Legittimità del contratto di cessione di clientela di uno studio professionale Cassazione civile , sez. II, sentenza 09.02.2010 n° 2860
In caso di trasferimento di uno studio professionale può essere
trasferita anche la clientela che ad esso faccia capo, anche se non si
tratta di una cessione pura e semplice, data la natura di rapporto
fiduciario, c.d. intuitus personae, che esiste tra professionista ed
assistito.
E’ questo il principio affermato dalla Seconda Sezione Civile della Cassazione con la sentenza 9 febbario 2010, n. 2860.
La
cessione della clientela deve essere intesa come un duplice obbligo
assunto dal cedente: il primo consiste in un obbligo di facere ossia
nella canalizzazione e nella presentazione della clientela al nuovo
professionista; il secondo consiste specularmente in un obbligo di non
facere ossia nel non porre in essere atti di sviamento della clientela
medesima attraverso la ripresa dell’attività del cedente sullo stesso
mercato o attraverso attività volte a non consentire l’instaurazione
e/o la prosecuzione del rapporto tra cliente e professionista
subentrante.
La Suprema Corte è pervenuta al sopra enunciato
principio sulla scorta delle varie analogie che esistono tra uno studio
professionale ed una azienda, soprattutto ai giorni nostri ove la
legislazione nazionale e comunitaria ha dato un imprinting di
imprenditorialità agli studi professionali, i quali pur non potendo
essere considerati tout court delle aziende con le stesse hanno molti
punti in comune.
Anche se negli studi professionali resta
prevalente l’attività del professionista rispetto al complesso dei
mezzi strutturati per rendere il servizio, come avviene nelle aziende,
detto divario si sta facendo sempre più sottile con il passar del tempo.
Peraltro
è interessante rilevare che, nel corso della motivazione della
sentenza, il Supremo Collegio individua anche la possibilità che uno
studio professionale svolga anche attività di impresa vera e propria e
quindi che lo stesso sia organizzato in forma di azienda.
Anche
se questa ulteriore fattispecie viene incidentalmente analizzata dalla
Corte come argomentazione suppletiva, in quanto estranea all’oggetto di
causa, è interessante notare che in linea di principio, nel caso in cui
nell’ambito dello studio professionale vi sia una prevalenza
dell’organizzazione di mezzi e della struttura, del numero di titolari
e dei dipendenti, dell’ ampiezza dei locali adibiti per l’attività e
dell’ entità dei mezzi impiegati, rispetto alla prestazione d’opera del
professionista, ivi sembra desumersi che sarebbe possibile una cessione
d’azienda nelle forme canoniche.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 9 febbraio 2010, n. 2860
Svolgimento del processo
1.
– Con atto di citazione notificato il 31 ottobre 1996 C.C. convenne in
giudizio dinanzi al Tribunale di Catania S.V. e – premesso che con
scrittura privata in data **** il convenuto gli aveva ceduto lo studio
professionale di fiscalista sito in ****, per il corrispettivo di L.
120 milioni, comprendenti per una parte l’arredo dello studio e per
l’altra la cessione della clientela stimata in L. 100 milioni – chiese
dichiararsi la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative
e per illiceità dell’oggetto, non potendo la clientela di uno studio
professionale formare oggetto di scambio; instò, inoltre, per la
conversione parziale della scrittura privata in altro contratto nella
parte relativa agli arredi dello studio ed in quella concernente la
cessione del contratto di locazione e delle utenze.
Si costituì
il convenuto, il quale chiese il rigetto della domanda dell’attore e,
in via riconvenzionale, la condanna del medesimo al pagamento in suo
favore della residua somma di L. 110 milioni.
Con sentenza resa
pubblica mediante deposito in cancelleria il 18 gennaio 2002, il
Tribunale di Catania dichiarò la nullità del contratto intercorso tra
le parti per impossibilità dell’oggetto, rigettò la richiesta di
conversione dello stesso, condannò il convenuto alla restituzione, in
favore dell’attore, della somma di Euro 36.151,98 e dell’assegno di L.
6 milioni tratto sulla Banca popolare di Novara, rilasciato il ****, e
respinse la domanda riconvenzionale del convenuto.
2. – La Corte
dr appello di Catania, con sentenza in data 16 ottobre 2004,
accogliendo l’impugnazione in via principale del S. e rigettando quella
in via incidentale del C., ha riformato la decisione di primo grado:
per l’effetto, ha respinto la domanda del C. e, in accoglimento della
riconvenzionale proposta dal S., ha condannato il C. al pagamento in
favore del S. della somma di Euro 25.882,84, oltre interessi, ed alla
rifusione delle spese di entrambi i gradi.
La Corte territoriale
ha rilevato che con la scrittura in data **** il S. cedette al C.,
dietro corrispettivo di L. 120 milioni, lo studio professionale nel
quale esercitava l’attività di fiscalista, considerato nel suo insieme
e cioè nelle componenti materiali ed immateriali, ivi compreso
l’avviamento, la cessione del contratto di locazione nonchè la
previsione della continuazione della collaborazione con il rag. R..
Premesso
che l’oggetto del contratto va individuato nel complesso dei beni
finalisticamente organizzati per l’esercizio della specifica attività
ed idonei in quanto tali a produrre e a mantenere un determinato
livello di reddito, la Corte territoriale non ha condiviso
l’affermazione del primo giudice secondo cui la destinazione unitaria
dei beni non creerebbe alcuna ulteriore utilità giuridicamente
apprezzabile rispetto ai singoli componenti, e ciò perchè la già
esistente organizzazione di beni unitariamente considerati e
teleologicamente indirizzati all’esercizio di una professionale
rappresenta di per se stessa una chiara utilità economica, diversa
dalle capacità professionali del titolare.
Secondo la Corte etnea, l’oggetto del contratto esiste, è possibile ed è lecito.
Nè
– hanno proseguito i giudici del gravame – è ravvisabile l’illiceità
prospettata dal primo giudice, essendo evidente che l’oggetto del
contratto non era direttamente la clientela, sebbene un complesso
organizzato di beni idonei a produrre reddito, tanto più che il
riferimento al fatturato dello studio era stato fatto non in relazione
ad un eventuale corrispettivo per la clientela ceduta (che, peraltro,
non costituiva oggetto del contratto), sebbene avuto riguardo solo
all’entità ed alle modalità di pagamento dell’ultima tranche di prezzo.
3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello il C. ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi.
L’intimato ha resistito con controricorso.
In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1.
– Il primo motivo denuncia violazione o falsa applicazione delle norme
di cui all’art. 1362 c.c. e ss., e art. 112 c.p.c., e vizio di
motivazione.
Il ricorrente contesta l’affermazione secondo cui
la cessione della clientela non rientrerebbe nell’oggetto del
contratto. La Corte di appello, violando la regola ermeneutica che
impone di far leva sul senso letterale e logico del testo negoziale per
ricavarne la comune intenzione delle parti, non avrebbe posto in essere
alcuna seria attività di indagine diretta realmente ad identificare il
programma divisato dalle parti con la conclusione della scrittura
privata. Dall’esame del testo contrattuale risulterebbe che la comune
intenzione delle parti era quella di operare una cessione dello studio
professionale, fino ad allora gestito dal S., come se fosse un’azienda.
Il
secondo mezzo censura violazione e falsa applicazione dell’art. 1322
c.c., in relazione agli artt. 1325, 1346 e 1418 c.c., nonchè vizio di
motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Con
esso il ricorrente si duole che i giudici del gravame abbiano escluso
l’invalidità del contratto per impossibilità dell’oggetto e per
violazione dell’ordine pubblico, senza considerare che non rientra
nell’autonomia dei privati il disporre della clientela di uno studio
professionale. La Corte d’appello avrebbe omesso di indicare in cosa
consiste il bene avviamento, considerato come elemento dello studio
professionale ceduto distinto dalla clientela, pur essendo nella
scrittura inter partes precisato che “in virtù della clientela di cui
gode lo studio, lo stesso risulta avere un volume di incassi annuo pari
a lire 100 milioni circa”, e pur essendo le attrezzature dello studio
scarse e di poco valore.
Il ricorrente sostiene che l’attività
professionale, per il suo carattere insostituibilmente personale e non
preordinato alla produzione di beni e servizi per lo scambio, non può
mai dar luogo alla costituzione di un’azienda, suscettibile di
alienazione. Poichè nel trasferimento di uno studio professionale non
può ravvisarsi un trasferimento di azienda, non è possibile neanche
individuarvi la cessione di una qualità intrinseca dell’azienda qual è
notoriamente ritenuto l’avviamento. Se l’avviamento è connesso e
calcolato in funzione della clientela, lo stesso non è configurabile in
caso di cessione di studio professionale per impossibilità dell’oggetto.
Non
essendovi azienda, secondo il ricorrente non poteva neppure darsi
seguito alla cessione del contratto di locazione ai sensi della L. n.
392 del 1978, art. 36. Tant’è vero che il rag. C. ha stipulato un nuovo
contratto di locazione e non è subentrato in quello stipulato dal S..
Per
quanto concerne l’ulteriore elemento individuato dalla Corte d’appello
nella collaborazione del rag. R., il ricorrente osserva che dalla
scrittura privata in contestazione risulta che il R. rimaneva in
collaborazione al solo scopo di ricevere l’attestazione di praticantato
richiesta dalla legge ai fini dell’iscrizione all’albo professionale:
era pertanto lo studio che forniva un’utilità al rag. R., e non
viceversa.
2. – I primi due motivi – i quali, data la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente -sono infondati.
La
complessiva censura muove da premesse corrette – il libero
professionista non è un imprenditore; lo studio professionale non è di
per sè un’azienda – ma perviene a conclusioni non condivisibili.
Occorre
ricordare che questa Corte ha da tempo precisato (Sez. 3^, 9 ottobre
1954, n. 3495) che non si può normalmente equiparare ad un’azienda –
che è un complesso di beni organizzati per l’esercizio di una impresa
produttiva, ove la persona dell’imprenditore ha bensì rilevanza, ma non
essenziale – uno studio professionale, nel cui esercizio è elemento di
gran lunga preponderante l’attività personale del professionista, onde
sull’organizzazione dei beni materiali occorrenti, e anche sui beni
immateriali rappresentati dal nome, dall’avviamento, dalla clientela e
dal complesso di rapporti suscettibili di continuazione e di sviluppo
sovrasta, di regola, in modo assoluto la personalità di chi esercita lo
studio, senza la cui capacità, attività e considerazione professionale
anche quel complesso di beni sarebbe destinato a rimanere inefficiente
e privo di attitudine produttiva.
Questo orientamento è stato
ribadito da Cass., Sez. Un., 21 luglio 1967, n. 1889. Gli attrezzi ed
apparecchi che dotano lo studio di un libero professionista hanno
sempre una funzione secondaria ed accessoria, nel senso che non ne
rappresentano l’elemento più importante, e non sono volti alla
produzione di beni o di servizi, come nell’azienda, ma esclusivamente a
rendere più agevole e proficui, l’opera intellettuale. Nello studio
professionale, anche se munito dei beni materiali e strumentali più
vari e complessi che la progredita tecnica moderna suggerisce, quello
che conta e prevale – e ne caratterizza l’importanza e il valore – è
sempre l’opera intellettuale del titolare, il quale agisce, anche nello
svolgimento della sua attività, in base ad un incarico fiduciario
(intuitu personae) del committente, espletato con lavoro
prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione. Il nome, la
capacità del professionista e la fiducia che egli ispira costituiscono
quindi i fattori che sogliono indirizzare la clientela, la quale è in
funzione (principale se non esclusiva) delle doti personali d’ingegno,
perizia, serietà e considerazione delle quali gode il professionista, e
non dei beni materiali e strumentali che ne arredano lo studio.
Benchè
la linea discretiva tra studio professionale ed azienda sia netta e
trovi un radicamento nell’art. 2238 c.c., (ai cui sensi il
professionista intellettuale diventa imprenditore solo in quanto svolga
un’ulteriore attività, diversa da quella intellettuale e definibile, in
sè considerata, come attività d’impresa : ulteriore attività rispetto
alla quale l’esercizio della professione si ponga quale semplice
elemento), e quantunque nelle professioni liberali la clientela,
fondata com’è sulla fiducia personale, non abbia modo di collegarsi ad
un substrato oggettivo, non v’è dubbio che gli studi professionali
presentino molte analogie con l’azienda e che, nella prassi, questa
vicinanza tenda ad accentuarsi. Accanto al permanere dei tradizionali
principi della fiduciarietà del rapporto e della personalità della
prestazione, si assiste infatti ad un superamento della considerazione
dell’opera intellettuale come irrelata dal momento organizzativo,
tenuto conto – come è stato osservato in dottrina – delle nuove
tendenze verso la commercializzazione, la specializzazione e la
socializzazione.
Questa evoluzione è assecondata dal formante
normativo: con l’abrogazione, da parte della L. 7 agosto 1997, n. 266,
art. 24, (Interventi urgenti per l’economia), della L. 23 novembre
1939, n. 1815, art. 2, in tema di disciplina giuridica degli studi di
assistenza e consulenza; con l’introduzione, ad opera del D.Lgs. 2
febbraio 2001, n. 96, art. 16 e ss., recante attuazione della direttiva
98/5/CE, della possibilità di esercitare la professione di avvocato in
forma societaria; con il venir meno – per effetto del D.L. 4 luglio
2006, n. 223, art. 2, (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e
sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa
pubblica, nonchè interventi urgenti in materia di entrate e di
contrasto dell’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla
L. 4 agosto 2006, n. 248 – del divieto di fornire all’utenza servizi
professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di
professionisti.
Di tali tendenze è testimone la giurisprudenza
di questa Corte (Sez. 2^, 7 agosto 2002, n. 11896; Sez. 5^, 3 maggio
2007, n. 10178), quando precisa che anche gli studi professionali
possono essere organizzati in forma di azienda, ogni qualvolta al
profilo personale dell’attività svolta si affianchino un’organizzazione
di mezzi e strutture, un numero di titolari e dipendenti ed un’ampiezza
di locali adibiti all’attività, tali che il fattore organizzativo e
l’entità dei mezzi impiegati sovrastino l’attività professionale del
titolare, o quanto meno si pongano, rispetto ad essa, come entità
giuridica dotata di una propria rilevanza strutturale e funzionale che,
seppure non separata dall’attività del titolare, assuma una rilevanza
economica.
Peraltro, anche nelle ipotesi in cui non è
configurabile una prevalenza del momento organizzativo e la persona del
professionista rimane predominante, è da ritenere validamente
stipulato, in base al principio di autonomia negoziale, il contratto
avente ad oggetto il trasferimento, verso corrispettivo, dello studio
professionale ad altro soggetto, intenzionato a proseguire l’attività
avvalendosi del complesso dei beni, materiali ed immateriali,
appartenenti al proprio dante causa.
In tal caso si verifica un
vero e proprio trasferimento dell’attività: accanto agli arredi, al
complesso dei beni strumentali e dei rapporti contrattuali di
fornitura, l’alienante “cede” per via indiretta, al professionista che
subentra, la clientela, nel senso che assume a tal fine obblighi
positivi di fare (mediante un’attività promozionale di presentazione e
di canalizzazione) e negativi di non fare (quale il divieto di
riprendere ad esercitare la stessa attività nello stesso luogo), volti
a consentire al successore che ne abbia le qualità di mantenere la
clientela del suo predecessore, previo conferimento di un nuovo
incarico.
In tale direzione non mancano precedenti di questa
Corte. Si è infatti precisato (Sez. 3^, 8 febbraio 1974, n. 370) che il
contratto di cessione – vendita di uno studio professionale
nell’insieme degli elementi che lo costituiscono e pure in relazione
alla clientela che ad esso faccia capo, mediante il versamento di una
somma, è valido e lecito in base al principio dell’autonomia
contrattuale, che consente alle parti di concludere anche contratti che
non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purchè
siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico; e si è ulteriormente rilevato (Sez. 3^, 12
novembre 1979, n. 5848) che, sebbene non sia possibile in senso tecnico
– giuridico il trasferimento della clientela, è giuridicamente
configurabile la cessione di uno studio professionale insieme con il
suo avviamento, consistente in una qualità di detto studio, il quale
viene cosi trasferito, quale complesso di elementi organizzati per
l’esercizio dell’attività professionale, munito dell’attributo
essenziale e necessario costituito dall’avviamento.
La validità della cessione dello studio professionale trova una indiretta conferma nel dato normativo.
Innanzitutto,
nell’art. 2238 c.c., comma 2, che consente l’applicazione, al
trasferimento di uno studio professionale, dell’art. 2112 c.c., in tema
di mantenimento dei diritti dei lavoratori: in forza del rinvio
contenuto nel citato art. 2238 c.c., comma 2, la disposizione che
prevede la continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario e la
conservazione in capo al lavoratore di tutti i diritti che ne derivano
si applica non solo in caso di trasferimento di azienda, ma anche
nell’ipotesi in cui venga ceduto uno studio di un professionista che –
pur non essendo imprenditore, e pur essendo titolare di uno studio
professionale che non è qualificabile come azienda – impieghi sostituti
ed ausiliari (cfr. Cass., Sez. 2^, 16 novembre 1968, n. 3757; Cass.,
Sez. lav., 15 luglio 1987, n. 6208 ; Cass., Sez. lav., 23 giugno 2006,
n. 14642).
In secondo luogo, nel citato D.L. 4 luglio 2006, n.
223, art. 36, comma 29, il quale, nell’inserire il Testo Unico delle
imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art.
54, comma 1 quater, prevede espressamente che “concorrono a formare il
reddito (di lavoro autonomo) i corrispettivi percepiti a seguito di
cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili
all’attività artistica o professionale”.
Deve pertanto
conclusivamente affermarsi il seguente principio di diritto: “E’
lecitamente e validamente stipulato il contratto di trasferimento a
titolo oneroso di uno studio professionale, comprensivo non solo di
elementi materiali e degli arredi, ma anche della clientela, essendo
configurabile, con riferimento a quest’ultima, non una cessione in
senso tecnico (attesi il carattere personale e fiduciario del rapporto
tra prestatore d’opera intellettuale e cliente e la necessità, quindi,
del conferimento di un nuovo incarico dal cliente al cessionario), ma
un complessivo impegno del cedente volto a favorire – attraverso
l’assunzione di obblighi positivi di fare (mediante un’attività
promozionale di presentazione e di canalizzazione) e negativi di non
fare (quale il divieto di riprendere ad esercitare la medesima attività
nello stesso luogo) – la prosecuzione del rapporto professionale tra i
vecchi clienti ed il soggetto subentrante”.
A questo principio
si è attenuta la Corte territoriale, dopo avere accertato, con congruo
e logico apprezzamento dei dati documentali, che, con la scrittura
privata in data ****, il S. – titolare di uno studio di fiscalista con
un volume d’incasso annuo di L. 100.000.000 circa – ha trasferito al
rag. C., per il complessivo prezzo di L. 120.000.000 da corrispondersi
ratealmente, detto studio, con l’arredamento completo analiticamente
inventariato e con tutto quanto esisteva in esso per l’esercizio della
medesima attività espletata dal cedente, prevedendosi non solo la
continuazione della prestazione della collaborazione da parte del rag.
R., ma anche l’obbligo del S. di ottenere dal proprietario
l’intestazione del contratto di locazione direttamente in capo al
cessionario e, in caso di “decremento della fatturazione dello studio”,
la diminuzione del prezzo “nella misura proporzionale al decremento
registrato”. 3. – Con il terzo motivo si denuncia “violazione e falsa
applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., nonchè vizio di motivazione
(art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”. Il ricorrente lamenta che l’integrale
accoglimento, senza alcuna motivazione e valutazione, delle domande
formulate dal S. abbia portato ad una sostanziale duplicazione di
titoli per il credito dallo stesso vantato. Sarebbero ingiustificate la
condanna al pagamento della somma di Euro 25.882,84, quando il S. già
aveva ottenuto un decreto ingiuntivo per L. 44.057.000 il cui giudizio
di opposizione era stato sospeso in attesa degli esiti della pronuncia
della Corte d’appello, nonchè l’assegno di L. 6 milioni, azionato dal
S. con una procedura esecutiva immobiliare.
4. – La censura non può essere accolta.
Non
sussiste il vizio di extrapetizione, giacchè risulta dagli atti che il
S., costituendosi in giudizio in primo grado, ha proposto domanda
riconvenzionale per il pagamento del residuo prezzo, e che tale pretesa
creditoria, per l’importo di Euro 25.822,84, è stata ribadita tra i
motivi di gravame.
Sono inammissibili tanto la deduzione del
vizio di violazione dell’art. 115 c.p.c., quanto la prospettazione del
vizio di motivazione, perchè con esse il ricorrente si limita a
rinviare a produzioni documentali effettuate nei gradi di merito, senza
neppure fornire elementi sufficienti, idonei ad indicare le ragioni del
loro carattere decisivo, non constando, dalla sola lettura del ricorso,
l’identità tra i titoli creditori azionati in via monitoria o con la
procedura esecutiva immobiliare e quelli fatti valere con la domanda
riconvenzionale.
5. – Il ricorso è rigettato.
Sussistono
giustificati motivi, data la natura e la complessità delle questioni
trattate, per l’integrale compensazione tra le parti delle spese del
giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara, compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così
deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile
della Corte Suprema di Cassazione, il 22 gennaio 2010.
Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2010.