LE INEFFICIENZE ITALIANE / Se la scuola è meritocratica il paese migliora
Se non c’è cultura del merito in Italia, la colpa è della scuola.
Questo sembrano dire i tanti che, in questo inizio d’anno scolastico,
hanno voluto ricordare i guasti del ’68 nel nostro sistema di
istruzione, con la sua cultura egualitaria. Eppure, con tutti i loro
limiti, scuola ed università restano le sole istituzioni che ancora
prendono il rischio di formulare un giudizio, anche quantitativo, sul
valore delle persone. Dopo di che, le cose cambiano radicalmente.
È
la nostra società che non è basata sul merito, ma sulle relazioni, le
appartenenze, le parentele, il conformismo. Come può una scuola da sola
contrastare tutto questo? Quando uno studente termina gli studi e cerca
un lavoro, la prima cosa che fa è rivolgersi alla famiglia ed agli
amici. Niente di male, ovviamente. In tutti i paesi ci sono le
segnalazioni per favorire la ricerca del lavoro. Ma queste altrove si
chiamano “referenze”, mentre da noi assumono il nome di
“raccomandazioni”. C’è una bella differenza. La referenza impegna la
reputazione di chi la fa: se io segnalo una persona per un lavoro e ne
decanto le qualità, mi assumo la responsabilità delle mie affermazioni.
Se non sono corrispondenti al vero, la mia reputazione scende e le mie
successive segnalazioni non avranno peso. Se invece raccomando una
persona, chiedo a qualcuno di fare un favore a me, indipendentemente
dai meriti di chi è stato raccomandato. Il favore verrà accordato solo
se, poi, a mia volta sarò disponibile a ricambiare il favore. E la
catena cresce e si intreccia.
Non tutto avviene così in Italia,
ovviamente. Ci sono anche segnalazioni corrette e ci sono persone
valutate sul merito. Ma questo non è il sistema usuale. D’altro canto,
siamo un paese dove la famiglia conta, eccome. Se guardiamo al mondo
delle professioni, è giocoforza constatare che i figli seguono le orme
dei padri. Ovvia soluzione, si dirà. Uno studio professionale ben
avviato è un patrimonio che si passa da padre in figlio. E poi, a forza
di frequentare l’ambiente professionale, il figlio acquisisce
conoscenze e competenze che lo rendono professionalmente forte. Tutto
vero, ma con una massa di professionisti così estesa e con un sistema
di ordini che, in alcuni casi, funzionano da circoli chiusi, è
difficile per un giovane, senza genitori o amici già nel ramo, poter
emergere. Ci riuscirà, se è bravo. Ma, appunto, deve veramente essere
bravo. O deve sposare chi già occupa quel ruolo. E il caso non si
limita alle professioni. Registi, attori, cantanti, hanno tutti figli
predestinati, tanto che dal dopoguerra ci ritroviamo sempre con gli
stessi nomi sui manifesti cinematografici, al teatro, in tv, come se il
tempo si fosse fermato.
Ma, qualcuno dirà, c’è l’impresa privata. Se
non fa valere il merito, fallisce. Vero. Ma è anche vero che il
fallimento è in Italia un evento molto raro e giuridicamente difficile.
Sicché, prima di fallire, c’è tempo per fare guasti (e arricchirsi
comunque). È così che, in un paese dove la proprietà delle imprese è
essenzialmente familiare, la gestione passa dai genitori ai figli e ai
parenti. Certo, questi poi selezioneranno i dipendenti sulla base del
merito (si spera). Ma spesso, nelle aziende familiari, dove ci sono
cordate di fratelli e cugini, la cultura prevalente è di tipo
relazionale. Ossia si assumono e fanno carriera coloro che sono più
fedeli e consenzienti. I quali, peraltro, hanno ambizioni limitate
perché sanno di non poter accedere ai vertici, già predestinati a
membri della famiglia. Con i quali cercheranno di stabilire relazioni
strette per partecipare alle loro fortune. Il merito c’è, ma passa in
seconda linea, dopo la relazione. Non bisogna generalizzare. Ci sono
aziende familiari che scelgono solo sulla base del merito. Ma troppo
spesso vediamo aziende seguire la parabola della famiglia.
La grande
impresa potrebbe fare eccezione. Spesso non c’è un socio che controlla
tutto. Ci sono i manager che sono selezionati per le loro capacità. Ma
anche la cultura manageriale, se non corretta da azionisti lungimiranti
ed occhiuti, tende a chiudersi nell’ambito delle relazioni. Le
partecipazioni incrociate sono sistemi nei quali i manager si
sostengono a vicenda, magari con patti di sindacato. A loro volta, i
manager, quando entrano in una azienda, “occupano” tutte le prime
posizioni con una loro squadra. Per essere subito attivi ed efficaci,
essi dicono. Ma questo modo di agire deprime le professionalità interne
e spinge la cultura aziendale verso il conformismo. Si progredisce solo
se si fa parte di una squadra. Se si accettano certi condizionamenti.
Ancora una volta, si dirà, se le scelte sono errate poi c’è la vendetta
del mercato. Si, ma questa tarda a venire e spesso i manager colpevoli
(e molti della loro squadra) sono già usciti con qualche ricco bonus
retributivo. Ciò che conferma che il merito non sempre paga, ovvero che
la relazione paga di più.
Che dire poi della politica dove
l’elezione di un deputato non dipende dal voto, ma dalle scelte della
segreteria del partito o del capo? Se l’esempio viene dall’alto, come
possiamo poi prendercela con la scuola? In realtà, non esiste, una
società che si basi tutta sul merito. E d’altra parte bisognerebbe
discutere anche su come e chi gestisce la valutazione di merito.
Relazioni e parentele hanno un valore che non può essere disconosciuto
in nessun paese. L’importante è che esse non soffochino la società e
consentano una certa dose di ricambio. E, comunque, chi ha raggiunto
posizioni attraverso le relazioni, almeno si sforzi di meritare dopo
quello che ha avuto prima.Per far questo, serve anche una scuola più meritocratica. Ma serve
soprattutto una politica ed una società più aperta e trasparente, dove
l’esempio della moralità e del merito venga dall’alto. Come ha
giustamente detto il presidente Giorgio Napolitano, nell’inaugurare
l’anno scolastico 2009-2010.