Licenziamento impugnato fuori termine: preclusi reintegro e risarcimento Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 05.02.2010 n° 2676
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 5 febbraio 2010, n. 2676
Svolgimento del processo
Con
ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Verona, depositato in data
30.3.2004, B.A., G.G., C. R. o C., Z.G. e Ce.Vi., premesso di aver
svolto attività lavorativa alle dipendenze della Rete Ferroviaria
Italiana s.p.a., esponevano che la società predetta aveva loro
intimatolo il licenziamento con decorrenza dal 31.12.1998, in quanto
risultati “eccedenti” nell’ambito di procedure concordate con le
Organizzazioni sindacali (accordi del 21.5.1998 e del 5.8.1998).
Chiedevano pertanto la condanna della società convenuta alla
reintegrazione ed al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 18 dello
Statuto dei Lavoratori o, in via subordinata, al risarcimento dei danni
ai sensi dell’art. 1218 c.c..
Con sentenza in data
16.11.2004 il Tribunale adito accoglieva la domanda, assumendo la
illegittimità dei licenziamenti intimati senza l’adozione della
procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, e la irrilevanza
della circostanza che i detti licenziamenti fossero stati impugnati
fuori termine, atteso che l’inammissibilità della domanda ex art. 18
St. Lav. non ostava all’accoglimento della normale azione risarcitoria
che i ricorrenti avevano esercitato in via subordinata.
Avverso
tale sentenza proponeva appello la Rete Ferroviaria Italiana s.p.a.
lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo il rigetto
delle domande proposte da controparte con il ricorso introduttivo.
La Corte di Appello di Venezia, con sentenza in data 21.3.2006, rigettava il gravame.
Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la società datoriale con due motivi di impugnazione.
Resistono con controricorso gli intimati.
Entrambe le parti hanno presentato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Col
primo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione di legge;
violazione della L. n. 604 del 1966, art. 6 e L. n. 223 del 1991, art.
5, comma 3; decadenza dall’impugnazione; inammissibilità del ricorso.
In
particolare rileva la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale
aveva ritenuto che la mancata impugnazione del licenziamento nel
termine di sessanta giorni previsto dalla normativa in materia non
escludesse la possibilità di proporre l’azione di risarcimento
ordinaria secondo i principi previsti dal codice civile.
Ed
invero l’onere dell’impugnazione tempestiva era previsto dalla L. n.
604 del 1966 in generale e dalla L. n. 223 del 1991 per le ipotesi
particolari di licenziamento collettivo, quale specifico presupposto
perchè fosse possibile mettere in discussione la legittimità del
licenziamento; con la conseguenza che, se tale onere non viene assolto
e la decadenza matura, il giudice non può conoscere della illegittimità
del licenziamento in questione neppure per ricollegare allo stesso
conseguenze risarcitorie di diritto comune, essendo precluso al
lavoratore di allegare il fatto costitutivo della pretesa, e cioè
l’assenza di giusta causa o di giustificato motivo obiettivo per il
licenziamento individuale ovvero, in caso di licenziamento collettivo,
la ricorrenza di vizi processuali.
Col secondo motivo di
gravame la ricorrente lamenta omessa, insufficiente e/o contraddittoria
motivazione circa un fatto decisivo della controversia ex art. 360
c.p.c., n. 5.
In particolare rileva la ricorrente che
erroneamente la Corte territoriale avevano ritenuto che nessuna censura
fosse stata proposta dalla Rete Ferroviaria in ordine al quantum della
pretesa risarcitoria, risultando invece per tabulas che tali censure
erano rivolte sia all’an che al quantum della pretesa azionata.
Il ricorso è fondato.
In
proposito osserva preliminarmente il Collegio che l’eccezione di
inammissibilità del ricorso sollevata dagli intimati per violazione
dell’art. 366 bis c.p.c. in considerazione della mancata formulazione
del quesito di diritto, non può essere accolta ove si osservi che la
ricorrente ha senz’altro ottemperato alla disposizione predetta che fa
carico al ricorrente, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1,
nn. 1, 2, 3 e 4, di concludere il motivo di gravame con la formulazione
di un quesito di diritto che consenta alla Corte di legittimità di
enunciare un corrispondente principio di diritto; ed invero la società
ricorrente, nel caso di specie, a conclusione del primo motivo di
gravame concernente la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,
ha ritualmente formulato il relativo quesito.
E la
ricorrente ha parimenti ottemperato alla previsione contenuta nella
seconda parte del sul predetto art. 366 bis c.p.c. ove si osservi che
le Sezioni Unite, dopo aver rilevato che, secondo l’art. 366 bis
c.p.c., anche “nel caso previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5,
l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di
inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in
relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria;
ovvero
le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la
renda inidonea a giustificare la decisione”, hanno precisato che
“pertanto la relativa censura, dopo la riforma, deve contenere un
momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva
puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze, nè in
sede di formulazione del ricorso, nè in sede di valutazione della sua
ammissibilità” (Cass. SS.UU., 1.10.2007 n. 20603).
Orbene,
nel caso di specie parte ricorrente ha puntualizzato che le censure
rivolte in appello erano del tutto adeguate e riferite a quello che la
Corte d’appello definisce l’an ed il quantum dell’azione, attenendosi
quindi senz’altro al principio di diritto già enunciato da questa Corte
secondo cui “l’art. 366 bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di
formulazione dei motivi del ricorso in cassazione comporta, ai fini
della declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, una
diversa valutazione da parte del giudice di legittimità, a seconda che
si sia in presenza dei motivi di ricorso previsti dall’art. 360 c.p.c.,
comma 1, nn. 1, 2, 3, e 4 o del motivo previsto dal n. 5, della stessa
disposizione. Ed invero per i primi motivi, ciascuna censura deve
all’esito della sua illustrazione tradursi in un quesito di diritto, la
cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come
attestato dall’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di
diritto ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di
particolare rilevanza, laddove il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n.
5, avendo un diverso e specifico oggetto per investire il solo iter
argomentativo della impugnata decisione, richiede una illustrazione,
che sia libera da qualsiasi rigidità formale, ma che nello stesso tempo
si concretizzi in una esposizione chiara e sintentica del fatto
controverso – in relazione al quale la motivazione si assuma omessa o
contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta
insufficienza di motivazione la rende inidonea a giustificare la
decisione” (Cass. sez. lav., 25.2.2009 n. 4556).
Passando
quindi all’esame del primo motivo di gravame osserva il Collegio che
secondo un indirizzo ormai risalente (Cass. sez. lav., 5.2.1985 n. 817;
Cass. sez. lav., 24.6.1987 n. 5532; Cass. sez. lav., 2.3.1999 n. 1757)
“la mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non
comporta la liceità del recesso del datore di lavoro bensì preclude al
lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di
lavoro e il risarcimento ai sensi della L. n. 300 del 1970, conseguendo
da ciò che, nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia
verificata la decadenza dall’impugnazione, è concesso al lavoratore di
esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali
che governano questa azione, sempre che ne ricorrano (e siano dal
lavoratore allegati) i relativi presupposti” (Cass. sez. lav., 2.3.1999
n. 1757).
In siffatto contesto, è stato anche affermato
che, costituendo l’inadempimento il fatto costitutivo generatore della
pretesa fatta valere, il regime di tutela si risolve, fermo il fatto
costitutivo, in una questione di scelta della norma giuridica da
applicare (la L. n. 300 del 1970, art. 18, ovvero le norme
codicistiche) che come tale è passibile di mutamento ad opera delle
stesse parti o anche del giudice – senza che ciò comporti modifica
della “causa petendri” (in tal senso, Cass. sez. lav., 23.12.2000 n.
16163).
Queste affermazioni, ha rilevato peraltro la giurisprudenza più recente, meritano una attenta riconsiderazione.
Va
in primo luogo considerato che il vigente ordinamento prevede per la
risoluzione del rapporto di lavoro una disciplina speciale, del tutto
diversa da quella ordinaria, i cui connotati di specialità e di
imperatività mal si conciliano con una libertà di scelta per le parti
tra regime ordinario e regime speciale nelle aree in cui il
licenziamento deve essere necessariamente sorretto da specifiche
ragioni. Nel quadro di questo speciale regime, e nelle relative aree,
il legislatore ha previsto un termine breve di decadenza (sessanta
giorni) per l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore
(L. n. 604 del 1966, art. 6 e L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3) a
garanzia della certezza della situazione di fatto determinata dal
recesso datoriale, ritenendo tale certezza valore preminente rispetto a
quello della legittimità del licenziamento.
Ne consegue
che al lavoratore che non abbia impugnato nel termine di decadenza
suddetto il licenziamento è precluso il diritto di far accertare in
sede giudiziale la illegittimità del recesso e di conseguire il
risarcimento del danno, nella misura prevista dalle leggi speciali (L.
n. 604 del 1966, art. 8 e L. n. 223 del 1991, art. 18). Se tale onere
non viene assolto dal lavoratore, peraltro, il Giudice non può
conoscere della illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare
al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune.
“La
decadenza, infatti, impedisce al lavoratore di richiedere il
risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, in
quanto non consente di far accertare in sede giudiziale la
illegittimità del licenziamento. Poichè l’inadempimento (nella specie,
recesso illegittimo) costituisce presupposto del risarcimento dovuto
dal contraente inadempiente a norma dell’art. 1218 cod. civ. la
impossibilità di tale accertamento esclude la possibilità di
riconnettere al preteso inadempimento del datore di lavoro
l’obbligazione risarcitoria in favore del lavoratore. A tal fine è
irrilevante che si tratti di licenziamento individuale o collettivo,
poichè ciò che viene in rilievo è sempre la posizione soggettiva
particolare del lavoratore che invoca la tutela risarcitoria.
L’azione
risarcitoria di diritto comune, dunque, può essere esercitata, anche in
caso di decadenza, soltanto in via residuale per far valere profili di
illegittimità del licenziamento che siano diversi da quelli previsti
dalla normativa speciale sui licenziamenti, individuali o collettivi.
Nell’area dei licenziamenti disciplinati dalla normativa speciale,
invece, l’azione risarcitoria di diritto comune può essere esercitata,
in via alternativa, soltanto previa tempestiva impugnazione del
licenziamento” (Cass. sez. lav., 21.8.2006 n. 18216).
Da
siffatto orientamento, fatto proprio da numerose altre sentenze (Cass.
sez. lav., 9.3.2007 n. 5545; Cass. sez. lav., 14.5.2007 n. 11035; Cass.
Sez. lav., 4.5.2009 n. 10235), ritiene la Corte di non doversi
discostare, dovendosi pertanto ritenere che la decadenza impedisce al
lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme
codicistiche ordinarie, nella misura in cui non consente di far
accertare in sede giudiziale la illegittimità del licenziamento.
In
particolare, sul piano della responsabilità contrattuale, poichè
l’inadempimento (nella specie, il dedotto recesso illegittimo)
costituisce presupposto del risarcimento dovuto dal contraente
inadempiente a norma dell’art. 1218 c.c., la impossibilità di tale
accertamento esclude la possibilità di riconnettere al preteso
inadempimento del datore di lavoro l’obbligazione risarcitoria in
favore del lavoratore, ed a tal fine è irrilevante che si tratti di
licenziamento individuale o collettivo, perchè ciò che viene in rilievo
è sempre la posizione soggettiva particolare del lavoratore che invoca
la tutela risarcitoria.
A questi principi non si è
attenuta la sentenza impugnata, avendo il Giudice di appello
riconosciuto ai lavoratori il diritto al risarcimento del danno secondo
le norme comuni, pur essendo pacifico che erano decaduti dal diritto di
impugnare il licenziamento.
Per tutte le considerazioni
sopra svolte il suddetto motivo ricorso, dunque, deve essere accolto,
in esso assorbito il secondo motivo, con conseguente cassazione della
sentenza impugnata.
Non essendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito a norma
dell’art. 384 c.p.c., comma 1, con il rigetto delle domande proposte
dai lavoratori.
Sussistono giusti motivi, ravvisabili
nella specie nelle contrastanti decisioni dei giudici di merito e nella
complessità della questione esaminata, per compensare interamente tra
le parti le spese dei due gradi di merito e del presente giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
La
Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel
merito rigetta le domande proposte dai lavoratori; compensa tra le
parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2010.
La mancata impugnazione del licenziamento nel
termine prefissato (60 gg.) preclude al lavoratore sia l’azione di
reintegro che quella di risarcimento del danno.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione lavoro, nella sentenza 5 febbraio 2010, n. 2676.
La
vicenda ha riguardato alcuni lavoratori, risultati in esubero
nell’ambito delle procedure di cui alla legge 223 del 1991, che hanno
impugnato tardivamente i rispettivi intimati licenziamenti, ritenuti
illegittimi, per vedersi riconoscere la condanna del datore di lavoro
alla reintegrazione ed al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 18
dello Statuto dei Lavoratori o, in via subordinata, al risarcimento dei
danni in base alle regole del diritto comune.
I giudici di prime
cure, accertando l’inammissibilità della domanda proposta fuori
termine, hanno accolto soltanto l’azione risarcitoria promossa in via
subordinata dai ricorrenti.
La Corte di Cassazione non ha però condiviso però siffatta conclusione.
Al
riguardo, ha precisato che, se pur un risalente indirizzo (Cass. sez.
lav., 5.2.1985, n. 817; Cass. sez. lav., 24.6.1987, n. 5532; Cass. sez.
lav., 2.3.1999, n. 1757) ha affermato che la mancata impugnazione del
licenziamento nel termine fissato dalla legge preclude al lavoratore
solo la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il
risarcimento ai sensi della Legge n. 300/1970,
senza limitare allo stesso, in presenza dei relativi presupposti, la
possibilità di esperire la normale azione risarcitoria in base ai
principi generali, tuttavia, tale assunto è stato sottoposto dalla
giurisprudenza più recente ad una più attenta valutazione.
Invero,
ha sottolineato il Collegio, nel vigente ordinamento, alla risoluzione
del rapporto di lavoro è riservata una disciplina speciale, del tutto
diversa da quella ordinaria, nella quale è stato previsto un termine
breve di decadenza (60 gg.) per l’impugnazione del licenziamento da
parte del lavoratore a garanzia della certezza della situazione di
fatto determinata dal recesso datoriale, ritenuta un valore preminente
rispetto a quello della legittimità del licenziamento.
Se il
lavoratore però non assolve tale onere – ha proseguito la Corte – al
giudice è precluso conoscere la legittimità del licenziamento impugnato
e, conseguentemente, non può condurre allo stesso nemmeno domande
risarcitorie di diritto comune.
In altre parole, il giudice
per riconoscere il risarcimento di un danno deve prima accertare
l’inadempimento, quale presupposto a fondamento dello stesso, che nel
caso in argomento sarebbe dato dal licenziamento (illegittimo). Orbene,
essendo precluso al giudice di conoscere il licenziamento (illegittimo)
per effetto dell’impugnazione tardiva, coerentemente non potrà
riconnettere al preteso inadempimento del datore di lavoro
l’obbligazione risarcitoria in favore del lavoratore.
L’eventuale
azione risarcitoria, in caso di decadenza, secondo le norme
codicistiche – ha concluso la Corte – può essere esercitata solo in via
residuale per far valere profili di illegittimità diversi da quelli
previsti dalla normativa speciale sui licenziamenti, mentre nell’area
dei licenziamenti ricadenti nella normativa speciale, l’azione
risarcitoria di diritto comune può essere esercitata, in via
alternativa, soltanto previa tempestiva impugnazione del licenziamento.