Licenziamento, minacce, datore di lavoro, lavoratore, legittimità
E’ legittimo il licenziamento del dipendente che ha rivolto frasi
minacciose, riportate nella lettera di contestazione, al capo
dell’azienda. (1)
N.d.r.: La
Corte ha confermato la decisione del giudice di merito sulla base del
principio che spetta esclusivamente a questi individuare le fonti del
proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità,
scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a
dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all’uno o
all’altro mezzo di prova, salvo in casi tassativamente previsti dalla
legge in cui un valore legale è assegnato alla prova.(*) Riferimenti normativi: art. 116 c.p.c..
(1) Si veda il focus di L. Viola: Il licenziamento nella casistica giurisprudenziale recente.SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 8 luglio – 29 settembre 2009, n. 20844
(Presidente Ianniruberto – Relatore Vidimi)
Svolgimento del processo
Con
atto depositato in data 24 luglio 2004, V. A. proponeva appello avverso
la sentenza del Tribunale di Bari che aveva rigettato il suo ricorso
volto a fare dichiarare la nullità o l’inefficacia del licenziamento
intimatogli in data 5 ottobre 1994 da parte del suo datore di lavoro,
con la reintegra nel posto di lavoro e tutte le conseguenze di legge.Dopo
la costituzione della s.p.a. O. M., la Corte d’appello di Bari con
sentenza del 14 giugno 2005 rigettava l’appello e compensava tra le
parti le spese del giudizio. Nel pervenire a tale conclusione la Corte
territoriale osservava che era rimasto provato, a seguito delle
risultanze istruttorie e specificamente delle deposizioni dei testi L.
e T., che l’A. il giorno 19 settembre 1994 si era recato presso
l’azienda della società ed aveva rivolto frasi minacciose, riportate
nella lettera di contestazione, al titolare della impresa, D. M..Avverso tale sentenza V. A. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la s.p.a. O. M..
Motivi della decisione
Con
il primo motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione
dell’art. 116 c.p.c. in tema di valutazione delle prove lamentando
l’infondatezza e la pretestuosità della motivazione addotta dalla
società Ing. O. M. a fondamento del disposto licenziamento in quanto il
giorno 19 settembre 1994 non solo non si era recato presso la sede
aziendale ma soprattutto non era mai andato nell’ufficio del legale
rappresentante pro-tempore di quest’ultima, dott. D. M., al quale non
aveva rivolto le frasi che gli erano state contestate. Il giudice
d’appello, pertanto, nel ritenere legittimo il licenziamento non aveva
fatto un buon governo delle risultanze processuali avendo deciso sulla
base di una supposta attendibilità di alcuni testi (L. V. e T. M.) e di
una altrettanto supposta inattendibilità di altri testi (M. R., A. A. e
A. D.).Con il secondo motivo il ricorrente lamenta vizio di
motivazione su un punto decisivo della controversia nonché vizio di
motivazione ancora in tema di valutazione delle prove, addebitando al
giudice d’appello di non avere accolto la sua richiesta di informativa
all’ufficio di collocamento volta ad accertare se il teste L.
risultasse dipendente di una delle imprese facenti capo alla “s.p.a.
Ing. O. M.”, accertamento necessario al fine di valutare
l’attendibilità del suddetto teste. In altri termini dapprima non si
era consentito alla difesa di dare sfogo alla richiesta di informativa
e poi si era addossato ad esso ricorrente la mancata prova del suo
assunto. Per concludere, il giudizio di attendibilità dei testi non era
avvenuto mediante un rigoroso vaglio critico delle singole deposizioni
da operarsi in modo incrociato sulla base di elementi soggettivi ed
oggettivi propri di ciascuna deposizione. I due motivi di ricorso – da
esaminarsi congiuntamente per essere l’oggetto delle censure questioni
tra loro strettamente connesse – vanno rigettati perché privi di
fondamento.Questa Corte ha affermato costantemente che
allorquando con il ricorso per cassazione venga prospettato un vizio di
motivazione della sentenza, il ricorrente – a fronte di una denunziata
insufficiente spiegazione logica relativa all’apprezzamento, operato
dal giudice di merito, dei fatti della controversia o delle prove – non
può limitarsi a prospettare una spiegazione di tali fatti e delle
risultanze istruttorie con una logica alternativa – pur se essa sia
supportata dalla possibilità o dalla probabilità di corrispondenza alla
realtà fattuale – essendo invece necessario che tale spiegazione logica
alternativa appaia come l’unica possibile, atteso che il vizio di cui
all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., dovendo incidere su un
fatto “decisivo del giudizio”, legittima il ricorso per cassazione
unicamente per vizi di omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione e non certo per consentire alla S.C., quale giudice di sola
legittimità, di scegliere sulla base di criteri possibilistici o
probabilistici tra due prospettazioni, ambedue logiche ma nello stesso
tempo alternative (cfr. tra le altre: Cass. 9 gennaio 2009 n. 261). E
nella stessa direzione argomentativa va anche segnalato l’assunto, pure
esso più volte ripetuto da giudici di legittimità, che il vizio di
omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per
Cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., sussiste solo
quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla
sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio
logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento,
mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le
ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente
contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire
l’individuazione della “ratio decidendi”, e cioè l’identificazione del
procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata.
Ne consegue che detti vizi non possono consistere nella difformità
dell’apprezzamento dei fatti e delle prove, dato dal giudice del merito
rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice
individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove,
controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le
risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in
discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo
i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è
assegnato alla prova (cfr. ex plurimis: Cass. 6 marzo 2008 n. 6064).Alla
stregua dei suddetti principi la impugnata sentenza si sottrae ad ogni
critica perché il giudice d’appello – dopo avere valutato attentamente
le deposizioni dei testi escussi e spiegato le ragioni che facevano
ritenere attendibili le deposizioni dei testi L. e T. e dopo avere
tenuto conto anche di quanto riferito dal titolare della impresa M. –
ha ritenuto raggiunta la prova che l’A. aveva pronunziato parole
offensive e minacciose nei riguardi di D. M., capaci per la loro
gravità di legittimare il licenziamento.Per concludere il
ricorso va rigettato perché la sentenza impugnata, per essere
congruamente motivata, priva di salti logici e per avere fatto corretta
applicazione di principi rispondenti ad un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, non è assoggettabile ad alcuna delle censure che le
sono state mosse.Il ricorrente, rimasto soccombente va
condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione
ed agli onorari difensivi, liquidati come in dispositivo.P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 12,00,
oltre euro 2.500,00 per onorari difensivi, oltre IVA, CPA e spese
generali.