Malattia sostituibile con ferie per sospendere il decorrere del periodo di comporto
Il lavoratore ha la facoltà di sostituire alla malattia la
fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere
il decorso del periodo di comporto, dovendosi escludere una
incompatibilità assoluta tra ferie e malattia; in tali casi non sarebbe
costituzionalmente corretto precludere il diritto alle ferie in ragione
delle condizioni psico-fisiche inidonee al loro pieno godimento – non
potendo operare, a causa della probabile perdita del posto di lavoro
conseguente al superamento del comporto, il criterio della sospensione
delle stesse e del loro spostamento al termine della malattia – perchè
si renderebbe così impossibile la effettiva fruizione delle ferie. Ne
consegue che il datore di lavoro nell’esercizio del suo diritto alla
determinazione del periodo feriale è tenuto, se sussiste una richiesta
del lavoratore ad imputare a ferie un’assenza per malattia, a prendere
in debita considerazione il fondamentale interesse del lavoratore ad
evitare la perdita del posto di lavoro in conformità con i principi
generali di correttezza e buona fede.
Quella delle ferie
concesse durante la malattia al fine di evitare il superamento del
periodo di comporto è una questione assai discussa e sempre attuale,
più volte oggetto di contenzioso giudiziario.
Com’è noto, l’art
2110, comma 2, c.c. attribuisce al lavoratore malato il diritto di
assentarsi dal lavoro e la possibilità, da parte del datore, di
recedere dal rapporto solo dopo un determinato periodo di tempo
(periodo di comporto) stabilito dai contratti collettivi, dagli usi o
secondo equità.[1]
Sono,
tuttavia, frequenti i casi in cui il lavoratore assente per malattia e
impossibilitato a riprendere servizio alla scadenza di detto comporto,
chieda che il suo diritto alla conservazione del posto sia protratto
per un periodo ulteriore, di durata pari a quello delle ferie maturate
e non godute a quella data.
Sorge, quindi, in questi casi, il
problema di stabilire se realmente sussista in capo al dipendente
malato il diritto di essere collocato formalmente in ferie al fine di
sospendere il decorso del periodo di comporto ed evitare, così, il
licenziamento.
La giurisprudenza di legittimità, nella
risoluzione del quesito, ha oscillato nel corso degli anni tra
soluzioni più o meno vantaggiose per il lavoratore.
L’orientamento
più risalente aveva negato al dipendente tale possibilità, affermando,
sulla base del principio d’immutabilità del titolo dell’assenza dal
lavoro, la legittimità del licenziamento per superamento del comporto,
con il diritto del lavoratore alla sola indennità sostitutiva del
preavviso.[2]
A conclusioni opposte era, invece, pervenuta
successiva alla pronuncia della Corte Costituzionale del 30 dicembre
1987, n. 616, con la quale era stato dichiarato costituzionalmente
illegittimo l’art. 2109 c.c., per contrasto con gli artt. 3 e 36 della
Costituzione.[3]
Una discutibile interpretazione della sentenza del giudice delle leggi, aveva, infatti, portato
a ritenere sussistente un principio di automatica conversione del
titolo dell’assenza per malattia in assenza per ferie, attribuendo allo
stesso una forza espansiva tale da rivestire tutte le ipotesi di
sospensione dell’obbligo lavorativo. Conseguentemente, anche il periodo
di comporto sarebbe stato suscettibile di interruzione per effetto
della richiesta del dipendente di godere del periodo feriale, con
l’obbligo da parte del datore di lavoro di accogliere tale domanda
anche in costanza di malattia.[4]
L’applicazione
di questo criterio non tardò, però, a suscitare enormi perplessità da
parte degli interpreti che ne evidenziarono l’incompatibilità con
l’inquadramento dell’istituto delle ferie dato dalla stessa Corte
Costituzionale del 1987, quale strumento volto alla reintegrazione
delle energie psicofisiche del lavoratore consumate durante il periodo
lavorativo, recupero, evidentemente, inconciliabile con lo stato di
malattia.[5]
Di
qui, perciò, un’inevitabile mutamento di indirizzo giurisprudenziale
volto a fissare i limiti e le condizioni d’accesso al beneficio della
conversione, attraverso un bilanciamento tra esigenza del lavoratore
alla conservazione del posto di lavoro ed interesse del datore alla
prestazione lavorativa.
Secondo l’orientamento che appare ormai
consolidato al riguardo, il lavoratore assente per malattia ed
impossibilitato a riprendere servizio non ha l’incondizionata facoltà
di sostituire alla malattia il godimento delle ferie maturate quale
titolo della sua assenza, allo scopo di bloccare il decorso del periodo
di comporto;[6]
è invece il datore di lavoro, attenendosi, nella determinazione del
tempo delle ferie, alla direttiva dell’armonizzazione delle esigenze
aziendali con le esigenze del prestatore di lavoro, a dover prendere in
seria considerazione la richiesta del lavoratore ed il suo interesse ad
evitare la perdita del posto con la scadenza del periodo di comporto.[7]
La
decisione annotata, in linea col suddetto indirizzo, pur dando atto
dell’assenza di una norma specifica che imponga al datore di accogliere
la richiesta di ferie, sottolinea come spetti comunque a quest’ultimo
dimostrare, in presenza di una simile domanda, di aver tenuto conto del
rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal
modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo
di comporto.[8]
Viene
confermato, quindi, quale vero e proprio vincolo per il datore
nell’esercizio della propria discrezionalità, il contemperamento delle
opposte esigenze delle parti nel rispetto dei più generali principi di
correttezza e buona fede contrattuale. La legittimità del rifiuto
dell’imprenditore è fatta dipendere, cioè, dalla sussistenza di un
valido motivo che gli impedisca di andare incontro alle necessità del
dipendente, quale, ad esempio, la sussistenza di un superiore interesse
aziendale ostativo alla concessione dei giorni di ferie.
evidenzia, inoltre, come il diritto del lavoratore a mutare il titolo
dell’assenza con la richiesta di fruizione delle ferie già maturate non
possa considerarsi escluso né in considerazione della natura della
pregressa denunzia di malattia, poiché atto non unilateralmente
irrevocabile, né sulla base della relazione intercorrente tra ferie e
malattia, in quanto, tale rapporto, pur a seguito della pronuncia della
corte costituzionale dell’87, non sembrerebbe caratterizzato da
un’assoluta incompatibilità; a parere della Corte, infatti, non sarebbe
costituzionalmente corretto precludere il diritto a ferie in ragione
delle condizioni psicofisiche inidonee al loro pieno godimento, perchè
si renderebbe così impossibile la effettiva fruizione delle stesse, non
potendo in tali casi operare il criterio della sospensione delle ferie
e del loro spostamento al termine della malattia a causa della
probabile perdita del posto di lavoro conseguente al superamento del
comporto.[9]
Qualora,
quindi, non possa essere ravvisato alcun interesse imprenditoriale
incompatibile con il prolungamento dell’assenza del dipendente, il
supremo collegio ritiene che il contrasto con gli obblighi di
correttezza e buona fede sanciti agli artt. 1175 e 1375 c.c. determini
l’illegittimità della decisione datoriale di negare le ferie e del
conseguente recesso che su tale rifiuto si basa.
Sul punto,
occorre, inoltre, rimarcare, come l’obbligo del datore di lavoro di
prendere in considerazione l’ipotesi di accordare le ferie al
lavoratore durante un periodo di malattia, sorga solo in presenza di
una specifica istanza di fruizione delle stesse.
Secondo,
infatti, un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimità non sussiste un automatico principio di prolungamento del
periodo di comporto per malattia, con i giorni di ferie maturati dal
lavoratore, per la fruizione dei quali non vi sia stata un’apposita
richiesta del medesimo[10];
è, bensì, il lavoratore, assente per malattia ed impossibilitato a
prendere servizio, ed intenzionato evitare la perdita del posto di
lavoro a seguito dell’esaurimento del periodo di comporto, a dover
comunque presentare apposita domanda, per consentire al datore di
lavoro di valutare il fondamentale interesse del richiedente al
mantenimento del posto.[11]
Come
più volte affermato dalla Cassazione, infatti, gli interessi
particolari dei singoli lavoratori possono essere presi in
considerazione dal datore, al fine di determinare il periodo di
fruizione delle ferie, solo se portati a conoscenza di quest’ultimo; il
potenziale contrasto con il principio di incompatibilità tra godimento
delle ferie e malattia, impone, perciò, che la collocazione in ferie
del lavoratore malato possa ipotizzarsi solo qualora questi abbia
presentato una specifica richiesta in tal senso, dalla quale traspaia
il suo prevalente interesse a prevenire l’esaurimento del periodo di
comporto.[12]
L’orientamento
di legittimità ha, a maggior ragione, da tempo escluso che sussista un
dovere del datore di lavoro di avvertire il lavoratore, assente per
lungo tempo, dell’approssimarsi della scadenza di conservazione del
posto.[13]
A tale conclusione si è giunti sulla base della corretta considerazione
che il lavoratore, di regola, è il primo a conoscere le proprie assenze
ed è in grado, anche con l’assistenza del sindacato, di effettuare la
somma dei giorni di assenza per malattia e di verificare se il periodo
di conservazione del posto stia per scadere. Sicché, in difetto di
qualsiasi disposizione del genere, non può configurarsi in capo al
datore di lavoro un obbligo di tenere per lui il conto del totale e,
magari, di rispondere ad eventuali domande a tale proposito rivoltegli
dal lavoratore stesso.[14]
Conclusioni
La
sentenza in commento introduce un nuovo tassello nel risalente
dibattito sulla possibilità da parte del lavoratore malato di ottenere
la sospensione del decorso del periodo di comporto imputando il
protrarsi dell’assenza a ferie maturate, collocandosi nell’ambito della
giurisprudenza dominante che, pur non ritenendo sussistente nel nostro
ordinamento giuridico un principio generale di convertibilità
automatica dell’assenza per malattia in assenza per ferie, è comunque
orientata nel senso di condizionare il mutamento del titolo di detta
assenza ad una specifica richiesta in tal senso del lavoratore, nonchè
alla compatibilità della sua collocazione in ferie con le apprezzabili
esigenze organizzative aziendali.
Costituendo il posto di
lavoro il presupposto naturale e necessario perchè il lavoratore possa
far valere il consequenziale diritto a godere effettivamente delle
ferie, lodevole appare, a parere di chi scrive, l’elasticità dimostrata
dalla Suprema Corte nella lettura del principio dell’incompatibilità
tra malattia ed effettivo godimento delle ferie, una cui applicazione
troppo intransigente e rigorosa avrebbe portato all’illogica
conclusione di gravare il prestatore di conseguenze più irrazionali e
sfavorevoli – quale la perdita del posto di lavoro per supero del
comporto- rispetto a quelle che il medesimo principio intende evitare.
[1]La
durata del periodo di comporto è di regola definita dai contratti
collettivi, talvolta in misura differenziata a seconda dell’anzianità
di servizio e della categoria d’appartenenza. Il diritto alla
conservazione del posto implica che il potere di licenziare rimanga
sospeso per tutto il periodo di comporto, salvo i casi di gravi
mancanze del lavoratore che possono portare ad un licenziamento per
giusta causa, il quale ha effetto immediato anche nei confronti del
lavoratore in malattia.
[2] Cass. civ., sez. lav., 29 settembre 1998, n. 5294; Cass. civ., sez. lav., 30 ottobre 1983, n. 5504, in Mass. giur. lav, 1983, 345.
[3] Con la sentenza 616/87
parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo di
godimento delle ferie, ne sospenda il decorso, rinviando al legislatore
e alla contrattazione collettiva la definizione di una disciplina di
dettaglio per fornire concreta attuazione al principio ivi stabilito.
In particolare, in tale occasione, il Supremo Collegio ha ritenuto che
l’assenza di una disciplina idonea ad attribuire all’evento morboso
rilievo sospensivo del congedo, sia incompatibile con la ratio
del precetto costituzionale di cui all’art 36 Cost. che impone che al
lavoratore venga concesso un congruo periodo di riposo al fine di
proteggerne le energie psicofisiche, potendosi fondatamente osservare
come la malattia impedisca la funzione tipica del riposo, quanto al
ristoro delle suddette energie. Corte Costituzionale, sent. 20 dicembre
1987, n.
[4] Cass. civ., sez. lav., 6 giugno 1991, n.
cui si legge: “Il principio secondo cui il periodo di comporto, ai fini
dell’art. 2110 c.p.v. c.c., è interrotto dalla richiesta di godere del
periodo feriale, che il datore di lavoro deve concedere anche in
costanza di malattia del dipendente, implica, per l’ipotesi in cui
detta richiesta – presentata nell’arco del termine esterno del comporto
per sommatoria, in caso di malattia discontinua – non venga accolta,
che la scadenza del comporto stesso viene spostata all’esaurimento dei
giorni di ferie spettanti al lavoratore siccome non fruiti, ancorché
maturati; a tal fine non rileva la coincidenza temporale del singolo
episodio morboso con la richiesta di godere delle ferie, e
l’operatività del principio non può ritenersi limitata ai giorni di
assenza immediatamente successivi a ciascuna richiesta e per il periodo
corrispondente alla durata delle ferie maturate in quel momento”.
[5]
Trarre dalla sentenza della Corte Costituzionale 616/87 l’esistenza di
un principio di conversione delle cause dell’assenza, avrebbe portato a
snaturare l’istituto delle ferie quale periodo destinato al riposo
annuale del lavoratore, trasformandolo, in concreto, in un espendiente
volto a prolungare il periodo di conservazione del posto di lavoro in
caso di malattia. V. S. Figurati, Questioni in tema di licenziamento intimato durante la malattia: la richiesta di ferie interrompe il comporto?, in Mass. giur. lav.
2000, 63. A ben vedere, la sentenza costituzionale legittimerebbe
semmai ad una conclusione opposta, funzionale alla piena realizzazione
del diritto di ferie, il cui conseguimento precluderebbe ad un
lavoratore malato di essere messo in ferie. V. R. Del Punta, Ferie e comporto per malattia, in Giust. civ., 1990, p. 2908.
[6]
In questo senso depone il dato letterale dell’art. 2109 c.c. che
riserva la datore di lavoro, seppure entro certi limiti, il potere di
scelta del tempo delle ferie nel corso dell’anno, quale specificazione
del potere direttivo di cui all’art. 2086 c.c..
[7] Cfr. ad esempio: Cass. civ., sez. lav., 8 novembre 2000, n.
[8] Nella specie,
nell’enunciare tale principio, ha confermato la sentenza di merito, la
quale aveva ritenuto che la richiesta di ferie del lavoratore non si
contrapponesse affatto agli interessi aziendali, considerato anche che,
all’epoca dei fatti, l’impresa imponeva ai lavoratori il godimento a
turno di una settimana di ferie per evitare la cassa integrazione, e lo
spostamento dei turni di ferie comportava un semplice intervento
organizzativo.
[9] Così, ad esempio, Cass. civ., sez. lav., 19 novembre 1998, n. 11691.
[10]
“ Al lavoratore assente per malattia ed impossibilitato a prendere
servizio, è consentito mutare il titolo dell’assenza per malattia in
quello per ferie, al fine di sospendere il decorso del periodo di
comporto, purchè sia stata avanzata la relativa richiesta al datore di
lavoro, non sussistendo un principio per il quale il datore di lavoro
debba, d’ufficio, convertire l’assenza per malattia in ferie.” (Cass.
civ., sez. lav., 22 aprile 2008, n.
ottobre 2008, 787). Sulla richiesta si innesta il potere unilaterale
del datore a cui l’art. 2109 c.c. riconosce il diritto di scelta del
tempo delle ferie, attraverso un bilanciamento tra esigenze
organizzative e produttive dell’impresa e interessi individuali del
prestatore. (Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 2003, n. 5521) Tale
richiesta del lavoratore, per essere considerata valida, deve in primo
luogo esistere, essere tempestiva e dettagliata (Cass. civ., sez. lav.,
28 gennaio 1997, n. 873) , deve comunque contenere l’indicazione del
momento a decorre dal quale si intende ottenere la conversione del
titolo dell’assenza e deve precedere la scadenza del periodo di
comporto, dato che dal momento di detta scadenza il datore d i lavoro
acquisisce il diritto di recedere ai sensi dell’art. 2110 c.c. (Cass.
civ., sez. lav., 11 maggio 2000, n. 6043).
[11]
ha affermato che neppure le condizioni di confusione mentale del
lavoratore per effetto della malattia possano far venire meno la
necessità di una espressa domanda di fruizione delle ferie,
indispensabile a superare il principio di incompatibilità tra godimento
delle ferie e malattia. (Cass. civ., sez. lav., 27 febbraio 2003, n.
3028, cit.). In senso opposto si è inteso affermare che,
maturando il diritto del lavoratore alle ferie anche in costanza di
malattia, il periodo di comporto sarebbe prorogato fino alla fine delle
ferie maturate, anche in mancanza di un’espressa richiesta del
lavoratore, non rilevando che, per norma contrattuale, il periodo di
comporto debba essere individuato di comune accordo dalle parti. (Cass.
civ., sez. lav., 6 giugno 1991, n.
[12] Cass. civ., sez. lav., 27 febbraio 2003, n. 3028, cit..
[13] Cfr. Cass. civ., sez. lav., 22 aprile 2008, n. 10352; Cass. civ., sez. lav., 10 novembre 2004, n.
2005, 166, per la quale “Non esiste alcun principio o norma di diritto
per cui il datore di lavoro dovrebbe informare il lavoratore
dell’imminente scadenza del periodo di comporto per stimolarlo quasi a
proporre la richiesta di aspettativa. Invero, nel rapporto di lavoro i
principi di correttezza e buona fede rilevano, come norme di relazione
con funzione di fonti integrative del contratto (art. 1347 c.c.), ove
ineriscano a comportamenti dovuti in relazione ad obblighi di
prestazione imposti al datore di lavoro dal contratto collettivo o da
altro atto di autonomia privata; ne consegue che, in assenza di
qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, il datore
di lavoro non ha l’onere di avvertire preventivamente il datore
dell’imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al fine di
permettere al lavoratore di esercitare eventualmente la facoltà di
chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa, come previsto dal
contratto collettivo stesso”; Cass. civ., sez. lav., 27 febbraio 2003,
n. 3028, cit.; Cass. civ., sez. lav., 10 aprile 1996, n. 3351;
Cass. civ., sez. lav., 23 novembre 1988, n. 6303; Cass. civ., sez.
lav., 22 marzo 1986, n. 2056.
[14]
Secondo un meno rigoroso orientamento di merito, esiste, tuttavia, per
il datore di lavoro un obbligo di informare il lavoratore che faccia
richiesta del conteggio delle assenze per controllare il numero che a
lui risulta; (Trib. Milano, 3 settembre
1994, 551). Inoltre, è stato ritenuto che, pur non sussistendo un
obbligo di preavvisare il dipendente dell’approssimarsi del compimento
del termine di comporto, il datore ha solo comunque l’onere di tenere
un comportamento secondo buona fede, non potendo rifiutare la
concessione di un periodo di aspettativa non retribuito, anche nei casi
in cui il lavoratore ne faccia richiesta irritualmente; (Pret. Milano,
23 giugno
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 13 gennaio – 3 marzo 2009, n. 5078
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Presidente –
Dott. STILE Paolo – rel. Consigliere –
Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9553/2006 proposto da:
RADICI
TESSUTI S.P.A., in persona del Presidente legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8,
presso lo studio dell’avvocato GOBBI Goffredo, che la rappresenta e
difende unitamente all’avvocato FRANCHINA MARIO, giusta mandato a
margine del ricorso;
– ricorrente –
contro R.C.,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LIMA 31, presso lo studio
dell’avvocato MACCARRONE Giuseppe, che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato BASCHENIS LOREDANA, giusta mandato a margine
del controricorso;
– controricorrente –
e contro RAS – RIUNIONE ADRIATICA DI SICURTÀ S.P.A.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 294/2005 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 29/09/2005 R.G.N. 479/04;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 13/01/2009 dal Consigliere Dott. PAOLO STILE;
udito l’Avvocato GOBBI LUISA per delega GOBBI GOFFREDO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LO VOI Francesco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con
ricorso depositato il 21.10.04 la Radici Tessuti spa proponeva appello
contro la sentenza n. 432/04 del Tribunale di Bergamo, con la quale,
accertata la illegittimità del licenziamento intimato a R.C. in data
**** per superamento del periodo del comporto, la società era stata
condannata alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al
risarcimento del danno per la perdita delle retribuzioni, nonchè al
pagamento della ulteriore somma di euro 6.876,61, a titolo di
risarcimento del danno biologico per averlo adibito a mansioni
incompatibili con la patologia da lui contratta nel corso del rapporto
di lavoro, mentre era stata respinta la domanda di garanzia proposta
dalla società, nei confronti della Riunione Adriatica di Securtà, per
mancanza di copertura nel periodo considerato.
Lamentava
l’appellante l’erronea valutazione della condotta delle parti in
relazione agli obblighi di correttezza e buona fede nella esecuzione
del contratto, ritenuti dalla stessa violati per non avere concesso sei
giorni di ferie al termine del periodo di comporto, non essendo state
adeguatamente considerate le esigenze e l’organizzazione aziendale e la
circostanza che la relativa richiesta era stata avanzata con il
preavviso di un’ora lavorativa. Censurava inoltre la valutazione della
prova testimoniale circa l’esistenza di un nesso causale fra attività
lavorativa e patologia contratta dal lavoratore e alla conseguente
inidoneità di quest’ultimo alle mansioni a cui era stato addetto,
nonchè le conclusioni del consulente tecnico nominato, a cui si era
uniformato il Giudice di primo grado, in quanto tratte non da
accertamenti effettivamente eseguiti, ma dal parere espresso da altro
consulente nell’ambito della controversia insorta fra il lavoratore e
l’Inail in ordine alla natura professionale della malattia. Insisteva
quindi per il rinnovo della CTU. Lamentava infine l’erroneo regolamento
delle spese processuali.
Si costituiva l’appellato, contestando
in fatto e in diritto gli argomenti svolti a sostegno della
impugnazione, contrastanti con le dichiarazioni dei testi escussi e con
le ragioni della decisione esposte nella sentenza di primo grado; non
si costituiva, invece, la Ras Assicurazioni.
Con sentenza del
15-29 settembre 2005, l’adita Corte d’appello di Brescia, ritenuto che
la richiesta, avanzata dal R. di godere delle ferie, ancorchè non
esaudita, era corretta, sì da impedire il superamento del periodo di
comporto, rigettava il gravame, condannando la società anche al
richiesto risarcimento del danno ex articolo 2087 c.c., per avere la
stessa, contravvenendo alle indicazioni del medico di fabbrica,
mantenuto il lavoratore in mansioni per lui dannose, confermando la
condanna alle spese sancita dal primo Giudice in favore della compagnia
assicurativa RAS, chiamata ingiustificatamente in giudizio.
Per
la cassazione di tale pronuncia ricorre la Radici Tessuti S.p.A. con
tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex articolo 378 c.p.c..
Resiste R.C. con controricorso, mentre la RAS – Riunione Adriatica di Securtà S.p.A. non si è costituita.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con
il primo motivo di ricorso la soc. Radici Tessuti, denunciando
violazione dell’articolo 112 c.p.c. e degli articoli 2109 e 2110 c.c.,
nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, sostiene
che la decisione della Corte di merito sarebbe ingiusta ed immotivata
sotto quattro distinti profili: a) innanzitutto, perchè non potevasi
annullare il licenziamento per superamento del periodo di comporto in
difetto di una espressa preliminare domanda rispetto al provvedimento
con il quale il datore di lavoro si era determinato riguardo ad una
precedente domanda di ferie; b) in secondo luogo, perchè non sussisteva
un diritto del lavoratore assente per malattia ad essere collocato in
ferie per impedire il decorso del comporto (nè sussisteva un obbligo
del datore di lavoro di accogliere la domanda formulata in tal senso);
c) in terzo luogo, perchè nel sindacare la determinazione del datore di
lavoro rispetto a una richiesta di ferie (e nel vagliarne la
corrispondenza a buona fede) si sarebbe, da un lato, frainteso il
significato degli accordi contrattuali e, dall’altro lato, non si
sarebbe tenuto conto di quanto effettivamente avvenuto; d) in quarto
luogo, perchè, ai sensi del contratto collettivo applicabile al
rapporto di lavoro, il comporto sarebbe comunque maturato nonostante le
ferie e sulla base della malattia denunciata dallo stesso lavoratore.
Il motivo, pur valutato nelle sue diverse articolazioni, è infondato.
Invero,
premesso che, del tutto correttamente, il Giudice d’appello, nel
valutare la legittimità o meno dell’atto espulsivo, unico atto oggetto
di impugnativa, non ha ritenuto – pur se in maniera implicita – che
gravasse sul lavoratore anche l’onere di impugnare i rifiuti opposti
dalla società alle richieste di aspettativa e di ferie, J(JU deve
osservarsi che – secondo il condivisibile orientamento di questa Corte
– al lavoratore assente per malattia è consentito di mutare il titolo
dell’assenza con la richiesta di fruizione delle ferie già maturate, al
fine di sospendere il decorso del comporto, non essendo la pregressa
denunzia di malattia atto unilateralmente irrevocabile e non essendo
ravvisabile -neppure a seguito delle pronunzie della Corte
Costituzionale 616/87 e 297/90 – una incompatibilità assoluta tra ferie
e malattia; in tali casi non sarebbe costituzionalmente corretto
precludere il diritto a ferie in ragione delle condizioni psico-fisiche
inidonee al loro pieno godimento – non potendo operare, a causa della
probabile perdita del posto di lavoro conseguente al superamento del
comporto, il criterio della sospensione delle stesse e del loro
spostamento al termine della malattia – perchè si renderebbe così
impossibile la effettiva fruizione delle ferie.
Spetta poi al
datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del
tempo delle ferie, di dimostrare – ove sia stato investito di tale
richiesta – di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione,
del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal
modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo
di comporto (Cass. 19 novembre 1998 n. 11691).
Muovendo da tali
principi, la Corte d’appello ha valutato la decisione dell’azienda
sulla richiesta di ferie ed ha ritenuto il rifiuto della stessa
contraria agli obblighi di correttezza e buona fede, traendo conforto,
a favore di tale convinzione, da quanto rimarcato in proposito dal
Giudice di primo grado. Questo, infatti – ha precisato la Corte di
merito – pur escludendo che, in base agli accordi sindacali,
l’appellato avesse diritto ad un periodo di aspettativa non retribuita
da aggiungere al periodo di comporto, aveva osservato che il ccnl
industrie tessili all’articolo 30, raccomandando alle aziende di
accogliere la domanda di aspettativa fino al massimo del tempo previsto
“anche per altre situazioni di altre malattie e alle medesime
condizioni” esplicitava una valutazione dei contrapporti interessi
delle parti, in conformità peraltro alla giurisprudenza di legittimità,
nella quale l’interesse alla conservazione del posto di lavoro, quale
mezzo di soddisfacimento delle esigenze primarie di vita del lavoratore
e sua famiglia, ha quanto meno la medesima importanza, se non maggiore
importanza, degli altri possibili interessi del datore di lavoro a
poter contare ad una determinata scadenza e per il futuro sulla
prestazione del dipendente.
La società sostiene che la Corte
d’appello abbia erroneamente preteso di desumere da una disposizione
contrattuale, riguardante, peraltro l’aspettativa e non anche le ferie,
la volontà delle parti di dare prevalenza all’interesse del lavoratore
alla conservazione del posto rispetto all’interesse del datore di
contare sulla prestazione lavorativa; l’erroneità risulterebbe
ulteriormente evidente in quanto – sempre ad avviso della società – il
Giudice avrebbe fatto assurgere a criterio ermeneutico degli obblighi
contrattuali una mera “raccomandazione”.
Osserva il Collegio
che, contrariamente a quanto opinato dalla ricorrente – la Corte
territoriale più che valorizzare il citato articolo 30 ccnl al fine di
affermare come l’azienda abbia violato gli “obblighi di buona fede e
correttezza”, ha indicato una serie di elementi che evidenziavano la
violazione del richiamato generalissimo obbligo, che trova la sua
formulazione positiva nell’articolo 1175 c.c., a tenore del quale “il
debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della
correttezza” ed un ulteriore supporto nel successivo articolo 1375
c.c., ove si sancisce che “il contratto deve essere eseguito secondo
buona fede”.
Nel caso concreto, il Giudice d’appello ha dato
atto che non esisteva nessuna norma che imponesse l’accoglimento delle
ferie – rimesse ad una valutazione discrezionale del datore di lavoro
chiamato a bilanciare esigenze contrapposte -, tuttavia, al fine di
evitare il licenziamento, e quindi la perdita del posto di lavoro,
fonte di reddito per il R. e la sua famiglia, l’ordinamento, in
ossequio alle clausole generali della correttezza di buona fede e
correttezza, avrebbe imposto al datore di lavoro di venire incontro
alla richiesta del lavoratore una volta ponderati i contrapposti
interessi. Sotto quest’ultimo profilo, la Corte d’appello è stata
chiarissima nel dire come nessun interesse aziendale si contrapponeva
all’interesse del lavoratore di andare in ferie. Addirittura una scelta
quale quella di non rifiutare le ferie al R. sarebbe andata incontro
agli interessi aziendali i quali vedevano all’epoca dei fatti la Radici
Tessuti spa collocare in cassa integrazione alcuni lavoratori.
Più
specificamente la Corte territoriale ha tenuto a rimarcare come, sulla
base del materiale probatorio acquisito, non rispondesse affatto al
vero l’affermazione più volte contenuta nel ricorso in appello, secondo
la quale la richiesta di ferie sarebbe stata inoltrata solo poche ore
prima della scadenza del periodo di comporto, ponendo così la datrice
di lavoro nella oggettiva impossibilità di poterla accogliere essendo
già stati programmati i turni e più in generale l’organizzazione del
lavoro; ciò perchè il R. aveva inoltrato prima verbalmente per via
telefonica, in data **** e poi per iscritto attraverso l’organizzazione
sindacale, in data ****, una richiesta di ferie con decorrenza ****,
richiesta che dunque era venuta a conoscenza della datrice di lavoro
con quattro o quanto meno tre giorni di anticipo.
La prova
testimoniale assunta aveva poi evidenziato, con deposizioni del tutto
concordanti e non contestate, che in quel periodo presso la Radici
Tessuti ai lavoratori veniva imposto di godere a turno di una settimana
di ferie per evitare la cassa integrazione; e che se era vero – come
ovvio – che i turni venivano anticipatamente predisposti, anche con
quindici giorni di anticipo, ciò non toglieva che non poteva essere
difficile reperire per la datrice di lavoro prontamente, in tre-quattro
giorni, la disponibilità di altro dipendente per l’inserimento nel
turno già previsto per l’appellato, essendo più appetibile normalmente
la possibilità di svolgere la propria ordinaria prestazione
riservandosi le ferie per un periodo a propria scelta che il dover
godere necessariamente delle ferie a scelta del datore di lavoro per
poter conservare l’intera retribuzione. Inoltre, la prova testimoniale
aveva confermato che per periodi brevi di ferie di qualche giorno, fino
a tre, non era necessario un congruo preavviso, essendo sufficiente
inoltrare la richiesta al responsabile di reparto uno o due giorni
prima. A ciò era da aggiungere, da un lato, che essendo stata chiesta
il 7 febbraio l’aspettativa, nel contesto di un lungo periodo di
malattia (e nell’imminenza di una pronuncia dell’Ufficio di sicurezza
del lavoro e della convocazione presso la Direzione Provinciale del
Lavoro aditi dal dipendente al fine di verificare la compatibilità
delle mansioni con la patologia di cui era portatore), i responsabili
aziendali ben potevano ipotizzare che il lavoratore avrebbe comunque
cercato di poter prolungare l’assenza oltre il periodo di comporto con
ogni mezzo lecito, e, dall’altro, che la Radici Tessuti, pur affermando
astrattamente imprescindibili esigenze organizzative e
tecnico-produttive non aveva specificato in alcun modo quali realmente
fossero queste esigenze così incompatibili con il prolungamento
dell’assenza dell’appellato per qualche giorno. Tutte queste
circostanze indicavano chiaramente – a giudizio della Corte di merito
che nessuna valutazione e ponderazione era stata fatta dell’interesse
del lavoratore alla conservazione del posto e soprattutto che non
esisteva alcun superiore od equipollente interesse della datrice di
lavoro ostativo alla concessione di alcuni giorni di ferie (quantomeno
i tre che usualmente potevano essere chiesti senza preavviso). Essendo
questa condotta contraria agli obblighi di correttezza e buona fede, il
conseguente recesso che aveva avuto quale presupposto l’illegittimo
rifiuto delle ferie, che avrebbero impedito il compimento del termine
di comporto, era, a sua volta, illegittimo.
Si tratta
all’evidenza di una valutazione di merito che, in quanto condotta su di
un percorso immune da contraddizioni e da violazioni di legge, non è
suscettibile di essere messa in discussione in questa sede.
Nè
appare fondato l’ulteriore rilievo, incentrato sull’affermazione che il
comporto, ai sensi del ccnl applicabile, sarebbe comunque maturato
nonostante le ferie e sulla base della malattia denunciata dallo stesso
lavoratore. I Giudici non avrebbero tenuto conto di quanto precisato
dal ccnl di categoria laddove afferma che “il lavoratore ammalato non
può essere considerato in ferie, nè in preavviso di licenziamento, nè
in congedo matrimoniale, durante il periodo di conservazione del
posto”. In proposito, richiamando quanto sopra precisato, deve
osservarsi come il datore di lavoro, nell’esercizio del suo diritto
alla determinazione del tempo delle ferie, dovendo attenersi alla
direttiva dell’armonizzazione delle esigenze aziendali e degli
interessi del datore di lavoro (articolo 2109 c.c.), è tenuto, se
sussiste una richiesta del lavoratore ad imputare a ferie un’assenza
per malattia, a prendere in debita considerazione il fondamentale
interesse del richiedente ad evitare la perdita del posto di lavoro a
seguito della scadenza del periodo di comporto (Cass. 28 gennaio 1997
n. 873, 19 novembre 1998 n. 11691. 17 febbraio 2000 n. 1774, Cass. 11
maggio 2000 n. 6043, 8 novembre 2000 n. 14490).
D’altro canto –
come questa Corte ha avuto modo di affermare – (Cass. n. 7730 del 23
aprile 2004) – le assenze del lavoratore per malattia non giustificano
il recesso del datore di lavoro, in ipotesi di superamento del periodo
di comporto, ove l’infermità sia, comunque, imputabile – come emerge
dall’analisi del motivo che segue – a responsabilità dello stesso
datore di lavoro, in dipendenza della nocività delle mansioni o
dell’ambiente di lavoro, che esso abbia omesso di prevenire o
eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza (articolo 2087 c.c.)
o di specifiche norme”.
Con il secondo motivo, la ricorrente,
denunciando violazione degli articoli 2087 e 2697 c.c., nonchè omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia, lamenta che la Corte d’appello abbia confermato la
condanna al risarcimento del danno biologico sul presupposto che, a tal
fine, era sufficiente la constatazione che il datore di lavoro aveva
disatteso le indicazioni del medico di fabbrica, non considerando che
l’articolo 2087 c.c., non configura un’ipotesi di responsabilità
oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va
collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da
norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del
momento, restando a carico del lavoratore che lamenti di aver subito, a
causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di
provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente
di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno e l’altro.
Anche tale motivo è privo di fondamento.
Il
Giudice di secondo grado ha correttamente valutato il materiale
processuale che chiaramente ha evidenziato il contrario di quanto
sostenuto dalla società datrice in ricorso.
Invero, la Corte
d’appello ha chiarito che il fatto costituente titolo della domanda è
da ravvisarsi nella condotta della datrice di lavoro che,
contravvenendo alle indicazioni del medico di fabbrica, aveva mantenuto
il lavoratore in mansioni per lui dannose, comportando sollevamento di
pesi. Dal libretto sanitario emergeva, infatti, che in data **** il
Dott. F.S., riscontrando una contrattura muscolare paravertebrale,
aveva dato indicazioni in questo senso, mentre la società non aveva
cambiato mansioni al lavoratore fino all’****, poco prima della visita
annuale del **** all’esito della quale il medico di fabbrica, anche
alla luce di una TAC del **** dello stesso anno che evidenziava ernie
discali, ribadiva la necessità di mansioni non comportanti sollevamento
pesi ed estendeva l’ambito di pericolosità anche a quelle comportanti
piegamenti del rachide lombo-sacrale.
Sulla base di tale
materiale probatorio, la Corte territoriale ha, coerentemente, ritenuto
irrilevante il fatto che il CTU, nominato nel giudizio d’appello, si
fosse avvalso della valutazione del consulente nominato nella
controversia previdenziale con l’Inail per quanto riguardava
l’eziopatologia professionale; tanto più che la prova testimoniale
aveva ampiamente confermato che le mansioni svolte dall’appellato alla
“specola” nel reparto tessitura, e dunque fino al ****, comportavano –
secondo la descrizione più riduttiva fra tutte quelle rese dai vari
testi quanto meno il sollevamento di pezze di 18/20 kg che dovevano
essere prese e messe su un tavolo con una rotazione del busto
mediamente di 450.900 fino a 1800.
Non ravvisandosi in tale
ricostruzione della vicenda le lamentate violazioni di legge ed i
dedotti vizi di motivazione, il motivo – come sopra anticipato – deve
essere disatteso.
Da disattendere è anche il terzo motivo, con
cui la ricorrente, denunciando violazione dell’articolo 90 c.p.c. e
segg., ed insufficiente e contraddittoria motivazione, si duole del
fatto che il Giudice di secondo grado abbia confermato le statuizioni
del precedente giudizio in tema di spese processuali, in base alle
quali, la società datrice era stata condannata a pagare le spese legali
nei confronti del lavoratore e della società assicuratrice (infatti il
Tribunale aveva deciso che la condotta che aveva determinato il danno
risaliva ad un periodo antecedente la stipulazione del contratto di
assicurazione – statuizione non impugnata in grado di appello).
Invero, così decidendo, è stato correttamente applicato il principio della soccombenza, sia nei rapporti con R.C.
atteso
che dello principio non implica affatto la necessità che la domanda
della controparte sia stata integralmente accolta, sia nei rapporti con
la RAS, posto che per il periodo per il quale è intervenuta la condanna
al risarcimento non sussisteva alcun contratto di assicurazione.
Per quanto esposto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese di questo
giudizio, liquidate in euro 21,00 oltre euro 3.000,00 per onorari ed
oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..