore, limitando la sua
libertà contrattuale e infliggendogli anche danni per le modalità con
cui queste pratiche sono condotte, ad es., violando la privacy ,
minacciandolo, vessandolo nelle forme più varie . Quanto alle
televendite – sempre che anch’esse siano riconducibili alle pratiche
commerciali scorrette , pur essendo disciplinate in un titolo diverso
(il quarto)del codice del consumo , si fa riferimento ad offese alla
dignità umana, alle discriminazioni, alla salute e alla sicurezza ,
alla protezione dell’ambiente (art. 30).
Il danno quindi può essere sia patrimoniale sia non patrimoniale, a seconda della natura dell’interesse leso.
8. I danni da comportamenti anticoncorrenziali
A
differenza degli altri temi che sono in qualche modo trattati nel
codice del consumo, i comportamenti anticoncorrenziali appartengono
alla disciplina speciale sulla concorrenza. Anche in questo caso non si
dànno definizioni , né vi sono rinvii normativi. Spetta dunque
all’interprete dare significato a questi comportamenti , che di volta
in volta possono essere intese (accordi o pratiche: art. 2, L. 10
ottobre 1990, n. 287) oppure comportamenti connessi all’ abuso di
posizione dominante (art. 3, L. cit.) nella misura in cui possano avere
riflessi sui singoli consumatori (non imprenditori). L’art. 33 della L.
cit. dispone che < le azioni di nullità e di risarcimento del danno
> per la violazione delle disposizioni di questa legge sono promossi
davanti alla corte d’appello competente per territorio.
Gli
studiosi di diritto processuale spiegheranno se debba prevalere la
specialità della materia oppure la specialità dello strumento
processuale e del rito ad esso connesso per radicare l’azione di classe
dinanzi al giudice delle questioni antitrust oppure dinanzi al giudice
della azione di classe.
Resta il fatto che la nozione di
comportamento anticoncorrenziale deve essere costruita dall’interprete
tenendo conto della giurisprudenza. Il caso più eclatante riguarda la
vicenda delle intese anticoncorrenziali tra alcune società di
assicurazione per la fissazione delle tariffe dell’assicurazione
obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione di
veicoli. Come è noto la questione si è avviata con il provvedimento
dell’ Autorità garante per la concorrenza e il Mercato n. 8546 del 28
luglio 2000, che ha sanzionato il comportamento delle società, la
sentenza del TAR Lazio n. 6139 del 5 luglio 2001 che ha confermato la
sanzione, la sentenza del Consiglio di stato n. 2199 del 26 febbraio
2002, che ha parzialmente modificato la pronuncia appellata, la
sentenza della Corte di Cassazione n. 2305/2007 con cui – in conformità a quanto già precisato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 2207/2005
– si stabilisce che il bene leso è la conservazione del carattere
competitivo del mercato. Il danno, in giurisprudenza talvolta
qualificato come arricchimento ingiusto, è invece classificato
nell’ambito della responsabilità extracontrattuale.
Tutta la
materia ha investito un’ampia attività degli organi comunitari diretta
alla istituzione del “private enforcement”, affidando quindi alle
iniziative dei privati lo stimolo per l’applicazione delle sanzioni,
ovvero la soluzione stessa – in senso sanzionatorio-risarcitorio –
delle violazioni della disciplina della concorrenza. Insomma, una sorta
di “controllo sociale delle attività d’impresa” svolto mediante
iniziative dei privati danneggiati con il concorso delle corti.
Anche
in questo caso possono nascere questioni di unitarietà della classe, o
di formazione di sotto-classi, atteso il tipo di lesione e quindi di
danno conseguente che il comportamento anticoncorrenziale abbia
cagionato. Una ricerca recente della Commissione europea registra la
varietà di orientamenti dei giudici nazionali a questo riguardo.
9. Alternative sulla applicazione della normativa
A questo punto si aprono alcune alternative nella definizione dell’ambito di applicazione della normativa in esame.
La
prima è data dalla interpretazione letterale delle disposizioni: in
base ad essa – attesa la terminologia molto ampia utilizzata dal
legislatore – la normativa va al di là dei confini del codice del
consumo, in quanto si estende ai contratti conclusi dai consumatori
sulla base degli artt. 1341 e 1342, dai quali discendono diritti non
garantiti dal codice del consumo, tutti i diritti derivanti dal consumo
di un prodotto, ai comportamenti anticoncorrenziali, ai casi di danno
da prodotto non contemplati nel codice del consumo. La seconda, di
natura sistematica, include nell’ambito di applicazione solo i diritti
dei consumatori garantiti dal codice del consumo, con le addizioni
esplicitamente previste dal testo della normativa. Anche a questo
riguardo però i dubbi permangono, perché il codice del consumo fa
rinvio in più punti alla disciplina generale del codice civile , e
quindi nel novero dei diritti dei consumatori si dovrebbero includere
anche i diritti fondati sulle regole del codice civile. Il codice del
consumo rinvia anche alla disciplina del credito al consumo contenuta
in altra legge speciale. Seguendo il principio della estensione
dell’applicazione per rinvio, anche quest’area dovrebbe essere inclusa.
10. Il “filtro” dell’azione di classe
Al
fine di evitare un eccessivo ricorso a questo strumento e per prevenire
iniziative giugulatorie nei confronti delle imprese, insomma, per
evitare l’abuso del processo, il testo ha allestito un percorso
piuttosto complesso, che può apparire una sorta di campo minato. E’ un
nuovo filtro collegato con requisiti processuali, oltre che con le
limitazioni derivanti dal diritto sostanziale. L’adesione comporta
rinuncia ad ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata
sul medesimo titolo (c. 3); il tribunale decide all’esito della prima
udienza sulla ammissibilità della domanda, che può essere
manifestamente infondata, presentare conflitto d’interessi o essere
proposta da soggetti titolari di diritti non identici, o che non curino
adeguatamente l’interesse della classe (c. 6); in caso di
inammissibilità si possono liquidare le spese per lite temeraria (c.
8); perché la domanda sia procedibile, una volta ammessa l’azione,
occorre darne opportuna pubblicità , e il tribunale definisce i
caratteri dei diritti individuali , fissando un termine perentorio per
il deposito degli atti di adesione (c. 9); si prevede una specifica
competenza per materia e una specifica competenza per territorio, la
concentrazione delle azioni di classe aventi il medesimo oggetto, un
potere discrezionale del giudice nel fissare le regole e le fasi
processuali e persino le preclusioni; si discute se si possano
presentare istanze di misure cautelari; nulla dice il testo sulla
eventuale impugnazione della decisione del tribunale.