Locazione: no al risarcimento per umidità dell’immobile solo risoluzione del contratto o riduzione del canone
L’obbligo del locatore di effettuare le riparazioni necessarie a mantenere l’immobile in buono stato locativo, di cui all’art. 1576 cod. civ., riguarda gli inconvenienti eliminabili nell’ambito delle opere di manutenzione, e, pertanto, non può essere invocato per rimuovere guasti o deterioramenti rilevanti (nella specie, invasione d’umidità, per effetto di trasudo delle pareti), rispetto ai quali la tutela del locatario resta affidata alle disposizioni dettate dagli artt. 1578 e 1581 cod. civ. per i vizi della cosa locata
Cassazione, Sez. III, 25 maggio 2010, n. 12712
Svolgimento del processo
Con sentenza 6 giugno-1° settembre 2006, la Corte di appello di Roma confermava la decisione del locale Tribunale n. 29792 del 2004 che aveva dichiarato la nullità della domanda di risarcimento del danno alle cose custodite nel negozio in conseguenza dei disagi nell’utilizzo del locale derivati dai vizi della cosa locata, proposta dalla conduttrice OMISSIS nei confronti del locatore ENPAF.
L’originaria attrice, nell’atto introduttivo, aveva dedotto di aver subito danni alla merce conservata nel magazzino, posto al piano seminterrato nello stabile di proprietà dell’ENPAF, in conseguenza delle infiltrazioni di acqua verificatesi ripetutamente nei locali.
In ordine al primo motivo di appello, la Corte di merito rilevava che la sentenza di primo grado era del tutto corretta, confermando la “regula iuris” per cui compete al danneggiato, nell’ambito della responsabilità extracontrattuale – come in quello della responsabilità contrattuale – provare il danno del quale domanda la riparazione, prova che rappresenta il presupposto indispensabile per poter procedere alla liquidazione di tipo equitativo.
Nella specie, la conduttrice – pur potendo agevolmente fornire la prova della quantità e qualità delle merci in deposito (materassi, lenzuoli e coperte) danneggiate o rese comunque inutilizzabili in conseguenza delle infiltrazioni di acqua, e del valore delle stesse – si era rimessa alla liquidazione equitativa del giudice, in difetto del presupposto, che legittima il giudice ad esercitare tale potere (consistente nella “impossibilità o rilevante difficoltà della prova”). Nessuna impossibilità o rilevante difficoltà di prova era stata dedotta dall’attuale ricorrente.
Con il secondo motivo, l’appellante censurava la decisione del Tribunale nella parte in cui questo aveva concluso che, anche se fossero stati eseguiti i lavori suggeriti dal consulente tecnico nominato dall’ufficio, gli stessi non avrebbero risolto comunque il problema della umidità dei locali interrati.
Le caratteristiche congenite di ogni locale interrato o seminterrato, come tale affetto da umidità per sua stessa natura, erano ben note – sin dall’origine – al conduttore, il quale ne avrebbe dovuto tener conto, considerato anche che per una corretta conservazione di materiali tessili facilmente deperibili (stoffe e coperte) occorre avere a disposizione una situazione termoigrometrica ottimale, secondo quanto aveva accertato lo stesso consulente tecnico di ufficio.
Pur conoscendo tale situazione, la conduttrice aveva utilizzato i locali per immagazzinare tale merce, per oltre tredici anni, ed ora pretendeva di continuare ad utilizzarli per lo stesso scopo, costringendo, tuttavia, il locatore ad eseguire i lavori per rimuovere radicalmente il fenomeno della umidità tipico dei locali a piano seminterrato, con spese a carico del locatore.
Il locatore non poteva essere chiamato a rispondere, ai sensi degli articoli 1576, 1577 e 1578 c.c., come correttamente aveva stabilito il Tribunale nella sentenza impugnata. In altre parole, non poteva ritenersi esistente un obbligo del locatore di eseguire lavori volti a rimuovere il fenomeno della umidità, tipica di un locale ubicato al piano seminterrato, ben noto alla conduttrice e preesistente alla conclusione del contratto.
Dopo aver escluso che il primo giudice fosse incorso nel vizio di ultrapetizione, la Corte territoriale ha osservato che, nel caso di specie, la conduttrice, al momento della conclusione del nuovo contratto, era perfettamente a conoscenza dei vizi denunciati (considerato, tra l’altro, che le prime rimostranze della attrice risalivano a quattro anni prima della sottoscrizione del nuovo contratto).
Ha dunque sottolineato la Corte di merito che, nel caso in cui vengano in rilievo alterazioni non attinenti allo stato di conservazione e manutenzione della cosa locata, bensì incidenti sulla composizione, costruzione o funzionalità strutturale della cosa medesima, il conduttore non è affatto legittimato ad agire in giudizio per ottenere dal locatore l’adempimento della obbligazione di cui all’art. 1576 c.c., né ad effettuare direttamente le riparazioni del caso, ai sensi dell’art. 1577, secondo comma, c.c., (come esattamente aveva già ritenuto il Tribunale) ma soltanto a richiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del canone, ai sensi dell’art. 1578 c.c.
Avverso tale decisione la OMISSIS ha proposto ricorso per cassazione sorretto da tre motivi.
Resiste l’ENPAF con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente denuncia carenza di motivazione sulle caratteristiche “congenite” dell’immobile locato.
I giudici di appello avevano rilevato che le caratteristiche del locale (da ritenersi insalubre e comunque inidoneo al deposito di merci deteriorabili) erano da considerare congenite perché proprie di ogni locale interrato o seminterrato. Del tutto immotivata doveva considerarsi la conclusione per cui non sarebbe stato possibile effettuare interventi atti a risolvere la situazione denunciata.
Osserva il Collegio:
deve dichiararsi la inammissibilità del primo motivo di ricorso.
L’art. 366-bis cod. proc. civ., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dai numeri 1, 2, 3 e 4 dell’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione.
Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dicta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.
Nel caso di specie manca il momento di sintesi dei fatti in ordine ai quali si deduce la insufficienza della motivazione adottata.
Donde la inammissibilità del motivo.
Gli altri motivi, con i quali si denunciano violazioni di norme di legge, sono del tutto generici ed i quesiti di diritto proposti sono non pertinenti al caso.
Si richiama la giurisprudenza di questa Corte, per la quale: “Il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una “regula iuris” suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata.
Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione, ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato art. 366-bis, si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata, in riferimento alla concreta fattispecie”. (Cass. S.U. 30 ottobre 2008 n. 26020).
È appena il caso di ricordare che con il secondo e terzo motivo di ricorso, la ricorrente aveva dedotto:
– la violazione e falsa applicazione dell’art. 1578 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. (deducendo che la conduttrice aveva, da subito, contestato l’esistenza dei vizi e che comunque l’ente si era impegnato a procedere alle riparazioni necessarie)
– la violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c. (rilevando che non poteva imputarsi alla conduttrice di non aver conservato, per anni, la documentazione atta a provare la consistenza dei danni subiti alla merce conservata in magazzino).
Tra l’altro, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte:
L’obbligo del locatore di effettuare le riparazioni necessarie a mantenere l’immobile in buono stato locativo, di cui all’art. 1576 cod. civ., riguarda gli inconvenienti eliminabili nell’ambito delle opere di manutenzione, e, pertanto, non può essere invocato per rimuovere guasti o deterioramenti rilevanti (nella specie, invasione d’umidità, per effetto di trasudo delle pareti), rispetto ai quali la tutela del locatario resta affidata alle disposizioni dettate dagli artt. 1578 e 1581 cod. civ. per i vizi della cosa locata. (Cass. 10 agosto 1991 n. 8729 cfr. Cass. 4 agosto 1994 n. 7260).
Sfugge, pertanto, a qualsiasi censura la osservazione conclusive della Corte d’appello romana, per la quale la conduttrice avrebbe potuto agire esclusivamente per la risoluzione del contratto o per la riduzione del canone.
Conclusivamente deve dichiararsi la inammissibilità del ricorso, con la condanna delle ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese che liquida in euro 1.700,00 di cui euro 1.500,00 per onorari di avvocato, oltre spese generali ed accessori di legge.