Licenziamento illegittimo e diritto all’indennità sostitutiva Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 16.03.2009 n° 6342
La Cass. civ., sez. lav., 16 marzo 2009, n. 6342 ribadisce che il
diritto alla indennità sostitutiva è connesso non alla pronuncia della
reintegra, ma alla sussistenza del relativo obbligo – il quale ha
origine nel recesso illegittimo dei datore di lavoro.
La
giurisprudenza di legittimità si è già pronunciata sulla questione con
le sentenze Cass. civ., 21 dicembre 1995, n. 13047, Cass. civ., 5
dicembre 1997, n. 12366 e Cass. civ., 16 ottobre 1998, n. 10283; di
recente, Cass. civ., sez. lav., 16 novembre 2009, n. 24199. Nelle
ricordate decisioni, la indennità prevista nell’art. 18, comma 5, legge
20 maggio 1970 n. 300, nel testo modificato dall’art. 1, legge 11
maggio 1990 n. 108, è configurata come prestazione che si inserisce, in
connessione con il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro che
deriva dalla legittimità del licenziamento, in un rapporto obbligatorio
avente la struttura di un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato
del creditore, essendo attribuita al prestatore la facoltà
insindacabile di “monetizzare” il diritto alla reintegrazione in una
prestazione pecuniaria di ammontare fisso, pari a quindici mensilità di
retribuzione.
Da tale inquadramento della fattispecie discendo
l’ulteriore principio secondo cui la facoltà del prestatore non può
essere arbitrariamente vanificata dal datore di lavoro revocando il
licenziamento in corso di giudizio allo scopo di impedire, per
intervenuta cassazione della materia del contendere (dal momento che
viene posto nel nulla l’atto risolutivo sul quale discutere) la
pronuncia giudiziale di condanna alla reintegra; onde l’invito a
riprendere il lavoro, non seguito da una ricostituzione, di fatto del
rapporto, non è sufficiente a far venir meno l’attualità dell’obbligo
di reintegrazione e a sottrarre al prestatore il diritto di opzione, il
cui esercizio verrebbe altrimenti ad essere rimesso di fatto al datore
di lavoro. Solo in un caso, sottolinea la giurisprudenza costituzionale
e di legittimità, va escluso che l’opzione possa essere esercita: nel
caso cioé in cui il lavoratore abbia accettato, espressamente o
tacitamente, di riprendere servizio, per tale ragione facendo venir
meno l’attualità di reintegrazione.
Le già ricordate decisioni
di giurisprudenza di legittimità si sono espressamente
affermativamente, anche sulla questione relativa alla possibilità per
il lavoratore illegittimamente licenziato di chiedere la indennità
sostitutiva in seguito alla revoca del licenziamento e in luogo della
ricostituzione del rapporto, senza dover attendere una sentenza che
ordini (o condanni al)la reintegra.
E, in realtà, se, come si
è detto, il diritto alla indennità sostitutiva è collegato causalmente,
come il diritto alla reintegrazione, alla illegittimità del recesso,
appare del tutto incongruo che il lavoratore debba richiedere, quale
mezzo al fine, la condanna del datore ad una reintegrazione alla quale
ha già deciso di rinunciare non accettando l’invito alla ripresa dei
servizio o che entrambe le parti siano tenuto, inoltre ad attendere la
conclusione dell’iter giudiziario nonché del successivo procedimento
previsto dall’art. 18 citato (l’invito del datore di lavoro a
riprendere servizio etc.).
L’interpretazione accolta nel caso
in esame ha il pregio di delineare “ab initio” l’effettivo oggetto
della controversia, con la conseguente facoltà, per il datore di
lavoro, di liberarsi da ogni obbligazione a suo carico ove riconosca
spontaneamente, revocandolo, la illegittimità da lui intimato
(l’invito) rivolto al lavoratore a riprendere servizio pone termine,
invero, alla situazione di “mora credendi” in cui il datore versa
nell’ipotesi di licenziamento illegittimo e, fa venir meno, per il
periodo successivo, ove il prestatore non accetti la ricostituzione del
rapporto, preferendo optare per le quindici mensilità, il suo diritto
alla indennità risarcitoria commisurata dall’articolo 18, comma 4 –
alle retribuzioni decorse dal momento del recesso sino a quello
dell’effettiva reintegrazione). Non osta a tale conclusione il dato
testuale dell’art. 18, comma 5, laddove, dopo aver previsto il diritto
di opzione in favore del lavoratore il cui licenziamento sia stato
dichiarato illegittimo, stabilisce che, qualora il lavoratore medesimo,
entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito del datore di lavoro
(successivo alla sentenza di reintegra) non abbia ripreso il servizio,
né abbia richiesto, sempre nello stesso termine, decorrente dal
deposito della sentenza, il pagamento della indennità sostitutiva, il
rapporto di lavoro si intende risolto.
É, infatti, evidente
che la norma si limita a fissare il termine finale per l’esercizio
della facoltà di opzione (nell’ovvia, esigenza di contenere in tempi
ragionevoli la situazione di incertezza conseguente ad una pronunzia di
accoglimento) ma non stabilisce affatto un termine giudiziale per
l’attivazione di quel potere di scelta.
Ne è di ostacolo a una
ricostruzione siffatta della “voluntas legis” il rilievo che l’art. 18
citato, anziché sancire direttamente il diritto del lavoratore
illegittimamente, licenziato ad ottenere la reintegrazione e il
risarcimento del danno nonché i corrispondenti obblighi del datore di
lavoro, si rivolge al giudice, che “con la sentenza… ordina al datore
di lavoro… di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro” (comma
1) e il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal
lavoratore…” (comma 4).
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 4 febbraio – 16 marzo 2009, n. 6342
(Presidente Mattone – Relatore Meliadò)
Svolgimento del processo
Con
sentenza non definitiva del 20.3.2003 il Tribunale di Pordenone, in
parziale accoglimento delle domande proposte da A. T., dichiarava
l’inefficacia del licenziamento intimatole dalla X. Macchine Tessili
spa, alle cui dipendenze la stessa aveva lavorato, con la qualifica di
impiegata, e con successiva sentenza definitiva del 17.7.2003,
condannava la società resistente al risarcimento del danno in favore
della T., commisurandolo alla retribuzione globale di fatto dal
licenziamento all’esercizio dell’opzione di cui all’art. 18 comma 5
della legge n. 300 del 1970, nella misura di euro 112.517,13.
Proposta
impugnazione da entrambe le parti, la Corte di appello di Trieste, con
sentenza in data 22.9/28.10.2005, confermava la sentenza di prime cure,
rigettando sia l’appello principale che quello incidentale.
Osservava
in sintesi la Corte che correttamente il primo giudice aveva ritenuto
inefficace il licenziamento impugnato per violazione dei requisiti
della comunicazione concernente i criteri di scelta dei lavoratori
posti in mobilità, essendo rimasti del tutto incerti i criteri
applicati con riferimento al complesso dei dipendenti dell’azienda, e
non solo di quelli interessati al licenziamento; che correttamente non
era stato computata nell’aliunde perceptum l’indennità di mobilità, in
quanto erogata da un soggetto terzo, che era l’unico legittimato al
recupero; che ben a ragione si era riconosciuto in favore della
ricorrente il diritto a percepire le retribuzioni maturate sino alla
data del pagamento dell’indennità sostitutiva, trattandosi di
obbligazione che viene ad estinguersi solo con il pagamento e non con
la semplice dichiarazione di scelta; che, infine, aveva carattere di
novità la censura relativa al riconoscimento, ai fini della
quantificazione del danno, dell’indennità per ferie non godute,
trattandosi di questione che era rimasta incontroversa in primo grado.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la X. Macchine Tessili spa con quattro motivi.
Resiste con controricorso A. T..
Entrambe le parti hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
Con
il primo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 n. 3 e 5 cpc, la
ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 4 comma
9 e 5 comma 3 della legge n. 223 del 1991, nonché insufficiente
motivazione su un punto decisivo della controversia.
In
particolare osserva che, con la trasmissione delle schede informative
relative a tutto il personale posto in mobilità, aveva ottemperato a
quanto prescritto dall’art. 4 comma 9 della legge n. 223/1991 e che non
si poneva alcun problema in punto di difficoltà o insufficienza della
relativa valutazione comparativa e che, comunque, erano state
dimostrate le ragioni tecniche ed organizzative che avevano portato
alla soppressione dello specifico posto coperto dalla lavoratrice, la
quale, peraltro, non era legittimata a rilevare meri vizi formali di
una comunicazione rivolta a soggetti terzi (quali le organizzazioni
sindacali e l’Agenzia dell’impiego), ben potendo richiedere, in sede
giudiziaria, la verifica della correttezza della scelta operata
dall’azienda.
Con il secondo motivo la ricorrente prospetta, ai
sensi dell’art. 360 n. 3 e 5 cpc, violazione e falsa applicazione degli
artt. 1223, 1225 ccc, dell’art. 18 della l. n. 300/1979, dell’art. 7
della l. n. 223/1991, nonché insufficiente motivazione su un punto
decisivo della controversia, rilevando che la corte di merito ha
erroneamente ritenuto che l’indennità di mobilità, pur avendo la
funzione di integrare la mancanza di redditi del lavoratore, non può
essere computata nell’aliunde perceptum.
Con il terzo motivo si
censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, per
violazione e falsa applicazione dell’art. 18 comma 5 della legge n.
300/1970, osservando come la stessa abbia riconosciuto le retribuzioni
maturate sino all’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva, pur
non ravvisandosi ragioni logiche e giuridiche per ritenere che,
nonostante l’esercizio dell’opzione, il rapporto di lavoro debba
perdurare sino all’adempimento dell’obbligazione.
Con l’ultimo
motivo, infine, svolto ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc in relazione
agli artt. 116. 416, 420, 437 cpp, nonché all’art. 1 della l. n.
300/1970 e all’art. 2099 cc , la ricorrente si duole che, ai fini della
determinazione del risarcimento del danno conseguente all’illegittimità
del licenziamento, si sia tenuto conto dell’indennità per ferie non
godute, pur non potendosi ricomprendere nella garanzia retributiva
connessa alla continuità giuridica del rapporto quei compensi che
presuppongono l’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa e
facendosi erronea applicazione del principio di non contestazione, che
risulta riferibile solo a circostanze di fatto, e non anche di diritto.
Il primo motivo è infondato.
La
sentenza impugnata ha, in realtà, fatto corretta applicazione, con
riferimento ai requisiti della comunicazione prevista dall’art. 4 comma
9 della l. n. 223/1991, del principio per cui il contenuto precettivo
della norma, che prevede l’obbligo di indicare puntualmente le modalità
con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da
licenziare, al fine di consentire agli stessi, alle organizzazioni
sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza
dell’operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti, non può
ritenersi soddisfatto dalla mera trasmissione dell’elenco dei
lavoratori licenziati e dalla comunicazione dei criteri di scelta
concordati con le organizzazioni sindacali, per la ineludibile
necessità di verificare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti
previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutinare e, quindi,
nel caso in cui il numero dei dipendenti sia superiore ai previsti
licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di
valutazione comparativa per l’individuazione dei dipendenti da
licenziare, in modo da consentire al singolo dipendente, anche quando
il criterio prescelto sia unico, di percepire con chiarezza perché lui,
e non altri, sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del
licenziamento collettivo (cfr. ad es. Cass. n. 15377/2004; Cass. n.
16805/2003).
La valutazione operata dal giudice di merito circa
l’inadeguatezza, sotto questo profilo, della comunicazione, al fine di
verificare l’infungibilità della posizione della resistente rispetto a
quella degli altri dipendenti interessati dalla procedura di
ristrutturazione, resta esente, pertanto, da alcuna censura.
Non
senza osservare, per il resto, che costituisce ius receptum che la
violazione degli oneri di procedura per la dichiarazione di mobilità
previsti dalla legge n. 223 del 1991 (ivi compresa la comunicazione
agli uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali di cui al comma
9 dell’art. 4) ha effetti lesivi anche dei diritti individuali, essendo
le relative prescrizioni finalizzate alla tutela non solo degli
interessi pubblici e collettivi, ma pure di quelli individuali dei
lavoratori coinvolti (cfr SU n. 302/2000; SU n. 419/2000; e
successivamente ad es. Cass. n. 5942/2004; Cass. n. 880/2005; Cass. n.
13876/2007).
Anche il secondo motivo è infondato.
Per
come, infatti, ha reiteratamente precisato questa Suprema Corte, le
indennità previdenziali non possono essere detratte, a titolo di
aliunde perceptum, dal risarcimento dovuto al lavoratore a seguito del
licenziamento illegittimo intimato dal datore di lavoro, deponendo in
tal senso sia la diversità dei titoli di erogazione che dei soggetti
obbligati (cfr. ad es. Cass. n. 18687/2006; Cass. n. 18137/2006; Cass.
n. 2928/2005; Cass. n. 3904/2002).
E tali conclusioni valgono
anche per l’indennità di mobilità, che costituisce una indennità
(sostitutiva del trattamento) di disoccupazione, erogata per finalità
di assistenza e di solidarietà sociale da un ente pubblico, che è
l’unico legittimato a chiederla in restituzione, e che non può essere
vanificata sulla base del distinto piano del rapporto di lavoro,
consentendo al datore di lavoro, nonostante l’annullamento dell’atto di
recesso, di avvantaggiarsi, quantomeno indirettamente, di misure di
sostegno poste a tutela del lavoratore.
Fermo restando – per
come giova ribadire – il potere per l’ente pubblico, una volta
accertata l’illegittimità del recesso, di valutare le conseguenze
derivanti dal venir meno dei presupposti dell’erogazione, ma sulla base
di una valutazione legale che si differenzia nettamente dal diritto di
credito del datore di lavoro per eventuali fatti riduttivi della sua
obbligazione risarcitoria, non potendosi riconoscere alcuna
interferenza fra tale obbligo risarcitorio, il vantaggio patrimoniale
conseguito dal lavoratore per effetto dell’erogazione pubblica e
l’esclusiva legittimazione dell’ente erogatore in relazione agli
eventuali, connessi obblighi restitutori.
Non meritevole di accoglimento è pure il terzo motivo.
Secondo, infatti, l’unanime giurisprudenza di questa Suprema Corte, l’obbligo
di reintegrazione nel posto di lavoro, che grava sul datore di lavoro,
a norma dell’art. 18 SL, si estingue soltanto con il pagamento
dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, prescelta dal
lavoratore illegittimamente licenziato, e non già con la semplice
dichiarazione di opzione proveniente da quest’ultimo. Ne consegue la
permanenza dell’obbligazione risarcitoria del datore di lavoro, posto
che l’art. 18 comma 5 cit. attribuisce al lavoratore la facoltà di
optare per l’indennità sostitutiva, fermo restando il diritto al
risarcimento del danno così come previsto dal 4° comma, e che il
diritto a far valere, quale titolo esecutivo, la sentenza che, nel
disporre la reintegrazione, attribuisce a titolo risarcitorio le
retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento a quella
della riassunzione, non vien meno per effetto della dichiarazione di
opzione, sino a quando il datore di lavoro non abbia eseguito la
suddetta prestazione (v. per tutte ad es. Cass. n. 12514/2003).
Non
ignora certo questa Corte come permangano nella giurisprudenza di
merito, nonostante il costante indirizzo seguito dai giudici di
legittimità, orientamenti interpretativi di segno contrario, volti ad
affermare l’estinzione del rapporto di lavoro per effetto della mera
comunicazione dell’opzione per l’indennità sostitutiva, in
considerazione della rilevanza che assumerebbe la manifestazione di
volontà del lavoratore intesa alla risoluzione del rapporto.
Ma trascurando di considerare, se non altro, che il
diritto al risarcimento del danno è conseguenza preminente
dell’accertamento di illegittimità del recesso (e solo, in via mediata,
dell’ordine di reintegrazione) e che lo stesso è destinato a trovare un
limite solo nella ricostituzione effettiva del rapporto di lavoro o in
un diverso comportamento ritenuto per volontà di legge egualmente
satisfattivo, quale appunto l’adempimento dell’obbligazione
indennitaria per cui ha fatto opzione il lavoratore, in coerenza, con
il carattere di effettività che, nel nostro ordinamento, rivestono i
rimedi contro i licenziamenti illegittimi,
E, comunque, e
sotto altro aspetto, che non vi è ragione alcuna per ritenere che un
adeguato bilanciamento degli interessi impliciti nella configurazione
dell’indennità risarcitoria come obbligazione con facoltà alternativa
dal lato del creditore porti ad escludere che il legislatore non abbia
inteso assegnare rilevanza , con il permanere dell’obbligazione
risarcitoria, all’interesse di quest’ultimo all’esatto adempimento
della prestazione prescelta, tenuto conto che la facoltà di scelta è,
in ogni caso, volta a garantire, anche se in forme alternative, la
tutela del rapporto di lavoro, secondo le esigenze proprie del regime
di diritto speciale nel quale si inserisce.
A maggior
ragione se si conviene che la norma in esame, a prescindere dalla sua
riconduzione negli schemi del diritto comune, introduce in termini
sostanziali una nuova ipotesi di estinzione legale del rapporto di
lavoro, che (analogamente a quanto avviene per l’ipotesi prevista nel
secondo periodo dello stesso comma quinto) coerentemente si articola in
una sequenza procedimentale complessa, fondata su una dichiarazione
impegnativa del lavoratore e sul pagamento dell’indennizzo legale da
parte del datore di lavoro, fermo restando l’interinale permanenza
dell’obbligo risarcitorio.
Infondato è, infine, anche l’ultimo motivo.
Con
accertamento di fatto correttamente motivato, e pertanto in questa sede
insindacabile, la corte di merito ha, infatti, rilevato che i conteggi
posti a base della domanda non solo non erano stati contestati, in
primo grado, dalla società resistente, ma anzi erano stati dalla stessa
condivisi, per cui le censure svolte solo in grado di appello, in
quanto nuove, non potevano essere prese in considerazione dal giudice
dell’impugnazione, non rappresentando un tema di decisione controverso.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
rigetta
il ricorso e condanna la società ricorrente al rimborso delle spese che
liquida in euro 30,00 oltre ad euro 2000,00 per onorario, spese
generali, IVA e CPA.