Le donne, come gli uomini, rimangono al lavoro fino al 65° anno di età
«I precetti costituzionali, di cui agli artt. 3 e 37 (primo comma),
non consentono di regolare l’età lavorativa della donna in modo
difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per quanto
concerne il limite massimo di età, ma anche riguardo alle condizioni
per raggiungerlo».
Lo ha deciso la Corte
costituzionale, che ha dichiarato, con la sentenza 275/2009,
l’illegittimità dell’art. 30 del dlgs 198/2006 (Codice delle pari
opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico
della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro (del
comparto privato) oltre il sessantesimo anno di età, l’onere di dare
tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro,
da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del
diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte in cui fa dipendere
da tale adempimento l’applicazione al rapporto di lavoro della tutela
accordata dalla legge sui licenziamenti individuali.
In sostanza tra impiego pubblico e impiego privato scompare l’ultima fondamentale diversità.
SENTENZA N. 275 – ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
– Francesco AMIRANTE Presidente
– Ugo DE SIERVO Giudice
– Paolo MADDALENA “
– Alfio FINOCCHIARO “
– Alfonso QUARANTA “
– Luigi MAZZELLA “
– Gaetano SILVESTRI “
– Sabino CASSESE “
– Maria Rita SAULLE “
– Giuseppe TESAURO “
– Paolo Maria NAPOLITANO “
– Giuseppe FRIGO “
– Alessandro CRISCUOLO “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 30 del decreto
legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra
uomo e donna), promosso dal Tribunale di Milano nel procedimento
vertente tra Caterina Giovinazzo e la Manutencoop Facility Management
S.p.A., con ordinanza del 1° dicembre 2008, iscritta al n. 91 del
registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 ottobre 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella.
Ritenuto in fatto
1.
– Con ordinanza emessa il 1° dicembre 2008, il Tribunale di Milano ha
sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 30
del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari
opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico
della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre
il sessantesimo anno di età – a differenza di quanto previsto per il
lavoratore di sesso maschile – l’onere di dare tempestiva comunicazione
della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre
mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di
vecchiaia, pena la recedibilità ad nutum di quest’ultimo dal rapporto
di lavoro.
Riferisce il rimettente che, con ricorso ex art.
414 c.p.c., la signora Caterina Giovinazzo aveva convenuto in giudizio
l’impresa Manutencoop Facility Management S.p.A., per impugnare il
licenziamento a lei intimato in data 9 maggio 2007. La ricorrente aveva
esposto di essere stata licenziata in data 9 maggio del 2007 per avere
raggiunto l’età pensionabile, senza anticipatamente manifestare la
propria intenzione di volere proseguire nel rapporto di lavoro. La
difesa di parte ricorrente, insistendo per l’accertamento della
illegittimità del recesso, aveva sollevato eccezione di legittimità
costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 4, 27 e 35 della Carta
costituzionale, della disposizione di cui all’art. 30 del d.lgs. 11
aprile 2006 n. 198, che, a suo dire, aveva reintrodotto lo stesso onere
di comunicazione già dichiarato incostituzionale con ripetuti
pronunciamenti della Corte costituzionale (sentenze n. 138 del 1986, n.
498 del 1988 e n. 256 del 2002).
Il rimettente ricorda che
la Corte costituzionale aveva dichiarato dapprima l’illegittimità
costituzionale dell’art. 11 della legge n. 604 del 1966 e di altre
disposizioni connesse (sentenza n. 137 del 1986), «nella parte in
cui prevedono il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi,
il licenziamento della donna lavoratrice per questo motivo, al
compimento del cinquantacinquesimo anno d’età, anziché al compimento
del sessantesimo anno come per l’uomo», giudicando ormai venute meno
quelle ragioni e condizioni che in precedenza potevano giustificare una
differenza di trattamento della donna rispetto all’uomo, e, di
riflesso, illegittima qualsiasi disposizione che differenziasse
l’applicazione dei diritti di tutela del posto di lavoro alla
condizione di essere lavoratore uomo, ovvero lavoratrice donna.
In
seguito, anche l’onere, introdotto dall’art. 4 della legge 9 dicembre
1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di
lavoro), di comunicare anticipatamente al datore di lavoro la propria
intenzione di proseguire a lavorare fino agli stessi limiti di età
fissati per gli uomini, era stato parimenti dichiarato
incostituzionale.
Detti principi, prosegue il
rimettente, venivano poi ulteriormente ribaditi dalla pronunzia n. 256
del 2002, laddove si afferma, in sintesi, che «i precetti
costituzionali di cui agli artt. 3 e 37, primo comma, non consentono di
regolare l’età lavorativa della donna in modo difforme da quello
previsto per gli uomini, non soltanto per quanto concerne il limite
massimo di età, ma anche riguardo alle condizioni per raggiungerlo».
Sennonché,
riferisce il Tribunale di Milano, il legislatore, tramite l’art. 30 del
d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e
donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246),
nel ribadire il pieno diritto delle donne lavoratrici di continuare a
lavorare fino agli stessi limiti di età fissati per gli uomini, di
fatto ha reintrodotto le disposizioni in materia di preventiva
dichiarazione di opzione al datore di lavoro, nel senso di subordinare
il diritto della donna lavoratrice alla stabilità del rapporto di
lavoro fino al sessantacinquesimo anno di età, ad una esplicita e
preventiva manifestazione di volontà.
Tanto premesso, il
Tribunale rimettente dubita che la pure constatata esistenza di una
normativa di carattere previdenziale più favorevole per le donne, possa
essere tale da giustificare una tutela differenziata in materia di
licenziamenti.
Infatti, le argomentazioni che avevano già in
passato indotto la Corte costituzionale a dichiarare illegittima e
priva di una logica giustificatrice l’introduzione di un obbligo per le
lavoratrici donne, quale condizione per rendere applicabile la
normativa vincolistica sui licenziamenti, non solo appaiono al
rimettente di rinnovata attualità, ma addirittura rafforzate proprio
alla luce delle penetranti modifiche che si sono venute a determinare
nel mercato del lavoro e nella struttura della società italiana (ed
europea), che sempre più valuta come radicalmente inattuale qualsiasi
differenziazione di norme e/o di trattamenti in funzione del sesso.
Nella
fattispecie, quindi, siccome la richiesta opzione discrimina la donna
rispetto all’uomo per quanto riguarda l’età massima di durata del
rapporto di lavoro e, quindi, la diminuita tutela della lavoratrice in
tema di licenziamento, sussisterebbe la violazione dell’art. 3 Cost.,
non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e
dell’art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità
uomo-donna in materia di lavoro.
2. – E’ intervenuto
in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato ed ha chiesto che la
questione sia dichiarata infondata.
Secondo la difesa
erariale, la circostanza che la facoltà della donna di restare in
servizio sino all’età massima prevista per gli uomini sia subordinata,
dall’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, all’onere di una
preventiva comunicazione al datore di lavoro non sarebbe
discriminatoria rispetto all’uomo né sotto il profilo della violazione
dell’art. 3 Cost. né sotto il profilo della violazione dell’art. 37
Cost., essendo mutato il quadro normativo di riferimento rispetto alla
sentenza n. 498 del 1988.
Essendo, infatti, facoltà della
lavoratrice avvalersi o meno della possibilità di prolungare il
rapporto di lavoro fino al limite massimo di 65 anni, subordinare la
continuazione del rapporto ad una tempestiva comunicazione al datore di
lavoro, afferma l’Avvocatura, si giustifica perfettamente con le
esigenze organizzative di questo e la necessità per lo stesso di
conoscere per tempo le determinazioni del proprio dipendente in
proposito.
Parimenti infondato, per il Presidente del
Consiglio, sarebbe anche l’ulteriore parametro costituzionale invocato
a sostegno della denunciata incostituzionalità della norma e basato su
una presunta discriminazione delle donne lavoratrici in assenza di un
analogo obbligo per i lavoratori. Infatti, la previsione dell’obbligo
della comunicazione per le sole donne si giustificherebbe sempre con
l’originaria diversa disciplina in materia di età pensionabile.
Secondo
il Presidente del Consiglio, poiché è riconosciuta solo alle
lavoratrici donne la possibilità prolungare la propria età lavorativa
fino a quella prevista per gli uomini, in un’ottica di parificazione
totale tra i due sessi, ma nella salvaguardia di vecchi principi e
diritti, e non prevedendosi un’analoga possibilità di prolungamento del
rapporto di lavoro per gli uomini, come tali tenuti ad andare in
pensione al raggiungimento dei 65 anni, l’obbligo della comunicazione
non potrebbe che essere imposto alla sole donne, non essendo
concepibile un obbligo di comunicazione per una facoltà non
riconosciuta.
Considerato in diritto
1.
– Il Tribunale di Milano dubita, con riferimento agli articoli 3, 4, 35
e 37 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo
30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra
uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice
che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo
anno di età – a differenza di quanto previsto per il lavoratore di
sesso maschile – l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria
intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima
della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia,
pena la recedibilità ad nutum da parte di quest’ultimo dal rapporto di
lavoro.
2. – Nella legislazione precedente, il principio di
cui all’art. 11 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (Norme sui
licenziamenti individuali), che sanciva la radicale inapplicabilità
della tutela contro i licenziamenti illegittimi alle lavoratrici che
fossero rimaste in servizio oltre il raggiungimento della loro età
pensionabile (allora prevista in 55 anni), era stato temperato
successivamente dall’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità
di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), in base al
quale, alla maturazione di detta età pensionabile, le lavoratrici ben
potevano restare in servizio fino al raggiungimento dell’età lavorativa
massima prevista per gli uomini (all’epoca 60 anni), a condizione che
comunicassero tale loro opzione al datore di lavoro tre mesi prima del
raggiungimento dell’età pensionabile.
Le ora riportate
disposizioni avevano formato oggetto di due successivi interventi da
parte di questa Corte. Con la sentenza n. 137 del 1986, sul presupposto
che l’avvento di nuove tecnologie e metodi di produzione e di riforme
intervenute nel campo del diritto del lavoro aveva reso il lavoro
femminile meno usurante e più sicuro, era stato dichiarato illegittimo,
in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 37 Cost., l’art. 11 della legge n.
604 del 1966, nella parte in cui prevedeva il conseguimento della
pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna
lavoratrice per detto motivo, al compimento del cinquantacinquesimo
anno di età anziché al compimento del sessantesimo anno come per
l’uomo. In altri termini, si riconosceva, alla medesima lavoratrice, la
scelta se essere collocata a riposo alla stessa età degli uomini,
conservando la piena tutela contro il licenziamento ingiustificato, o
se andare in pensione anticipatamente.
Restava tuttavia in
vigore la previsione, contenuta nell’art. 4 della legge n. 903 del
1977, dell’onere, per la donna che scegliesse di restare in servizio
oltre l’età pensionistica, di comunicare al datore di lavoro tale
opzione tre mesi prima della data di scadenza, pena la perdita da parte
della stessa della tutela contro i licenziamenti ingiustificati.
Ebbene, anche tale previsione, in tutto corrispondente a quella oggetto
dell’odierna questione, veniva dichiarata illegittima, in riferimento
agli artt. 3 e 37 della Costituzione, con la sentenza n. 498 del 1998,
“nella parte in cui subordina il diritto delle lavoratrici, in possesso
dei requisiti per la pensione di vecchiaia, di continuare a prestare la
loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da
disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, all’esercizio
di un’opzione in tal senso, da comunicare al datore di lavoro non oltre
la data di maturazione dei predetti requisiti”. Nella citata pronuncia,
la Corte affermava che anche la previsione di un simile onere
discrimina «la donna rispetto all’uomo per quanto riguarda l’età
massima di durata del rapporto di lavoro stabilita da leggi,
regolamenti e contratti, e, quindi, la protrazione del rapporto [.],
non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e [.]
risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di
lavoro», e ribadiva che «l’età lavorativa deve essere eguale per la
donna e per l’uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a
conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno di età,
onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che
non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non
esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della
lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione».
3.
– La questione sottoposta ora all’esame della Corte è fondata in
relazione ai medesimi parametri degli artt. 3 e 37 della Costituzione.
Nessuna
delle disposizioni di legge intervenute in materia nell’arco temporale
intercorso tra le disposizioni dichiarate illegittime da questa Corte e
l’odierna questione di costituzionalità ha in alcun modo alterato i
termini del problema.
Nel periodo indicato, ben vero, si è
realizzato, a più scaglioni, un complessivo spostamento in avanti
dell’età pensionistica di uomini e donne. L’art. 1 del d.lgs. 30
dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema
previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3
della legge 23 ottobre 1992, n. 421), emesso in attuazione di tale
legge, ha infatti disposto, secondo quanto indicato in una tabella
allegata al decreto stesso poi sostituita dall’art. 11 della legge 23
dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica), per il periodo compreso tra il primo gennaio 1994 e il 31
dicembre 1999, una elevazione graduale dei limiti di età
rispettivamente previsti per gli uomini e per le donne (compresa, per i
primi, tra i sessantuno e i sessantaquattro anni e per le donne tra i
cinquantasei e i cinquantanove anni) fino a pervenire, con la
disciplina “a regime”, decorrente dal 1° gennaio 2000, alla
introduzione del limite di sessantacinque anni di età per gli uomini e
sessanta anni per le donne.
Tali interventi normativi,
tuttavia, non hanno inciso sulla persistente validità delle precedenti
statuizioni di questa Corte, in quanto non hanno determinato alcuna
alterazione della portata e dell’incidenza della disposizione oggi
censurata, identica a quella già dichiarata incostituzionale.
Infatti,
come questa Corte ha già chiarito nella sentenza n. 256 del 2002, «le
innovazioni introdotte [.] non hanno violato il principio
costituzionale della parità tra uomo e donna riguardo all’età
lavorativa, più volte affermato da questa Corte in quanto sancito dagli
artt. 3 e 37 della Costituzione. Infatti, mentre le diverse
disposizioni che hanno in vario modo ampliato la possibilità di fare
ricorso al pensionamento c.d. posticipato, originariamente introdotto
dall’art. 6 del d.l. 22 dicembre 1981, n. 791 (Disposizioni in materia
previdenziale), convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54, non
contengono alcuna diversità di disciplina tra i lavoratori dei due
sessi, le altre disposizioni hanno esclusivamente innalzato i limiti
della età pensionabile perpetuando in riferimento a tale età, sia pure
con uno spostamento in avanti, la differenza già esistente tra uomini e
donne, la quale continua a costituire un giustificato beneficio per
queste ultime, ma non hanno in alcun modo reintrodotto per le donne la
correlazione tra età pensionabile ed età lavorativa.».
4.
– La disposizione censurata con l’odierno incidente di
costituzionalità, ha dunque introdotto, in un contesto normativo non
alterato, per quanto rileva in questa sede, dalle pur numerose novità
legislative apportate, una norma dal medesimo contenuto precettivo
dell’art. 4 della legge n. 903 del 1977, la cui illegittimità
costituzionale è stata dichiarata da questa Corte con la citata
sentenza n. 498 del 1998. Tale disposizione, nel subordinare il
riconoscimento della tutela contro il licenziamento ingiustificato al
rispetto di un onere di comunicazione perfettamente coincidente con
quello già dichiarato illegittimo da questa Corte, realizza la medesima
discriminazione tra lavoro maschile e lavoro femminile già
stigmatizzata in tale occasione.
Anche nella
disposizione oggi censurata, l’onere di comunicazione posto a carico
della lavoratrice, infatti, condizionando il diritto di quest’ultima di
lavorare fino al compimento della stessa età prevista per il lavoratore
ad un adempimento – e, dunque, a un possibile rischio – che, nei fatti,
non è previsto per l’uomo, compromette ed indebolisce la piena ed
effettiva realizzazione del principio di parità tra l’uomo e la donna,
in violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna
ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando
nuovamente leso il principio della parità uomo-donna in materia di
lavoro.
Né la reintroduzione di un istituto, quale
l’onere di comunicazione, già dichiarato illegittimo da questa Corte
può essere ritenuta giustificata in ragione di una maggiore
considerazione delle esigenze organizzative del datore di lavoro, dato
che, proprio per effetto dell’invocata declaratoria di illegittimità
costituzionale, quest’ultimo, nell’organizzare il proprio personale
dovrà considerare come normale la permanenza in servizio della donna
oltre l’età pensionabile e come meramente eventuale la scelta del
pensionamento anticipato, nella prospettiva, già indicata da questa
Corte, della tendenziale uniformazione del lavoro femminile a quello
maschile.
5. – Va dunque dichiarata, in riferimento agli
artt. 3 e 37 della Costituzione, l’illegittimità costituzionale
dell’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari
opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico
della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre
il sessantesimo anno di età, l’onere di dare tempestiva comunicazione
della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre
mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di
vecchiaia, e nella parte in cui fa dipendere da tale adempimento
l’applicazione al rapporto di lavoro della tutela accordata dalla legge
sui licenziamenti individuali.
6. – Le questioni relative agli artt. 4 e 35 della Costituzione restano assorbite.
per questi motivi
la Corte costituzionale
dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 del decreto legislativo 11
aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna),
nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda
proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età,
l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al
datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di
perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte
in cui fa dipendere da tale adempimento l’applicazione al rapporto di
lavoro della tutela accordata dalla legge sui licenziamenti individuali.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009.
Francesco AMIRANTE, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere