Made in Italy ma solo a metà E’ già scontro
È un segreto di Pulcinella: borse, scarpe, abiti istoriati da griffe
italiane sono merci costosissime prodotte spesso fuori dai confini
nazionali.
In qualche caso, in Italia, vengono concluse le
operazioni di assemblaggio di pezzi che arrivano da mezzo mondo, dove
il lavoro costa poco. In altri, i prodotti vengono confezionati qui, ma
in scantinati bui e insalubri da contoterzisti che impiegano immigrati
clandestini. Poi ci sono quelli «fasulli», spuntati in un angolo
qualunque della terra, ai quali sono stati dati nomi italiani,
considerati, da soli, simboli di qualità e stile.
Per
contrastare questo stato di cose, e con l’obiettivo di difendere marchi
e produzioni che rappresentano centinaia di migliaia di posti di lavoro
(oltre che una bella fetta del reddito nazionale), mercoledì la
commissione Industria del Senato ha approvato un disegno di legge sul
made in Italy per abbigliamento, calzature, pelle e divani. È scontato
il passaggio alla Camera. Così come unanime è stato il sì della
commissione.
Le regole
La norma
istituisce un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti della
pelletteria e del calzaturiero che evidenzi il luogo di origine di
ciascuna fase di lavorazione e ne assicuri la tracciabilità. Si
potranno fregiare del marchio «Made in Italy» solo i prodotti finiti le
cui fasi di lavorazione abbiano avuto luogo «prevalentemente» nel
territorio nazionale. Gli altri, dovranno portare l’indicazione dello
Stato di provenienza. L’etichetta, poi, dovrà indicare che le
lavorazioni hanno rispettato le norme vigenti in materia di lavoro di
sicurezza dei prodotti; l’esclusione dell’impiego di minori nella
produzione; il rispetto della normativa europea e degli accordi
internazionali per l’ambiente.
Le sanzioni previste sono
salate: da 10 a 50 mila euro per mancata o scorretta etichettatura. Se
la violazione è reiterata, carcere da uno a sette anni, dipende se
dietro l’imbroglio c’è un’organizzazione. Il coro di consensi è
unanime.
Le critiche
Anche se su un punto
fondamentale il provvedimento vacilla non poco: il diritto
all’etichetta che certifica l’italianità lo potranno ricevere scarpe,
abiti e divani in pelle «prevalentemente» prodotti nel nostro Paese. E
per «prevalentemente» s’intendono almeno due passaggi della lavorazione
effettuati in Italia. Ad esempio, un divano o un paio di scarpe
potranno essere definiti «italiani» a tutti gli effetti anche se da noi
sono stati solo assemblati e rifiniti. Ma come si potrà parlare di
prodotto italiano nel caso di un paio di scarpe se la concia, la
lavorazione della tomaia e il pellame sono «stranieri»?
Dei
limiti della futura legge sono consapevoli anche molti dei promotori.
«Ci provavamo da quindici anni» commenta il senatore leghista
Piergiorgio Stiffoni. E sono proprio gli esponenti della Lega Nord a
ipotizzare a breve il varo di testi di legge più rigidi e a pensare già
all’allargamento del provvedimento per altri settori come l’occhialeria
e l’alimentare. La pensa così Giancarlo Sangalli, già numero uno della
Cna, confederazione nazionale dell’Artigianato e della piccola e media
Impresa, e oggi senatore del Pd: «È un passo avanti, ma riconosco sia
un provvedimento un po’ debole».
Da sempre Consiglio e
Commissione Europea hanno respinto ogni ipotesi di etichettatura
obbligatoria, se non limitata a prodotti di provenienza extraeuropea.
L’unica concessione (o scappatoia) ha riguardato gli aspetti
«sanitari», quelli a tutela della salute dei consumatori.
«È
una strada ancora tutta percorribile – spiega Sangalli – secondo uno
studio dell’Unioncamere l’otto per cento dei materiali utilizzati in un
campione di prodotti totalmente o parzialmente fatti all’estero
comprendeva sostanze pericolose o cancerogene, come collanti, solventi,
tinture».
Ed è per questo che, anche dopo l’approvazione della
legge sul «Made in Italy» – che per evitare di entrare in conflitto con
Bruxelles entrerà in vigore solo dopo il primo ottobre, per dare tempo
alla Commissione Europea di pronunciarsi nel merito – molti
parlamentari hanno già annunciato che lavoreranno a progetti di tutela
impostati sul varo di una etichettatura diversa, un «brand volontario».
In pratica una sorta di autocertificazione di qualità,
sottoposta a verifiche e controlli, che documenti che il prodotto che
espone il marchio «Italia» rispetti certi criteri di composizione e di
origine.