Lite temeraria, valutazione, equità, precisazioni Tribunale Varese, ordinanza 23.01.2010
Tribunale di Varese
Ordinanza 23 gennaio 2010
(Giudice Buffone)
Osserva
In fatto
In
data 20 marzo 2009, il Tribunale di Varese omologava, con proprio
decreto, l’accordo di separazione sottoscritto dalle parti oggi in lite
e depositato in cancelleria in data 14 novembre 2008. La clausola n. 2
dell’accordo, inserito nel ricorso per la separazione consensuale,
prevede testualmente:
La casa coniugale, della quale i
ricorrenti sono comproprietari, verrà posta in vendita, anche per
l’eventuale tramite di un mediatore, al prezzo di euro 230.000,00.
Propone
ricorso per procedimento sommario la C. “La domanda che la ricorrente
propone è relativa alla nomina di un mediatore che si occupi, così come
stabilito dall’art. 2 dell’omologa di separazione, della vendita della
casa cointestata ai coniugi” (pag. 3 del ricorso).
Natura giuridica dell’accordo oggetto di lite.
I
c.d. accordi sulla separazione vanno annoverati nell’alveo dei negozi
di diritto familiare. Giova, al riguardo, premettere che la Corte di
Cassazione – dopo avere con l’ormai lontana sentenza n. 14 del 5
gennaio 1984 negato la possibilità di simili accordi – è, quindi,
addivenuta, con le successive sentenze (già: n. 2270 del 24 febbraio
1993 e n. 657 del 22 gennaio 1994), ad un approfondito riesame della
questione affermandone la validità ed efficacia. In accordo con i
postulati della concezione c.d. “privatistica” della separazione
consensuale, a cui favore militano tanto il tenore letterale degli
articoli 158, comma 1, Cc e 711, comma 4, Cpc, quanto i limiti si
poteri di controllo del giudica prefigurati dall’articolo 158, comma 2,
c.c., la giurisprudenza ormai costante ha, dunque, ripetutamente
affermato che l’accordo di separazione costituisce un atto di natura
essenzialmente negoziale – più precisamente, un negozio giuridico
bilaterale a carattere non contrattuale (in quanto privo, almeno nel
suo nucleo centrale del connotato della “patrimonialità”) – rispetto al
quale il provvedimento di omologazione si atteggia a mera condizione
sospensiva (legale) di efficacia: avendo detto provvedimento la
circoscritta funzione di verificare che la convenzione sia compatibile
con le norma cogenti ed i principi di ordine pubblico, nonché di
controllare, la termini più pregnanti, che l’accordo relativo
all’affidamento e al mantenimento dei figli non contrasti con
l’interesse di questi ultimi. Con la conseguenza, tra l’altro, che
l’avvenuta omologazione lancia affatto impregiudicata la facoltà delle
parti di esperire nei confronti della convenzione l’azione di
annullamento per vizi della volontà, in base alle regole generali
(Cassazione, 6625/05; 17902/04; 17607/03; 3149/01).
Al tempo
stesso, la Cassazione ha costantemente riconosciuto la validità dello
clausole dell’accordo di separazione che, nel quadro della complessiva
regolamentazione dei rapporti tra i coniugi, prevedano il trasferimento
di beni immobili (Cassazione, 43061/97; 12110/92; con particolare
riguardo ai riflessi fiscali, 11458/05; 7493/02), ovvero la
costituzione di diritti reali minori, tra cui, in primis, il diritto di
abitazione (cfr., in tal senso, già la remota Cassazione, 1594/63):
clausole che presentano, peraltro, una loro propria “individualità”,
quali espressioni di libera autonomia contrattuale della parti
interessate (cfr. Cassazione, 12897/91), dando vita, nella sostanza a
veri e propri contratti atipici, con particolari presupposti e
finalità, non riconducibili né al paradigma delle convenzioni
matrimoniali né a quello della donazione, ma diretti comunque a
realizzare interessi meritevoli di tutela ai sonni dell’articolo 1322
c.c. (Cassazione, 11342/04; 12110/92; 9500/87; 3299/72; con riguardo
altresì a clausola inserita in un accordo per la separazione di fatto,
Cassazione, 7470/92).
L’accordo per cui è lite va, dunque,
qualificato come patto avente natura negoziale (in specie:
contrattuale), c.d. “occasionato” dalla separazione e connotato da
propria ed autonoma causa giuridica. Nel caso di specie, la ragione
sottesa alla clausola n. 2, va intravista nella volontà dei coniugi di
procedere ad uno scioglimento convenzionale della comunione legale in
parte qua e, cioè, con riferimento alla comproprietà indivisa della
casa coniugale. Tale ragione, tuttavia, costituisce, il “motivo comune”
dei contraenti atteso che, guardando alla causa “concreta” (Cass. civ.
Sez. Un., 11 novembre 2008 nn. 26972, 26973, 26974, 26975, v. in parte
motiva), vi è la comune volontà di realizzare l’effetto traslativo
dell’immobile in favore di un terzo da individuare mediante successivi
comportamenti, se del caso, esecutivi o a carattere negoziale.
Altrimenti detto: per realizzare la divisione del bene, i coniugi ne
programmano la vendita e la spartizione del ricavato in denaro.
Tale
scopo preso di mira viene ad essere realizzato con una comune decisione
preliminare che prelude alle successive attività negoziali le quali, di
fatto, al termine, integreranno un vero e proprio collegamento
negoziale.
Ed, infatti:
1) “l’abitazione verrà posta in
vendita” (contratto ad effetti obbligatori: le parti si impegnano a
prestare il consenso alla vendita dell’immobile);
2) vi sarà la materiale vendita dell’immobile a terzi (contratto ad effetti reali);
3) “il provento della vendita sarà ripartito tra i coniugi in parti uguali” (divisione del ricavato dalla vendita).
Impegno a vendere, in futuro, la casa coniugale
Le
coordinate che precedono inducono a qualificare l’accordo in esame come
funzionale alla divisione di un bene immobile comune, nella
risistemazione dei rapporti patrimoniali a seguito della crisi del
vincolo di coniugio. In argomento, la Suprema Corte (v. Cass. civ. ,
sez. I, sentenza 22 novembre 2007 n. 24321) ha affermato che l’accordo
mediante il quale i coniugi, nel quadro della complessiva
regolamentazione dei loro rapporti in sede di separazione consensuale,
stabiliscano il trasferimento di beni immobili (e, segnatamente, come
nella specie, di quello che costituisce la casa familiare), dà vita ad
un contratto atipico, il quale, volto a realizzare interessi meritevoli
di tutela secondo l’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 1322 c.c.,
nonché caratterizzato da propri presupposti e finalità senza risultare,
del resto, necessariamente collegato alla presenza di uno specifico
corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della
donazione, risponde, di norma, ad un originario spirito di
sistemazione, in occasione appunto dell’evento di “separazione
consensuale”, di tutta quell’ampia serie di rapporti (anche del tutto
frammentari) aventi significati (o, eventualmente, anche solo riflessi)
patrimoniali maturati nel corso della (spesso anche lunga) quotidiana
convivenza matrimoniale (Cass. n. 9034/1997, cit.; Cass. 23 marzo 2004,
n. 5741; Cass. 17 giugno 2004, n. 1342; Cass. 14 marzo 2006, n. 5473;
Cass. n. 9863/2007).
In particolare, la clausola della
separazione consensuale istitutiva dell’impegno futuro di vendita
dell’immobile adibito a casa coniugale si configura come del tutto
“autonoma” rispetto al regolamento concordato dai coniugi in ordine
alla separazione “in senso stretto” (v. Cass. civ. 24321/07 cit.) e
presuppone la attiva collaborazione di entrambi i contraenti per la
esecuzione dello stesso e, cioè, per la vendita del bene stesso a terzi
(su cui, v. Cass. civ. Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26739).
Ciò
vuol dire che, successivamente all’accordo confezionato nelle
condizioni di omologa, è ben possibile e configurabile un comportamento
inadempiente di una delle parti all’obbligo di scioglimento della
comunione avente ad oggetto l’immobile adibito a casa coniugale: come
la parte ricorrente denuncia nel caso di specie.
Vi è, allora, da chiarire quale sia lo strumento giuridico di tutela in questi casi.
Ed,
infatti, secondo la ricorrente il giudice potrebbe (e dovrebbe)
nominare un esecutore dell’accordo (nel caso di specie: un mediatore)
affinché renda vitale ed attivo l’impegno assunto.
La tesi non può trovare accoglimento.
In
primo luogo, come correttamente osserva la difesa del resistente,
l’interpretazione dell’accordo (secondo il canone oggettivo del
significato proprio delle parole), conduce a rilevare che la clausola
espressamente prevede solo “l’eventualità” della nomina di un mediatore
che, dunque, non può dirsi affatto un obbligo certo e tipizzato dalla
convenzione.
Ma vi è, invero, di più: a prescindere dalla
circostanza sopra indicata, il giudice non potrebbe giammai portare ad
esecuzione l’accordo de quo nel modo indicato dalla ricorrente atteso
che la pronuncia richiesta non è affatto configurabile. Nell’ipotesi di
specie, infatti, l’accordo stipulato è affine al contratto preliminare
di contratto definitivo a favore del terzo: le parti si impegnano a
stipulare un contratto definitivo di compravendita con un terzo da
identificare; e l’identificazione “può” essere rimessa ad un mediatore
che le parti stesse devono designare.
Orbene: trattasi di un
obbligo dai connotati infungibili, poiché la condotta ad esso sottesa è
demandata alla discrezionalità dei contraenti.
Ed, infatti,
l’accordo dei coniugi: non prevede l’obbligo della nomina di un
mediatore (ma l’eventualità); non indica i criteri per pervenire alla
nomina; non indica il bacino da cui attingere per la designazione. È,
dunque, accordo del tutto discrezionale che prevede l’insostituibile
partecipazione dei contraenti alla fase esecutiva. Ebbene: vuoi ove sia
violato l’obbligo a prestare il consenso, vuoi ove sia violato
l’obbligo a nominare un mediatore per le operazioni di vendita, la
domanda richiede una pronuncia che non può essere concessa.
Nel
primo caso, ove si accedesse alla lettura ermeneutica per cui si tratta
di un preliminare, la parte non ha avanzato alcuna richiesta ex art.
2932 c.c., ove sono scolpite le norme per pervenire alla esecuzione
specifica dell’obbligo di concludere un contratto. Per tali motivi,
l’aspetto non va sindacato in questa sede (art. 112 c.p.c.).
“La
domanda che la ricorrente propone è relativa alla nomina di un
mediatore che si occupi, così come stabilito dall’art. 2 dell’omologa
di separazione, della vendita della casa cointestata ai coniugi” (v.
atto di ricorso).
Nel secondo caso, ove si assuma violato
l’obbligo di nomina di un mediatore immobiliare, la richiesta, come già
detto, non può trovare consensi.
Ed, infatti, l’obbligo dedotto
nella clausola va inscritto nell’alveo degli obblighi di fare aventi ad
oggetto una prestazione che può essere adempiuta dal solo obbligato, il
quale si trova in una situazione non surrogabile da altri
(comproprietario del bene immobile che deve porre in essere una
condotta esecutiva in attuazione di un accordo di omologa). Come hanno
chiarito le Sezioni Unite penali del 5 ottobre 2007 n. 36692, seppur in
via di obiter dicta rilevanti interpretando l’art. 388 c.p., gli
obblighi sono infungibili quando la natura personale delle prestazioni
imposte esclude che l’esecuzione possa prescindere dal contributo
dell’obbligato. Nel caso di specie, non è il comportamento in sé ad
essere determinante per tale giudizio, quanto la specifica
indeterminatezza ed eventualità dell’obbligo: ed, invero, è proprio la
successiva volontà delle parti a dare un volto alla stipula non
essendo, dunque, ammissibile un intervento “integrativo” del giudice
che frantumerebbe il principio stesso dell’autonomia negoziale.
Concludendo:
non è possibile l’esecuzione specifica delle obbligazioni infungibili
di fare, così come non è possibile l’esecuzione specifica di obblighi
che comportino determinazione autonoma di volontà di un terzo (Cass.
civ., Sez. II, 26 marzo 1979, n. 1756); su cui, peraltro, oggi
potrebbero essere date nuove risposte alla luce del neofita istituto di
cui all’art. 614-bis c.p.c., introdotto dalla legge 69/2009, non
oggetto, però, dell’odierno giudizio.
A ben guardare, comunque,
la pronuncia di cui si chiede l’emissione andrebbe ad incidere –
integrandolo – sullo statuto negoziale con una decisione imposta
unilateralmente dal giudice senza alcun appiglio nella scheda
negoziale, così invadendo il terreno riservato al comune volere dei
contraenti.
E, peraltro, il mediatore, come le parti affermano
entrambe, è stato, comunque nominato dal resistente, ragion per cui la
pronuncia del giudice andrebbe anche a porsi in contrasto con una
dinamica negoziale già attuata.
Per le ragioni esposte, la domanda introduttiva del giudizio va rigettata.
Condotta contraria a buona fede
Nonostante
la domanda introduttiva del giudizio sia, per i motivi sin qui esposti,
da rigettare per ragioni che anticipano il sindacato di merito, al
riguardo, alcune considerazioni non possono essere omesse.
In
primo luogo è pacifico, come già rilevato, che il mediatore, alla fine,
sia stato effettivamente designato dalla controparte (a maggio del
2009) e le censure e doglianze della ricorrente si siano concentrate
sulle qualità dell’operatore indicato.
Ma trattasi di censure che non appaiono né serie, né condivisibili.
Successivamente
all’accordo di omologa, la ricorrente ha sollecitato l’adempimento
all’impegno assunto in sede di separazione inviando lettera formale al
marito del seguente tenore:
“La invito (…) ad indicare una agenzia immobiliare di Sua Scelta ove porre in vendita (…) l’immobile”.
Ebbene,
il tenore della comunicazione in parola è chiaro, preciso e non
equivoco: la stessa ricorrente intimava al resistente di attivarsi per
l’esecuzione dell’impegno assunto in sede di omologa scegliendo,
unilateralmente e discrezionalmente, un mediatore.
Coglie nel
segno, al riguardo, la deduzione rassegnata dalla difesa del
resistente, là dove, in sintesi, si denuncia un esercizio disfunzionale
della situazione giuridica soggettiva. Ed, infatti, il comportamento
univoco della ricorrente (al di là delle effettive intenzioni) è stato
chiaramente idoneo ad ingenerare nella controparte la convinzione che
questa potesse effettuare una “scelta” libera, purché immediata. Al
riguardo, il principio sotteso al cd. venire contra factum proprium –
risvolto applicativo della clausola generale di buona fede – vuole che
una parte non possa agire in modo contraddittorio rispetto ad un
intendimento che ha ingenerato nell’altra parte, e sul quale questa ha
ragionevolmente fatto affidamento a proprio svantaggio (così, anche, i
Principi Unidroit, 2004).
L’azione, conseguentemente, sotto
altro aspetto, deve considerarsi come contraria al canone della buona
fede, di recente valorizzato dalla Suprema Corte, in sede
nomofilattica, principio cogente anche nella fase della tutela
giudiziale, nell’ottica dell’affermazione del canone del giusto
processo (Cass. Civ. Sezioni Unite sentenza 15 novembre 2007 n. 23726)
e criterio che deve orientare la condotta delle parti nei rapporti in
itinere (Cass. civ. Sezioni Unite sentenza 18 dicembre 2007 n. 26617).
Anche sotto tale profilo, la domanda introduttiva del giudizio va respinta.
Spese di lite
Le spese vanno poste a carico della parte soccombente ai sensi degli artt. 91, 92 e 702-ter, comma VII, c.p.c.
In
merito all’ammontare della liquidazione, va ricordato quanto affermato
dalle Sezioni Unite dell’11 settembre 2007 n. 19014: le spese di lite
vanno liquidate giusta la natura ed il valore della controversia,
l’importanza ed il numero delle questioni trattate, nonché la fase di
chiusura del processo. Il principio di adeguatezza e proporzionalità
impone, peraltro, una costante ed effettiva relazione tra la materia
del dibattito processuale e l’entità degli onorari per l’attività
professionale svolta. Il decisum prevale quindi, di regola, sul
disputatum (Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 11
settembre 2007, n. 19014) salvo il caso in cui vi sia rigetto integrale
della domanda attorea ove consegue che il valore della controversia è
quello corrispondente alla somma domandata dall’attore (Cass. civ.,
Sez. I, 11 marzo 2006, n. 5381).
Orbene, tenendo conto del corso
del giudizio, atteso il valore della causa e, per tali indici,
applicati i barèmes tariffari, le spese del procedimento vanno
liquidate come da dispositivo, tenendo presente che la controversia si
è conclusa in una sola udienza ed in assenza di istruttoria. Vanno
aggiunte le spese forfetarie, giusta l’art. 14 DM 8.4.2004 n. 127,
nonché il rimborso dell’Iva e del Cpa giusta l’art. 11 legge 20
settembre 1980, n. 576.
Condanna ex Officio
All’esito
del giudizio, sono emersi elementi in fatto e diritto che impongono di
sanzionare la ricorrente per l’esercizio dell’azione in violazione del
canone del giusto Processo.
La ricorrente, in estrema sintesi:
–
lamenta che non sia stato eseguito l’accordo di omologa: ma su sua
intimazione, il resistente immediatamente nomina un mediatore
(intimazione del: 5.5.2009; risposta con nomina, del 18.5.2009);
–
lamenta il nominativo del mediatore scelto (ma è la ricorrente stessa a
dichiarare che sia il resistenza ad indicare un mediatore su “Sua
scelta”);
– lamenta il contenuto della nomina (ma si tratta,
come risulta ad acta, di operatore regolarmente iscritto all’Albo dei
mediatori immobiliari al n. 589),
– denuncia la mancanza di
imparzialità: ma trattasi di denuncia del tutto infondata, atteso che
ricorrente e resistente, in quanto “parte venditrice”, sono accomunati
dal medesimo interesse alla vendita e l’unico interesse avverso può
essere quello dell’acquirente, il terzo da individuare.
Peraltro,
alla prima udienza di comparizione, la ricorrente non è comparsa
(mentre è comparso il resistente) adducendo motivi astratti, dichiarati
tramite il legale, ma senza alcuna giustificazione documentale
dell’impedimento, così manifestando disinteresse verso una possibile
soluzione conciliativa.
Tutti i motivi sopra esposti inducono a
dover dichiarare la responsabilità aggravata della ricorrente ai sensi
dell’art. 96, comma III, c.p.c., da rilevare d’Ufficio.
Come già
questo Tribunale ha osservato, il Legislatore, consapevole del
ristretto fascio applicativo dell’art. 96 c.p.c. e, per l’effetto, del
suo tendenziale “fallimento” operativo, con la legge 18 giugno 2009 n.
69, ha introdotto una previsione di nuovo conio nella volta dell’art.
96 c.p.c.: “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi
dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare
la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una
somma equitativamente determinata”. La nuova norma, come si rileva
all’esito di una corretta interpretazione, estende il fascio
applicativo dell’equità poiché il giudice ne può fare uso non solo nel
quantum ma anche nell’an e persino d’ufficio. Si vuol dire che
attraverso la nuova previsione, viene introdotta una fattispecie a
carattere sanzionatorio che prende le distanze dalla struttura tipica
dell’illecito civile per confluire nelle cd. condanne punitive (natura
giuridica che in questi termini è confermata dai lavori parlamentari e
dalla relazione al primo disegno di Legge). Come ha autorevolmente
osservato la dottrina, una previsione del genere «assume le fogge di
una “pena privata” dal carattere inedito per il nostro ordinamento»
(così ha scritto l’Autore citato, riferendosi all’art. 385, comma IV,
c.p.c. da cui tratto l’art. 96, comma III, c.p.c. e di contenuto
sostanzialmente identico).
Sulla scorta del nuovo grimaldello
normativo, il giudice può (e, invero, deve) responsabilizzare la parte
che abbia proposto una domanda giudiziale senza sperimentare alcuna
seria soluzione conciliativa ed adducendo – a sostegno delle proprie
richieste – argomenti dai quali è possibile evincere un contegno
tradottosi in un abuso dello strumento processuale. La norma risponde
anche all’esigenza di preservare l’interesse pubblico ad una Giustizia
sana e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a sé stesso che,
aggravando il ruolo del magistrato e concorrendo a rallentare i tempi
di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause in
trattazione mosse da ragioni serie e, spesso, necessità impellenti o
urgenze nonché agli interessi pubblici primari dello Stato che, in
conseguenza dei ritardi, è sottoposto alle sanzioni previste dalla
legge 89/2001, giusta l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo.
La somma oggetto di condanna va determinata
equitativamente. Tenuto conto della natura del giudizio e dell’oggetto
della lite, nonché della durata del processo, la parte ricorrente, ai
sensi dell’art. 96, comma III, c.p.c. va condannata al pagamento, a
favore della controparte, della somma di euro 300,00, quale sanzione
per la lite introdotta.
P.Q.M.
Il
Tribunale di Varese in composizione monocratica, in persona del giudice
dott. Giuseppe Buffone, definendo la controversia ai sensi dell’art.
702-ter, comma V, c.p.c.
Rigetta la domanda proposta da C
Condanna
la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 702-ter, comma VII c.p.c., alla
rifusione delle spese di lite in favore della parte resistente, che
liquida in complessivi euro 1.000,00 di cui euro 590,00 per onorari ed
euro 410,00 per diritti. Vanno aggiunte le spese forfetarie, giusta
l’art. 14 DM 8.4.2004 n. 127, nonché il rimborso dell’Iva e del Cpa
giusta l’art. 11 legge 20 settembre 1980, n. 576.
Condanna,
altresì, la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 96, comma III, c.p.c.
al pagamento, in favore della controparte, della somma di euro 300,00.
Manda alla cancelleria per i provvedimenti di competenza.
Sulla scorta del nuovo grimaldello normativo, ex art. 96 c.p.c. (come novellato dalla Legge 69/2009),
il giudice può (e, invero, deve) responsabilizzare la parte che abbia
proposto una domanda giudiziale senza sperimentare alcuna seria
soluzione conciliativa ed adducendo – a sostegno delle proprie
richieste – argomenti dai quali è possibile evincere un contegno
tradottosi in un abuso dello strumento processuale. La norma risponde
anche all’esigenza di preservare l’interesse pubblico ad una Giustizia
sana e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a sé stesso che,
aggravando il ruolo del magistrato e concorrendo a rallentare i tempi
di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause in
trattazione mosse da ragioni serie e, spesso, necessità impellenti o
urgenze nonché agli interessi pubblici primari dello Stato che, in
conseguenza dei ritardi, è sottoposto alle sanzioni previste dalla Legge 89/2001, giusta l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.