Licenziamento illegittimo: risarcimento danni e cassa integrazione guadagni Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 19.11.2009 n° 24447
La sentenza in esame prevede che in caso di licenziamento
illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a
quest’ultimo a norma dell’art. 18 legge n. 300 del 1970,
commisurato alle retribuzioni perse a seguito del licenziamento fino
alla riammissione in servizio, non deve essere diminuito degli importi
eventualmente ricevuti dall’interessato a titolo di cassa integrazione
guadagni.
Anzi, la pronuncia ha affermato e ribadito che il
cd. aliunde perceptum non riguarda qualunque somma che il lavoratore
abbia percepito dopo la illegittima cessazione del rapporto di lavoro,
ma esclusivamente gli importi la cui corresponsione sia in qualche modo
collegata al mancato svolgimento della prestazione lavorativa e che
pertanto incidano, limitandolo o eliminandolo, sul danno provocato
dalla corrispondente mancata percezione della retribuzione. Le somme
percepite dal lavoratore ingiustamente licenziato a titolo di
trattamento previdenziale e pensionistico non sono in alcun modo
ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito, atteso che il
diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e
di contribuzione stabiliti dalla legge, e si sottraggono pertanto
all’operatività della regola della “compensatio lucri cum damno”, con
la conseguenza che le relative somme non possono configurarsi come un
effettivo incremento patrimoniale del lavoratore detraibile
dall’ammontare del risarcimento del danno dovuto dal datore di lavoro,
in quanto la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del
licenziamento, facendo venir meno il presupposto del pensionamento,
travolge ex tunc lo stesso diritto dell’assicurato alla prestazione
previdenziale e lo espone all’azione di ripetizione dell’indebito da
parte del soggetto erogatore della pensione. La regola della c.d.
“compensatio lucri cum damno”, d’altra parte, non può configurarsi
neanche allorchè, eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti del
pensionamento, anticipando, in relazione alla perdita del posto di
lavoro, l’ammissione al trattamento previdenziale, sicchè il rapporto
fra la retribuzione e la pensione si ponga in termini di alternatività,
nè allorchè il medesimo rapporto si ponga invece in termini di
soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la
retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta declaratoria di
illegittimità del licenziamento travolge “ex tunc” il diritto al
pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di
indebito da parte del soggetto erogatore della pensione, con la
conseguenza che le relative somme non possono configurarsi come un
lucro compensabile col danno, e cioè come un effettivo incremento
patrimoniale del lavoratore.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 19 novembre 2009, n. 24447
Svolgimento del processo
Con
ricorso ex art. 414 c.p.c. depositato il 5 aprile 2001, C. P. aveva
chiesto al Tribunale di Bari l’annullamento del licenziamento
comunicatogli da Case di Cura Riunite (CCR) s.r.l. in amministrazione
straordinaria, con la condanna della Citta’ di Bari Hospital (C.B.H.)
s.p.a., societa’ cessionaria dell’azienda della prima, a reintegrarlo
nel proprio posto di lavoro, con le ulteriori conseguenze di cui
all’art. 18 c.p.c..
In via subordinata, aveva chiesto
l’accertamento del proprio diritto a transitare alle dipendenze della
C.B.H. s.p.a., con decorrenza dal 1 luglio 2000 ex art. 2112 c.c. e, in
ulteriore subordine, la condanna delle due societa’, eventualmente in
solido, a reintegrarlo nel posto di lavoro e alle conseguenze di cui
all’art. 18 S.L..
Il ricorrente aveva esposto, a sostegno delle
proprie domande che, licenziato dalla CCR s.r.l. con comunicazione
dell’1 maggio 2000, a seguito di una procedura di mobilita’ attivata ai
sensi della L. n. 223 del 1991 in data 12 ottobre 1999, aveva ricevuto
in data 3 luglio 2000 da tale societa’ la comunicazione della revoca
del licenziamento con conseguente collocamento in CIGS, ai sensi della
L. n. 223 del 1991 , art. 3 ora citata, a decorrere dalla data del
licenziamento.
Poiche’ in data di poco precedente, con atto
pubblico del 29 giugno 2000, la societa’, su autorizzazione del
Ministero dell’industria del 5 maggio 2000, aveva ceduto la propria
azienda alla C.B.H. s.p.a., la quale aveva acquisito la parte residua
del personale precedentemente occupato dalla CCR. (poco meno di 1000
dipendenti su circa 3000 preesistenti al licenziamento), il ricorrente
aveva dichiarato di non accettare la revoca del licenziamento e quindi,
dopo avere inutilmente attivato due procedimenti ex art. 700 c.p.c.,
aveva formulato nel giudizio di merito le domande sopraindicate.
Nel
giudizio conseguente, in cui si erano difese le due societa’, il
Tribunale e successivamente la Corte d’appello di Bari avevano accolto
le suddette domande.
In particolare, la Corte territoriale aveva
accertato che il lavoratore non aveva accettato la revoca del
licenziamento neppure implicitamente.
La Corte aveva infatti, in
particolare, escluso, a quest’ultimo proposito, che la percezione del
trattamento CIGS a zero ore, conseguente alla comunicazione di revoca
del licenziamento, potesse essere equiparata ad accettazione tacita di
questa, in ragione del fatto che la prestazione del trattamento era
effettuata dall’INPS, senza alcun contatto tra le parti.
La
Corte aveva infine ritenuto applicabile, quanto al passaggio anche del
rapporto del lavoratore appellato, la disciplina di cui all’art. 2112
c.c. al trasferimento di azienda dalla CCR. s.r.l. in amministrazione
straordinaria alla C.B.H. s.p.a..
Su ricorso per Cassazione
della C.C.R. s.r.l. in amministrazione straordinaria e della C.B.H.
s.p.a., questa Corte, con sentenza n. 12107 del 2004, aveva accolto,
per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri,
cassando la sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Lecce, avendo
ritenuto necessari ulteriori accertamenti di fatto.
In
proposito, questa Corte ha anzitutto affermato la possibilita’ in
astratto di una tacita accettazione della revoca del licenziamento e
rilevato che tale accettazione sarebbe suscettibile di comportare la
rinuncia del lavoratore a far valere i diritti scaturenti dall’intimato
licenziamento, a condizione che ne sia accertata in maniera sicura la
volonta’ abdicati va, nel senso che la condotta dell’accettante attesti
in modo univoco la volonta’ di dismettere tali diritti entrati nel suo
patrimonio e non sia viceversa “compatibile con altre specifiche ed
individuabili motivazioni rivelatrici dell’intento conservativo dei
propri diritti”.
Cio’ premesso, la Corte ha censurato
l’affermazione di principio della Corte territoriale, secondo la quale
il percepimento del trattamento della CIGS non e’ equiparabile ad
accettazione della revoca del precedente licenziamento, in quanto tale
trattamento sarebbe a carico dell’INPS e pertanto nessun contatto
intercorrerebbe tra le parti del rapporto di lavoro.
Il
lavoratore in CIG e’ infatti pur sempre alle dipendenze del datore di
lavoro e la corresponsione del trattamento da parte di quest’ultimo
(ancorche’ in luogo dell’INPS) e’ del resto la regola, l’eccezione alla
quale non esclude peraltro che il rapporto sia comunque operante, sia
pure con obbligazioni ridotte.
Per cui il giudice di merito,
invece di fermarsi alla affermazione indicata, frutto di un errore di
diritto, avrebbe dovuto accertare se la condotta del lavoratore fosse
suscettibile di concretizzare una accettazione, tacita e senza alcuna
riserva, della revoca del licenziamento, indagando sulla eventuale
consapevolezza da parte del lavoratore del contesto generale
riguardante le notorie difficolta’ economiche in cui versava la
societa’ CCR, che imponeva radicali interventi strutturali, in
particolare la cessione ad altra societa’ del complesso aziendale,
anche attraverso la preventiva riduzione del personale.
“Nella
stessa direzione, e sempre attraverso una esauriente ed attenta
valutazione dell’intero materiale probatorio… il giudice d’appello
avrebbe dovuto accertare se il lavoratore aveva accettato la cassa
integrazione con la consapevolezza di usufruire di una vantaggiosa
alternativa ad una possibile (e legittimamente praticabile) riduzione
di personale…
In tale consapevolezza, se riscontrata, si
sarebbe potuto, con innegabile coerenza logica, ravvisare una rinunzia
a far valere il diritto alla reintegra nel posto di lavoro ex art. 18
Stat. lav. e la consequenziale accettazione di un ripristino del
rapporto lavorativo con effetti risalenti ad epoca successiva alla
cessione del complesso aziendale.
Il che, avrebbe, a sua volta,
finito per determinare il venir meno di qualsiasi pretesa
all’assunzione al lavoro – ai sensi del disposto dell’art. 2112 c.c.-
da parte della CBH come societa’ cessionario”.
La Corte ha
quindi distinto, ai fini dell’accertamento indicato, la situazione dei
lavoratori che, dichiarando di non accettare la revoca del
licenziamento, avevano altresi’ chiesto di condividere l’assegno di
CIGS quale indennita’ di mobilita’ da coloro che non avevano formulato
quest’ultima richiesta, affermando che solo per i primi si rendeva
necessario un accertamento circa le modalita’ della richiesta e una
specifica e peculiare valutazione degli intenti perseguiti, tenuto
conto delle scansioni temporali della vicenda.
Alla luce di
cio’, per essi l’esclusione di un rifiuto di accettare la revoca
avrebbe dovuto passare attraverso una verifica in concreto, in esito ad
una valutazione dei comportamenti tenuti nel non breve periodo corrente
dalla revoca del licenziamento alla data del documento in parola.
Per
coloro invece che avevano riscosso senza riserve il trattamento di CIGS
si imponeva, secondo la Corte, una diversa verifica volta “tra l’altro
ad accertare se la relativa prestazione fosse stata erogata dalla
societa’ CCR direttamente o dall’Istituto previdenziale (in questa
seconda ipotesi non potevano trascurarsi accertamenti in fatto sulle
circostanze in base alle quali era stato adottato il provvedimento
ministeriale, potendosi – e’ opportuno ribadirlo – la riscossione
considerarsi – in relazione alle sue modalita’ ed ai fatti pregressi
che avevano coinvolto numerosi dipendenti del settore della sanita’
della citta’ di Bari – come comportamento attestante, senza equivocita’
alcuna, l’accettazione della revoca del licenziamento o, di contro,
come mero comportamento privo di qualsiasi significato negoziale…)”.
Prosegue
quindi la Corte “In questa delicata opera di ricostruzione del
significato da assegnarsi alla condotta dei lavoratori, non era certo
secondario considerare (ponendolo in correlazione con i fatti che ad
esso avevano condotto) il contenuto, l’efficacia e la ratio
dell’accordo sindacale del (OMISSIS), la cui operativita’ – sia pure al
diverso fine di valutare il ricorso nel caso concreto degli estremi per
l’applicazione dell’art. 2112 c.c. (o della sua esclusione ai sensi
della L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47, comma 5), e’ stata
contestata dalla Corte territoriale”.
“Per concludere, spettava
unicamente al giudice di merito valutare la congruita’ o meno – con
riguardo a tutti i complessi e numerosi dati fattuali che hanno
accompagnato nel tempo la vicenda per cui e’ causa – della condotta
tenuta dai lavoratori – ma questi era tenuto a fornire valide ragioni
del suo convincimento.
“Non risultando, pertanto, la sentenza
impugnata sor retta da una motivazione congrua e corretta sul piano
logico – giuridico la stessa va riformata previo accoglimento, per
quanto di ragione del primo motivo di cui ai ricorsi delle societa’”.
Riassunto
il giudizio da parte del lavoratore, la Corte d’appello di Lecce, con
sentenza depositata il 27 ottobre 2005, ha respinto gli appelli delle
due societa’ confermando le statuizioni contenute nella sentenza del
Tribunale di Bari.
In proposito, la Corte d’appello di Lecce,
ricordata la sequenza dei fatti, ha rilevato che il lavoratore, ben
consapevole della situazione di crisi della C.C.R. e delle vicende che
avevano determinato il trasferimento di azienda e l’entita’ degli
esuberi, aveva impugnato il licenziamento prima del trasferimento di
azienda, ribadendo con lettera successiva del 24 maggio 2000 di non
volere accettare la preannunciata revoca dei licenziamenti e
confermando il proprio interesse a far valere l’illegittimita’ del
licenziamento nei confronti della societa’ indicata come futura
cessionaria dell’azienda.
Era seguita una serie di iniziative
giudiziarie promosse dal lavoratore fino al ricorso introduttivo del
presente giudizio (preceduto da due ricorsi ex art. 700 c.p.c.,
depositati rispettivamente il 7 giugno 2000, prima della comunicazione
di revoca del licenziamento e il 3 novembre 2000, successivamente a
tale revoca), che smentirebbero, secondo la Corte d’appello, l’ipotesi
di una accettazione da parte sua della revoca, del resto esplicitamente
esclusa con dichiarazione a verbale resa all’udienza del 10 luglio 2000
e nota alla societa’ C.C.R., come persistente anche successivamente,
come risulterebbe da una nota del 10.10.2000 del suo difensore.
Inoltre,
secondo la Corte territoriale non era stata mai revocata da tale
societa’ la comunicazione del nominativo del lavoratore quale collocato
in mobilita’, cosi’ determinandosi un clima di incertezza in ordine
alla reale situazione dello stesso, come risulterebbe confermato da una
nota del 17 ottobre 2000 dell’ufficio di mobilita’ della Regione, il
quale aveva fatto presente alla C.C.R. che recentemente stavano
pervenendo richieste, verbali e scritte, di lavoratori che, anche con
riferimento ad un contenzioso in atto, chiedevano l’inserimento nelle
liste di mobilita’, invitando la CCR a comunicare i nominativi di
coloro che andavano ivi inseriti.
In definitiva, su circa 3000
dipendenti della C.C.R., quasi 1000 erano transitati in C.B.H. a
seguito del trasferimento di azienda e 2000 erano stati collocati in
CIGS, dei quali ultimi solo trenta avevano promosso le azioni
giudiziarie, per cui, secondo la sentenza, sarebbe evidente che essi e
solo essi non avevano accettato al revoca, effettuando altresi’ la
comunicazione all’ufficio di mobilita’ sopra ricordata.
Per
quanto riguarda la significativita’, sul piano indicato della eventuale
accettazione tacita della revoca, del percepimento del trattamento
CIGS, la Corte territoriale l’ha esclusa, rilevando che tale
trattamento era stato erogato dall’INPS e non dalla societa’, la quale
anche in altri modi aveva manifestato la volonta’ di ritenere ormai
conclusi i rapporti di lavoro dei 2000 dipendenti – del resto destinati
chiaramente ad estinguersi – e che ancora alla fine di luglio aveva
espresso l’intenzione di considerare ancora in mobilita’ i dipendenti
che lo avessero chiesto, peraltro senza poi tenere in alcun cono la
chiara manifestazione di volonta’ del controricorrente in tal senso.
Da
tutto cio’ emergerebbe chiaramente che quest’ultimo ha sempre espresso
la volonta’ di non aderire alla revoca del licenziamento, del resto
operata da una societa’ che ormai aveva esaurito ogni attivita’, mentre
la percezione a parte sua del trattamento CIGS si inquadrerebbe
anzitutto in quel clima di incertezza dovuto alla mancata revoca della
procedura di mobilita’ e delle relative comunicazioni nonche’ alla
mancanza di notizie certe circa il percepimento del trattamento CIGS e
comunque non avrebbe un significato certo, tenuto anche conto che
l’importo dell’indennita’ di mobilita’ e’ identico a tale trattamento
nei primi dodici mesi.
Cosi’ confermato l’accertamento del
giudice di prime cure, la Corte d’appello di Lecce ha esaminato gli
altri motivi di censura, ritenuti assorbiti da questa Corte, relativi
anzitutto alla dedotta inapplicabilita’ dell’art. 2112 c.c. nel
trasferimento di azienda dalla C.C.R. alla C.B.H. sia per la dedotta
necessita’ di una concessione amministrativa per svolgere la relativa
attivita’, sia per la presenza di accordi sindacali sottoscritti il
(OMISSIS) che, ai sensi della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5 e in
presenza della cessazione dell’attivita’ da parte della CCR, avrebbero
legittimamente stabilito il trasferimento solo di parte del personale
dell’impresa cedente alla C.B.H..
Anche tali censure sono state
ritenute infondate, la prima soprattutto sulla base di una
interpretazione conforme alla direttiva comunitaria dell’art. 2112 c.c.
e la seconda per la mancata ricorrenza delle condizioni di legge
(cessazione dell’attivita’ e specifico accordo sindacale raggiunto
nell’ambito della procedura ex art. 47 citato) per il trasferimento
solo parziale del personale.
Infine, la Corte d’appello di Lecce
ha confermato l’accertamento del giudice di prime cure relativamente
alla violazione della procedura di mobilita’, sia quanto alla
comunicazione iniziale L. n. 223 del 1991, ex art. 4, commi 2 e 3
ritenuta reticente, sia con riguardo al superamento del termine di 120
giorni di cui all’art. 4 medesima legge, comma 9 per la collocazione in
mobilita’ dei lavoratori, sia infine quanto alla puntuale indicazione
delle modalita’ di applicazione dei criteri di scelta, come prescritto
da tale ultima norma.
Per la cassazione della sentenza del
giudice di rinvio propone ora ricorso la C.C.R. s.r.l., in liquidazione
(gia’ in Amministrazione straordinaria) affidandolo a quattro motivi,
illustrati poi con memoria ex art. 378 c.p.c..
Analogo ricorso per Cassazione, qualificabile come ricorso incidentale, propone con atto separato la C.B.H. s.p.a..
Resiste alle domande il C. con propri rituali controricorso.
Motivi della decisione
1 – I due ricorsi vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., avendo ad oggetto la medesima sentenza.
2
– Col primo motivo di ricorso, la Case di Cura Riunite s.r.l. in
liquidazione (gia’ in amministrazione straordinaria) e la Citta’ di
Bari Hospital s.p.a. denunciano, in ordine alla revoca del
licenziamento, la violazione degli artt. 100 e 115 c.p.c., della
normativa in materia di CIGS, della L. n. 223 del 1991, art. 4 e segg.
dell’art. 2697 c.c., comma 2, degli artt. 116, 416, 437 e 394 c.p.c. e
della normativa in materia di rapporto di lavoro subordinato nonche’
l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza
impugnata su punti decisivi.
Dopo aver riprodotto ampi passi
della sentenza rescindente di questa Corte, le societa’ sostengono che
il giudice di rinvio non si sarebbe attenuto in maniera fedele alle
indicazioni ivi stabilite, limitandosi a ribadire molte delle
argomentazioni gia’ censurate e incorrendo pertanto sia in vizi in
procedendo che in vizi in indicando.
In proposito, censurano
anzitutto, in termini di violazione dell’art. 100 c.p.c., il rilievo
dato dalla sentenza all’attivismo giudiziario del lavoratore, in quanto
dovrebbe dimostrare l’interesse dello stesso a far valere tutti i
diritti scaturenti dall’impugnato licenziamento, mentre tale interesse
deve viceversa costituire la condizione e non l’effetto delle
iniziative giudiziarie.
Inoltre, da nessun atto del processo
risulterebbe che il lavoratore abbia mai richiesto l’inserimento nelle
liste di mobilita’, come affermato dalla Corte territoriale in
violazione dell’art. 115 c.p.c. e con vizio di motivazione in quanto
non e’ indicato da quale documento la Corte abbia desunto tale fatto.
In
un passaggio della sentenza, la Corte d’appello aveva inoltre affermato
che la materiale percezione del trattamento CIGS era eccezione nuova in
giudizio, ma cio’ violerebbe la L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 7 in
quanto collocamento in CIGS e successiva erogazione del relativo
trattamento sarebbero due facce della medesima medaglia.
Tutto
cio’ comporterebbe altresi’ la violazione della regola sull’onere della
prova, in quanto gravava sul lavoratore l’onere di dedurre e provare il
rifiuto del trattamento CIGS e la richiesta di iscrizione nelle liste
di mobilita’.
La Corte avrebbe poi escluso la “consapevolezza”
nel controricorrente dei vantaggi del collocamento in CIGS in luogo del
licenziamento sulla base della considerazione che il trattamento CIGS
gli era stato erogato dall’INPS senza alcuna comunicazione da parte
della CCR e del fatto che la procedura di mobilita’ e le comunicazioni
relative non erano state revocate, quando viceversa la CCR gli aveva
comunicato la revoca con il collocamento in CIGS e le ulteriori
attivita’ non erano obbligatorie.
A proposito della situazione
di incertezza confermata dalla lettera dell’Ufficio politiche del
lavoro della Regione alla CCR, le societa’ ricordano di avere eccepito
in appello l’inammissibilita’ della relativa produzione, avvenuta solo
in tale sede, nonostante la possibilita’ di effettuarla prima a fronte
della eccezione di mancanza di interesse per revoca del licenziamento
formulata dalle societa’ gia’ con la memoria di costituzione in primo
grado. Invocano pertanto, in proposito, la sentenza delle S.U. di
questa Corte n. 8202/05, deducendo violazione degli artt. 116, 416 e
437 c.p.c. nonche’ dell’art. 394 c.p.c..
La motivazione della
sentenza sarebbe contraddittoria e insufficiente anche laddove ha
ritenuto inequivoche le dichiarazioni rese in giudizio del lavoratore e
viceversa di significato non univoco il fatto della percezione del
trattamento CIGS, considerando che questa puo’ avere altre ragioni e
che comunque coinciderebbe, nell’ammontare, con l’indennita’ di
mobilita’.
La Corte d’appello di Lecce avrebbe inoltre ripetuto
l’errore logico della sentenza cassata, laddove ha ritenuto che il
percepimento del trattamento CIGS rappresentasse unicamente un fatto
inerente il rapporto previdenziale e d’altro lato che “il ripristino
dell’originario rapporto di lavoro e’ nella specie inaccettabile”. Da
cio’ deriverebbe la denunciata violazione della normativa in materia di
rapporto di lavoro subordinato e di CIGS oltre ad una insufficiente,
incongrua e contraddittoria motivazione.
Il motivo e’ infondato.
La
Corte d’appello di Lecce si e’ infatti attenuta alle indicazioni
provenienti da questa Corte in fase rescindente, applicando i principi
di diritto ivi enunciati e procedendo agli accertamenti richiesti,
diretti ad enucleare, sulla base degli elementi di prova acquisiti, in
particolare di quelli di cui all’art. 2727 c.c., la reale volonta’ del
lavoratore destinatario della revoca del licenziamento intimato al
termine di una procedura di mobilita’, nel quadro complessivo della
vicenda di profonda crisi aziendale della societa’ C.C.R, per questo
ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria, culminata col
trasferimento della relativa azienda alla C.B.H. s.p.a., con una parte
ridotta del personale dipendente e la finale collocazione in CIGS L. n.
223 del 1991, ex art. 3 del restante personale da parte della CCR
s.r.l. in a.s..
In proposito, infatti, l’originario ricorrente
aveva sostenuto in giudizio di non avere accettato la revoca del
licenziamento, in quanto questa ricostituiva il rapporto da epoca
successiva al trasferimento dell’azienda da C.C.R. a C.B.H., mentre
egli intendeva ottenerne l’annullamento con effetto ex tunc, con la
finalita’ di essere coinvolto nel predetto trasferimento, a preferenza
di una collocazione in CIGS da parte della impresa cedente, situazione,
quest’ultima, della quale era inipotizzabile una evoluzione nel senso
della ricostituzione della pienezza del rapporto di lavoro.
Le
societa’ avevano contrastato tale posizione, col sostenere, per quanto
qui interessa, che era mancata in giudizio la prova del rifiuto di una
tale revoca, anzi contraddetto dalla silenziosa accettazione del
ricorrente del trattamento CIGS e quindi dalla ricostruzione del
rapporto di lavoro con la CCR, sia pure in regime di sospensione delle
obbligazioni principali.
Correggendo l’errore di diritto in cui
era incorsa la Corte d’appello con la sentenza annullata e aderendo ai
principi di diritto enunciati da questa Corte, i giudici leccesi in
sede di rinvio, con un giudizio di fatto – incensurabile in questa sede
di legittimita’ se non per l’eventuale coinvolgimento di erronee
questioni di diritto o per vizio di insufficienza o contraddittorieta’
di motivazione -, hanno in proposito analizzato i fatti rilevanti sul
piano dell’indagine commessale, in particolare il comportamento tenuto
dal lavoratore prima, durante e successivamente alla revoca del
licenziamento nel quadro complessivo della situazione venutasi a
determinare, giungendo con ampia, articolata, ragionata motivazione, ad
escludere l’accettazione della revoca del licenziamento da parte del
ricorrente e con essa l’abdicazione alle pretese conseguenti, azionate
nel giudizio.
La critica che le societa’ formulano a tale
valutazione, appare in parte muoversi su di un piano diverso da quello
dell’indagine della Corte, confondendo quindi due diversi piani di
indagine.
Cio’ avviene quando esse sostengono l’assenza di un
interesse ad agire del ricorrente, che la Corte territoriale avrebbe
dovuto accertare come preesistente alle iniziative giudiziarie di
questi, anziche’ rinvenirne la dimostrazione in queste ultime.
Premesso
infatti che gia’ questa Corte ha accertato in sede rescindente la
presenza nell’allora controricorrente dell’interesse ad agire ex art.
100 c.p.c. “per far valere che la revoca del licenziamento e’
insuscettibile di ripristinare in via diretta ed automatica
l’originario rapporto lavorativo”, va rilevato che le considerazioni
svolte dal giudice di rinvio quanto alle iniziative giudiziarie del
lavoratore sono funzionali alla individuazione di eventuali elementi di
prova, anche indiziari, della inesistenza di una accettazione della
revoca del licenziamento, col conseguente abbandono dei diritti da essa
nascenti, come sopra evidenziati e quindi sono inquadragli all’interno
dell’accertamento di merito che il giudice deve compiere nella presente
controversia, come indicato in sede rescindente, laddove questa Corte
ha altresi’ avvertito di non confondere profili attinenti all’interesse
ad agire con questioni di merito.
Anche le altre censure
specifiche mosse dalle societa’ alla sentenza impugnata, qualche volta
favorite da una sorta di frazionamento del complesso discorso condotto
dalla Corte territoriale in sede di analisi della volonta’
dell’originario ricorrente, estraendone le singole componenti dal
contesto argomentativo complessivo, cosi’ depotenziandone il
significato, sono comunque infondate.
Seguendo in proposito
l’ordine espositivo dei ricorsi, si rileva che, nel denunciare la
violazione dell’art. 115 c.p.c., e il vizio di motivazione della
sentenza laddove questa ha affermato che il lavoratore aveva chiesto
l’inserimento nelle liste di mobilita’ in luogo della CIGS, le societa’
omettono di considerare il dato di fatto, sul cui accertamento fonda
tale affermazione nella sentenza impugnata. Trattasi infatti di uno
degli indizi (che non e’ rimasto isolato) a sostegno della tesi
difensiva del lavoratore, desunti dalla Corte d’appello ex art. 2727
c.c. dalla dichiarazione contenuta nella lettera in data 17 ottobre
2000 dell’ufficio della mobilita’ della Regione, secondo cui alcuni
lavoratori “(anche con riferimento ad azione giudiziaria dai medesimi
promossa)” avevano dichiarato per iscritto o oralmente la loro volonta’
di permanere nelle liste di mobilita’ nonche’ dal fatto che dei circa
2000 dipendenti, il cui licenziamento era stato revocato con
conseguente collocazione in CIGS, solo una trentina aveva promosso
azioni giudiziarie, rispetto alle quali appariva coerente la mancata
accettazione di tale revoca.
Con un ulteriore rilievo, le
societa’ ricorrenti censurano l’utilizzazione della lettera citata da
parte del giudice di rinvio, denunciandone la tardiva produzione in
sede di appello, come del resto gia’ in tale sede eccepito, ma non
deducono, in violazione della regola della autosufficienza del ricorso
per Cassazione (su cui cfr., per tutte, da ultimo, Cass. nn. 5043/09,
4823/09 e 338/09), se la Corte d’appello, che, alla stregua
dell’orientamento consolidato di questa Corte a partire dalla sentenza
delle sezioni unite civili 20 aprile 2005 n. 8292 citata dalle stesse
ricorrenti, aveva il potere, nel rito del lavoro ai sensi dell’art. 437
c.p.c., comma 2, di ammettere anche d’ufficio nuovi mezzi di prova,
abbia o meno ammesso la produzione documentale indicata.
Del
tutto irrilevante e’ inoltre la denuncia di violazione della L. n. 223
del 1991, artt. 4 e 7 per avere la Corte qualificato come nuova
l’eccezione relativa alla materiale percezione del trattamento CIGS da
parte del lavoratore, volta che non risulta (ne’ le ricorrenti deducono
il contrario) che la Corte abbia da tale affermazione tratto alcuna
conclusione sfavorevole alle tesi delle societa’, come risulta
dall’esposizione del contenuto della sentenza sopra effettuata.
Immotivata,
se non in maniera meramente assertiva, appare poi la denuncia di
insufficienza e contraddittorieta’ della sentenza, laddove i giudici di
rinvio, con una valutazione di merito ad essi riservata, hanno ritenuto
inequivoche e quindi prevalenti sul possibile significato della
percezione del trattamento CIGS le dichiarazioni esplicite del
lavoratore rese anche in giudizio di non voler accettare la revoca del
licenziamento e di voler vedere il proprio rapporto di lavoro
transitare alle dipendenze della cessionaria.
Valutazione che,
con motivazione adeguata, ha posto in evidenza – in contrapposizione –
la non univoca significativita’, sul piano considerato, della
percezione del trattamento previdenziale CIGS, nel caso in esame
erogato direttamente dall’INPS, in misura equivalente all’indennita’ di
mobilita’ e in un contesto in cui era con sicurezza da escludersi la
possibilita’ di ricostituzione della pienezza di rapporto con la C.C.R.
(valutazione evidentemente ben diversa da quella che aveva originato la
cassazione della sentenza di appello in sede rescindente).
In
definitiva, il motivo di ricorso svolto non riesce a cogliere e
contestare in maniera convincente il significato complessivo
dell’operazione compiuta dal giudice di rinvio in piena aderenza con le
indicazioni provenienti da questa Corte, anche con riguardo alla
ripartizione tra le parti dell’onere della prova, correttamente
ritenuto assolto sulla base degli elementi anche indiziari evidenziati.
3
– Col secondo motivo di ricorso, le societa’ denunciano la violazione
dell’art. 2112 c.c., della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5,
dell’art. 116 c.p.c. e di principi di diritto comunitario nonche’
l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza
impugnata su punti decisivi.
Con la sua decisione di ritenere
applicabile l’art. 2112 c.c. in quanto il trasferimento sarebbe
avvenuto non in virtu’ di un provvedimento amministrativo ma di un atto
negoziale tra privati, la Corte territoriale avrebbe trascurato di
considerare il fatto, pacifico, che l’attivita’ in convenzione col SSN,
gia’ gestita dalla C.C.R. in amministrazione straordinaria, richiedesse
una nuova convenzione tra C.B.H. e la Regione Puglia.
Le
societa’ sostengono che l’art. 2112 c.c., nel testo precedente alla
novella di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, non si applicava
all’ipotesi di trasferimento di azienda svolgente attivita’ gestita in
regime di concessione amministrativa.
Censurano altresi’
l’affermazione della Corte territoriale secondo cui non sarebbe
applicabile al caso di specie la L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5
per la mancata ricorrenza delle due condizioni ivi previste: la
cessazione dell’attivita’ della cedente e il raggiungimento di un
accordo sindacale circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione.
Infatti
l’attivita’ della CCR sarebbe cessata al momento del trasferimento di
azienda, come risulterebbe dall’accordo sindacale del (OMISSIS) che
subordinava l’assunzione di 981 dipendenti da parte della CBH all’avvio
dell’attivita’, dopo aver ricevuto le autorizzazioni amministrative;
dal fatto che a decorrere dal 14 maggio 2000 ai dipendenti CCR era
stato concesso il trattamento CIGS ai sensi della L. n. 223 del 1991,
art. 3 che subordina l’intervento alla cessazione dell’attivita’; dalla
circostanza che l’attivita’ liquidatoria della CCR era terminata col 14
maggio 2000.
La contraria affermazione della Corte di rinvio
violerebbe pertanto l’art. 116 c.p.c. e sarebbe sostenuta da una
motivazione insufficiente.
Ma se anche dovesse ritenersi che nel
caso in esame non vi fosse stata cessazione di attivita’ da parte della
CCR, la circostanza sarebbe, secondo le ricorrenti, irrilevante ai fini
della non applicabilita’ dell’art. 2112 c.c. (le ricorrenti citano
Cass. 21 marzo 2001 n. 4073), come sarebbe poi confermato dal D.Lgs. n.
270 del 1999, art. 63.
Le societa’ sostengono altresi’
l’esistenza di un valido ed efficace accordo sindacale per il
mantenimento anche parziale dell’occupazione, costituente la condizione
indispensabile per poter derogare all’art. 2112 c.c..
Ed invero,
se corrisponde a realta’ il fatto che nell’accordo del (OMISSIS) non si
fa menzione del personale in esubero (2038 dipendenti) in sede di
trasferimento alla CBH, riguardante unicamente 981 persone e che, come
accertato dalla sentenza impugnata, in quel momento gli altri erano
licenziati, le societa’ ricordano peraltro che in data 26 marzo 2001 le
OO.SS. avrebbero chiesto una riattivazione del tavolo negoziale, ai
sensi della L. n. 428 del 1990, art. 47 e, con successivo accordo del
(OMISSIS), avrebbero ribadito che solo 981 dipendenti venivano
trasferiti alle dipendenze della cessionaria mentre gli altri 2000
restavano alle dipendenze della CCR in CIGS. Tale accordo sarebbe
infine pienamente opponi-bile anche ai lavoratori non iscritti ai
sindacati stipulanti, in quanto mera condicio iuris per la produzione
di un effetto stabilito direttamente dalla legge.
Anche per tale
ragione, la decisione della Corte territoriale violerebbe l’art. 116
c.p.c. e la L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5 e sarebbe affetta dal
vizio di omessa e insufficiente motivazione.
Le argomentazioni
di sostegno al motivo in esame riproducono sostanzialmente analoghi
rilievi mossi dalle ricorrenti in sede di giudizio di rinvio e che sono
stati adeguatamente contrastati dalla sentenza impugnata.
Inoltre
le relative questioni di diritto e non solo sono state gia’ oggetto
recentemente di esame da parte di questa Corte in sede di ricorso per
Cassazione avverso una sentenza di appello di contenuto analogo a
quella qui impugnata e relativa alla medesima vicenda sostanziale
(Cass. 5 marzo 2008 n. 5929), la soluzione delle quali, in mancanza
della formulazione nei ricorsi delle due societa’ di ragioni capaci di
contestarne la validita’, va qui ribadita, anche in attuazione dei
compiti di nomofilachia devoluti ai giudici di legittimita’.
Anche
nel caso in esame, va pertanto ribadito che “non vale addurre… che il
trasferimento ex art. 2112 c.c. era impedito, nel caso di specie, per
richiedere l’attivita’ sanitaria un rapporto di natura concessoria,
atteso che, come ha correttamente osservato la sentenza impugnata, la
C.B.H. poteva spiegare, quale struttura privata, la propria attivita’
imprenditoriale senza un provvedimento concessorio, come era dimostrato
dal fatto che, sia pure relativamente ad alcuni comparti e ad alcune
strutture, aveva operato al di fuori del regime di
autorizzazione/concessione o accreditamento”.
A cio’ va aggiunto
che, nel caso in esame, i giudici di rinvio hanno altresi’ istituito
una interessante distinzione tra l’ipotesi in cui il trasferimento di
azienda venga operato per effetto di un provvedimento amministrativo
(cfr., ad es. Cass. 24 marzo 2004 n. 5934, in cui il trasferimento
conseguiva alla delibera del Comune che trasformava un proprio servizio
interno in una azienda autonoma e in una tale evenienza questa Corte
aveva ritenuto inapplicabile l’art. 2112 c.c.) e quella in cui il
trasferimento di azienda avvenga tra imprese private e per effetto di
atti di privata autonomia, ma per svolgere l’attivita’ relativa siano
ne-cessane autorizzazioni o concessioni pubbliche.
E
soprattutto, hanno invocato la regola della necessita’, per quanto
possibile, di interpretare le norme interne alla luce della disciplina
comunitaria, per sostenere correttamente (e in linea con l’orientamento
ultimo di questa Corte: cfr, Cass. 8 novembre 2004 n. 21248) che anche
antecedentemente alla novella di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18
(che nella definizione di trasferimento di azienda prescinde dalla
tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il
trasferimento e’ attivato) e in applicazione dell’orientamento espresso
dalla Corte di giustizia con le sentenze 19 maggio 1992, resa in causa
C – 29/91, 14 settembre 2000, resa in causa C – 343/98 e 25 gennaio
2001, resa in causa C – 172/99, l’art. 2112 c.c., nel testo modificato
dalla L. n. 428 del 1990, art. 47 e’ invocabile anche nei casi in cui
il trasferimento di azienda derivi da decisioni unilaterali di
pubbliche amministrazioni per i lavoratori il cui rapporto sia
disciplinato dal diritto comune al momento del trasferimento.
Per
quanto riguarda inoltre la dedotta applicabilita’ al caso in esame
della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5 va anzitutto rilevato che i
giudici di rinvio (come, nella citata vicenda processuale parallela, i
giudici di appello) hanno affermato – con accertamento di fatto non
contestabile in questa sede e di fatto non contestato in maniera
specifica – che, all’atto del trasferimento dell’azienda, la CCR non
aveva cessato la propria attivita’ per essere risultato dagli atti
processuali che, pur dovendo detta attivita’ cessare il 14 maggio 2000,
sino al 30 giugno successivo erano stati mantenuti i contratti in corso
con la CCR, dovendo subentrare in essi la CBH solo dal 1 luglio 2000,
per cui difettava uno dei presupposti necessari, specificatamente in
caso di impresa in amministrazione straordinaria (anche alla stregua
della sentenza di questa Corte del 21 marzo 2001 n. 4073, citata dalle
stesse ricorrenti, ma solo parzialmente, come esattamente rilevato
dalla sentenza impugnata) per l’applicabilita’ della disposizione
invocata.
Per quanto infine attiene all’ulteriore presupposto
stabilito dalla L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5, va rilevato,
anche in questo giudizio, che gli accordi sindacali del (OMISSIS) “non
potevano impedire il trasferimento di azienda, avendo questa Corte piu’
volte affermato che la L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5,
interpretato privilegiandone il significato maggiormente conforme al
diritto comunitario di cui costituisce applicazione, in materia di
salvaguardia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento
d’azienda (direttiva 14 febbraio 1977 n. 77/187, a sua volta
interpretata in base alle sentenze della Corte di giustizia della
Comunita’ europea 25 luglio 1991 n. C – 362/89, D’Urso e dicembre 1995
n. C – 472/93, Spano e alla piu’ recente direttiva 29 giugno 1998 n.
98/50″” nonche’ all’ultima razionalizzazione della relativa disciplina
con la direttiva 2001/23/CE) “consente modificazioni peggiorative del
trattamento dei lavoratori, in deroga all’art. 2112 c.c. allo scopo di
salvaguardare le opportunita’ occupazionali, quando venga trasferita
l’azienda di una impresa insolvente, purche’ – ferma restando la
continuazione dei rapporti di lavoro – il potere modificativo
dell’imprenditore cessionario sia esercitato nei modi e nei limiti di
cui ai principi dell’Ordinamento interno e quindi non in maniera
unilaterale, ma solo sulla base di un nuovo e regolare contratto
collettivo e/o individuale” (Cass. n. 5929/08, cit, che richiama
altresi’ le precedenti sentenze nn. 16673/03 e 4724/99).
Anche
nel caso qui esaminato, la Corte territoriale ha evidenziato che
l’intesa del 13 giugno 2000 non conteneva l’esplicita manifestazione di
volonta’ di trasferire alla cessionaria solo una parte dei lavoratori
che a quella data risultavano occupati nell’azienda della cedente o un
qualche riferimento al destino occupazionale degli altri lavoratori
dichiarati in esubero, dal momento che gli stessi erano stati gia’
licenziati in data 11 maggio 2000.
Inoltre, i giudici del rinvio
hanno ritenuto irrilevante sul piano considerato l’accordo del
(OMISSIS) (raggiunto quando il giudizio era gia’ pendente), da cui
emergerebbe unicamente l’intento di una spiegazione postuma del
contenuto “monco” della precedente intesa.
Le societa’
ricorrenti ricordano peraltro che l’accordo del (OMISSIS) era stato
stipulato a seguito della richiesta della riapertura del tavolo della
trattative ex art. 47 cit. da parte dei sindacati ed era diretto a
recuperare le possibilita’ consentite dal comma 5 di tale articolo, ma
nulla controbattono alla corretta osservazione della sentenza impugnata
secondo cui tale riapertura non poteva comunque pregiudicare i diritti
acquisiti al patrimonio dei singoli per effetto del precedente
trasferimento di azienda cui era applicabile l’art. 2112 c.c..
Alla
luce delle argomentazioni sviluppate svolte dai giudici di rinvio,
appare infine conseguente l’affermazione della irrilevanza delle
considerazioni svolte in tesi dalle societa’ in ordine alla
collocazione sistematica dell’accordo sindacale all’interno della norma
di legge in esame.
Concludendo, anche il secondo motivo dei ricorsi e’ infondato.
4 – Col terzo motivo viene dedotta la violazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4, 5 e 24 e il vizio di motivazione.
Le
societa’ censurano la sentenza impugnata laddove questa ha ritenuto non
specificati in maniera sufficiente nella comunicazione L. n. 223 del
1991, ex art. 4, commi 2 e 3 i motivi della riduzione, le possibili
alternative non perseguibili e le misure programmate per fronteggiarne
le conseguenze sul piano sociale, ha accertato il superamento del
termine di 120 giorni di cui all’art. 4, comma 9 della medesima legge e
la mancanza nella comunicazione di cui a tale ultima disposizione della
puntuale indicazione delle modalita’ applicative dei criteri di scelta.
Le
ricorrenti sostengono viceversa che la comunicazione iniziale era
completa delle indicazione suddette e delle ragioni per le quali non
erano perseguibili misure alternative al licenziamento, illustrate
anche in un allegato richiamato nella comunicazione medesima.
Richiamano,
in proposito, le sentenze di questa Corte che affermano che la
specificazione e’ in funzione della finalita’ informativa, per cui non
sempre deve essere dettagliatissima, specialmente quanto ai rimedi
astrattamente possibili e alle ragioni per non adottarli.
Le
societa’ deducono altresi’ che per effetto dell’accordo del (OMISSIS)
il termine per l’adozione dei licenziamenti non scadeva entro 120
giorni dal 26.11.99, ma alla data di cessazione dell’amministrazione
straordinaria e cio’ era del resto nell’interesse dei lavoratori.
Il
giudice di rinvio avrebbe del resto errato nel ritenere applicabile
alla mobilita’ un termine stabilito solo per il licenziamento
collettivo ex art. 24 della legge.
Da tutto cio’, le societa’
traggono il convincimento della violazione della L. n. 223 del 1991,
artt. 4, 5 e 24 e del vizio di motivazione della sentenza impugnata.
Infine,
quanto alla comunicazione delle modalita’ con le quali sono stati
applicati i criteri di scelta, le ricorrenti ribadiscono quanto
affermato avanti alla Corte territoriale di rinvio e sostengono che le
modalita’ erano gia’ comprensibili nella comunicazione finale del 13
maggio 2000, ma comunque erano state poi specificate successivamente
con nota del 28 giugno 2000 a seguito del rinnovo dei criteri medesimi
imposta da un intervento della Prefettura di Bari (citano la sentenza
delle S.U. del 27 giugno 2000 n. 461, oltre a quelle 11 maggio 2000 n.
302 e 13 giugno 2000 n. 419).
Anche il motivo in esame e’ infondato.
Il
giudice di rinvio ha infatti riscontrato nella procedura di mobilita’
posta in essere dalla CCR numerosi vizi procedurali, in particolare
rilevando: a) che nell’iniziale comunicazione del 12 aprile 1999, letta
anche in combinazione con i relativi allegati, erano contenute
unicamente frasi di stile quanto alla individuazione dei motivi
dell’eccedenza, delle misure alternative al licenziamento, della
collocazione aziendale del personale eccedente; b) che non era stato
rispettato il termine di 120 giorni dalla chiusura della procedura
(26.11.99) per l’intimazione del licenziamento; c) non erano state
sufficientemente specificate le modalita’ con le quali erano stati
applicati i criteri di scelta di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5,
comma 1.
In proposito, va ribadito, con la giurisprudenza
prevalente di questa Corte, che nella materia dei licenziamenti
collettivi, la procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4 assume
un ruolo centrale nel controllo in ordine alla correttezza degli
stessi, in tal modo affidato ex ante alle OO.SS., per cui l’omissione
di essa o il non corretto adempimento degli obblighi di trattativa
trasparente imposti al riguardo al datore di lavoro determina L. n. 223
del 1991, ex art. 4, comma 12 e art. 5, comma 3 l’inefficacia dei
licenziamenti (cfr., tra le altre, Cass. S.U. 15 ottobre 2002 n. 14616,
cui adde Cass. 5 marzo 2008 n. 5929, cit, 3 luglio 2004 n. 12229, 20
agosto 2003 n. 12255).
Nel caso in esame, la difesa delle
ricorrenti si limita in proposito a contrastare i rilievi della
sentenza impugnata, in particolare quanto alla pretesa correttezza
delle comunicazioni iniziale e finale, richiamando il contenuto e gli
allegati alle stesse, che afferma sufficientemente specifiche, senza
peraltro riprodurne il contenuto o spiegare in maniera adeguata la
rilevanza, sul piano dell’osservanza del disposto di cui alla L. n. 223
del 1991, art. 4, comma 9, della vicenda dell’annullamento della prima
applicazione dei criteri legali di scelta (che la sentenza dichiara non
incidente sulla violazione di legge contestata), non osservando cosi’
la regola dell’autosufficienza del ricorso e senza specifiche
contestazioni, riconducibili alla possibile violazione di pertinenti
regole di diritto o a vizi di motivazione, delle singole valutazioni
della Corte territoriale, alle quali pertanto contrappone in maniera
meramente assertiva proprie opposte valutazioni, sostanzialmente di
merito, alla ricerca di un giudizio di terza istanza, non consentito in
questa sede di legittimita’.
In ragione di tale insufficiente
contrasto alla sentenza impugnata sui punti indicati, il motivo appare
comunque infondato, assorbito il resto.
Ne consegue il corretto
accertamento da parte dei giudici di rinvio dell’illegittimita’ del
licenziamento comunicato al lavoratore dalla CCR, il trasferimento del
rapporto di lavoro di questi alla CBH, divenuta cessionaria ex art.
2112 c.c. dell’azienda della prima societa’, con i diritti che ne
derivano.
5 – Infine col quarto motivo, le ricorrenti deducono
la violazione di principi di diritto e il vizio di motivazione della
sentenza impugnata, laddove in sede di risarcimento danni ex art. 18
S.L. al lavoratore, la Corte non ha dedotto quanto da questi percepito
a titolo di trattamento CIGS a decorrere dal 14 maggio 2000.
Anche tale motivo e’ infondato.
Premesso
che il trattamento economico CIGS ha natura previdenziale, va infatti
ribadito, in linea con l’orientamento consolidato di questa Corte, a
partire da Cass. S.U. 13 agosto 2002 n. 12194 (cfr., tra le altre,
Cass. 14 giugno 2007 n. 13871 e 14 febbraio 2005 n. 2928) che
nell’ipotesi di licenziamento dichiarato illegittimo, le somme medio
tempore percepite dal lavoratore a titolo di trattamento previdenziale
(pensione, indennita’ di mobilita’ o trattamento CIGS) si sottraggono
alla regola della “compensano lucri cum damno”, e quindi non vanno
sottratte dal risarcimento danni conseguente all’annullamento,
commisurato alle retribuzioni perdute, in quanto tali somme perdono il
loro titolo giustificativo con l’annullamento del licenziamento e
devono pertanto essere restituite, su sua richiesta, all’ente
previdenziale.
6 – Concludendo, sulla base delle considerazioni
esposte i due ricorsi vanno respinti, con le normali conseguenze anche
in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione,
secondo la liquidazione operata in dispositivo.
P.Q.M.
LA
CORTE Riunisce i ricorsi nn. 29706 e 29709/06 e li rigetta; condanna
C.C.R. s.r.l. in liquidazione e C.B.H. s.p.a. a rimborsare a C. P. le
spese di questo giudizio, liquidate in Euro 25,00 per spese ed Euro
3.000,00, oltre accessori, per onorari, a carico di ciascuna societa’.
Cosi’ deciso in Roma, il 29 ottobre 2009.