Laurearsi? Meglio vicino casa. “Ora i costi sono insostenibili”
Sono quasi sempre i primi a portare il titolo di laurea nella famiglia di origine, ma preferiscono farlo vicino casa. Anche perché i costi sono diventati quasi insostenibili. Frequentano di più le aule, hanno buoni voti e fanno molte più esperienze di lavoro duranti gli studi. Ma appena concludono il loro percorso, se possono, lasciano l’Italia. Sono questi alcuni dei tratti principali delineati dal XIII rapporto di AlmaLaurea, presentato oggi all’università di Sassari, che ha analizzato il profilo di più di 190 mila laureati usciti dagli atenei nel 2010.
Così vicini, così lontani. Il 51 per cento dei laureati ha ultimato i propri studi in un’università nella provincia di residenza. Oltre due punti percentuali in più di quanto non succedeva solo qualche anno fa. E a farlo sono soprattutto i laureati di primo livello. Le ragioni non sono difficili da comprendere. Sono sempre di più le famiglie che fanno i conti con crescenti difficoltà economiche e mandare un ragazzo a studiare fuori vuol dire spendere molto. Allo stesso tempo però, così come si sta più vicini a casa mentre si studia, non appena si finisce di fare avanti e indietro con le aule, ci si allontana sempre di più. “Alla storica mobilità per studio e lavoro lungo la direttrice Sud-Nord che continua a caratterizzare il nostro Paese – spiega Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea – si affianca, da qualche tempo, con un’intensità crescente che registra le difficoltà di crescita del Paese, quella verso i paesi esteri”. Più di quanto non succedesse fino a poco tempo fa. “Le difficoltà a trovare un’adeguata collocazione nel proprio Paese – prosegue Cammelli – spinge i laureati del nuovo ordinamento, più di quanto non si sia verificato nel 2004, a rendersi disponibili a varcare le Alpi e anche l’Oceano”.
Gli studi di oggi e di ieri. In questo ultimo anno, ad ogni modo, i laureati sono riusciti a concludere il loro percorso prima dei loro fratelli maggiori. Il rapporto, con l’obiettivo di accertare le caratteristiche del capitale umano formato nel sistema universitario italiano, li ha messi a confronto con i laureati del 2004. Al netto del ritardo all’immatricolazione, oggi i ragazzi si laureano a meno di 25 anni mentre prima dovevano quasi compierne 27. Ovviamente quello dei laureati è un universo caratterizzato da ampie differenze. Tra quelli del triennio, i più rapidi sono quelli di ingegneria, psicologia, dei gruppi chimico-farmaceutico, linguistico, scientifico e economico-statistico. Nel loro caso, quasi quattro su dieci riescono a concludere gli studi a meno di 23 anni.
I voti e gli stage. Anche in altri parametri, come la votazione finale, la frequenza delle lezioni e le esperienze di lavoro, emergono significativi miglioramenti. Oggi seguono regolarmente le lezioni in aula il 67,8 per cento degli studenti mentre prima erano solo il 55,4 per cento. Sono quasi triplicate, poi, le esperienze di stage e tirocinio. Il 56,8 per cento dei laureati del 2010 ne ha svolto uno mentre succedeva lo stesso solo al 19,8 per cento di quelli del 2004. La votazione, d’altronde, è rimasta pressoché costante e intorno a 103 su 110.
La prima volta. C’è poi un fenomeno importante e forse non ancora sufficientemente sottolineato per le sue implicazioni. Il 72 per cento dei laureati del 2010 porta per la prima volta il titolo nel proprio nucleo familiare. Più spazio in questi anni anche a chi appartiene a ambiti familiari meno agiati. “I giovani di origine sociale meno favorita – scrivono gli autori del rapporto – che fra i laureati del 2004 costituivano il 19,5 per cento, sei anni dopo sono diventati 24, e risultano ancora più numerosi fra i laureati di primo livello (26 per cento)”.
Più inglese e informatica. Continua, per altro, a crescere la quota (+ 8 per cento) di chi dichiara di conoscere a un livello almeno buono la lingua inglese. Sia parlata, sia scritta. Così come si riscontra un’accresciuta familiarità con quelli che sono ormai strumenti necessari per quasi ogni tipo di lavoro. I laureati di quest’anno hanno una buona conoscenza di fogli elettronici, strumenti multimediali e sistemi operativi in una proporzione superiore al 13 per cento rispetto a quella di chi aveva ultimato gli studi nel 2004.
Le performance di un’università. C’è poi il tema della valutazione degli atenei. Per gli autori del rapporto, a questo fine, è cruciale riuscire a considerare il valore aggiunto e a determinare in che modo, a parità di condizioni di partenza, il singolo ateneo o la singola facoltà riescono a far crescere lo studente. A questo fine, il professore Francesco Ferrante, economista dell’Università di Cassino, sta mettendo a punto un’indagine “pilota” sulle facoltà di ingegneria. L’obiettivo è quello di capire come varia la graduatoria delle facoltà, per numero di studenti in corso, se si prende in considerazione anche la situazione iniziale degli studenti. “Il policy maker – spiega Ferrante – dovrebbe essere interessato a destinare risorse pubbliche in funzione della produttività delle istituzioni universitarie piuttosto che in base agli esiti in uscita dei laureati”.
Le qualità negata delle donne. Il rapporto dedica anche un approfondimento ai risultati raggiunti dalle laureate. Quasi sempre migliori dei loro coetanei. E esprime anche legittime preoccupazioni. Oggi le donne rappresentano il 60 per cento del complesso dei laureati e hanno votazioni più elevate in un sempre più ampio ventaglio di percorsi disciplinari. Eppure, a loro, all’interno del mercato del lavoro, non viene ancora riconosciuto un adeguato spazio.
I necessari investimenti. Quanto infine alla qualità degli studi, davanti all’interrogativo se istruzione di massa coincida con un aumento delle diseguaglianze in termini di opportunità formative, Cammelli risponde che “investire di più e meglio nell’istruzione di terzo livello e in ricerca non può che essere l’obiettivo a cui tendere. Per garantire un futuro alle giovani generazioni capaci e meritevoli e al mondo produttivo impegnato a competere sui mercati internazionali. E all’intero Paese”.