Lecito dare del “pazzo” al capo
“Pazzo”, “scemo”, “cretino”: il linguaggio si adegua all’e(invo)luzione sociale e recepisce una serie di insulti come appellativi comuni privi di valenza diffamatoria, anche in contesti professionali.
Il fatto
La Corte Suprema con la sentenza
n. 17672/10 accoglie, su queste basi, il ricorso presentato da un
avvocato romano e annulla la condanna al risarcimento dei danni emessa
nei suoi confronti dalla Corte d’appello della capitale. Il tutto si
svolge all’interno di uno studio legale gestito in modo troppo burocratico, in cui a fronte del dominus che comanda c’è un manipolo di colleghi pronti a compiacere il capo in ogni situazione.
Nel dettaglio:
un collaboratore dello studio, nel commentare una nota interna con
l’addetta all’ufficio contabilità, dichiara di essere aperto al
confronto diretto col titolare, dal momento che lui ben si distingue da
un’altra legale dello studio abituata ad essere accondiscendente in
tutto e per tutto col dominus. Lo sfogo ha soli due spettatori, ma
l’addetta alla contabilità ne riferisce zelantemente il contenuto in
una lettera al titolare dello studio e il collaboratore soggetto delle
invettive si ritrova querelato per diffamazione. Assolto in primo
grado, ritenuto colpevole in appello, si rivolge alla Cassazione.
Il contesto
Dalla ricostruzione degli ermellini si coglie che da tempo i rapporti all’interno dello studio circa l’organizzazione dello stesso fossero conflittuali. Oggetto della contestazione, in particolare, l’organizzazione di tipo burocratico dello studio professionale.
I
giudici della V sezione penale di Cassazione chiariscono che le
espressioni utilizzate in quest’ambito erano rivolte chiaramente ai
colleghi, «sempre proni a qualsivoglia direttiva del capo dello
studio», ma nessuno di loro si è rivolto al giudice. Dando del «pazzo»
al titolare, invece, il ricorrente esprime un «concetto del tutto
chiaro: colui il quale non accetta le critiche, anche le più severe, dei suoi collaboratori e si circonda di persone che, per quieto vivere, non contestano alcuna decisione, avrà scarsi strumenti per dotarsi di una efficiente organizzazione;
la critica e la discussione approfondita consentirebbero, invece, di
affrontare e risolvere meglio i vari problemi che si pongono nella
conduzione di un’azienda, di piccole o grandi dimensioni ch essa sia».
Esclusa la valenza diffamatoria del termine
Il termine, espressivo di un’aspra critica, è sicuramente inelegante e riassume in modo rozzo il pensiero di chi la pronuncia, ma di sicuro non ha valenza diffamatoria.
In
pratica, «quando tali termini vengono usati nelle discussioni, spesso
accese, che si svolgono tra colleghi in ambito lavorativo e/o sindacale
aventi ad oggetto temi concernenti l’organizzazione del lavoro e/o
l’adozione di particolari iniziative che possano aumentare la
produttività dell’ufficio e rendere più agevole e meno burocratizzata
l’attività degli addetti, finiscono con l’avere un significato
rafforzativo del concetto espresso ed evocativo delle gravi conseguenze
che si potrebbero verificare in caso di non accettazione delle critiche
e dei consigli.
L’espressione “pazzo”, pertanto, ha perso, nel caso
di specie, la sua valenza offensiva per divenire parola, sintetica ed
efficace, rappresentativa di una conduzione scorretta dell’ufficio, che
non potrà che portare alla rovina dello stesso.
Sostanzialmente,
tali termini, ben lontani dal consentire un’atmosfera pacata tale da
produrre esiti positivi nella soluzione dei problemi, benché irritanti
e poco rispettosi per l’interlocutore, non sono tali da superare la
soglia del penalmente rilevante.