Maltrattamenti in famiglia: reato configurabile anche tra conviventi more uxorio
Prosegue il cammino giurisprudenziale di equiparazione della
convivenza more uxorio alla famiglia legittima fondata sul matrimonio
ex art. 29 Costituzione.
In questo senso si è pronunciata
che, con sentenza n. 40727 del 22 ottobre 2009, ha ritenuto integrato
l’elemento oggettivo del reato ex art. 572 c.p. – maltrattamenti in
famiglia – in relazione alla condotta aggressiva tenuta dal convivente
nei confronti della compagna.
La pronuncia trae spunto
da caso del sig. T.L. che, condannato dal GUP di Tempio Pausania per il
reato in parola, violenza privata e ricettazione, adiva
nel confermare la sussistenza degli elementi del reato ascritto,
riformava parzialmente la sentenza di prime cure, riducendo la pena ad
anni uno e mesi 8 per riportarla ad equità.
Il T.L. proponeva,
quindi, ricorso per Cassazione, deducendo inosservanza ed erronea
applicazione della legge penale in relazione i presupposti della
condotta punibile ex artt. 572 e 648 c.p., nonché vizio di motivazione
per contraddittoria e manifesta illogicità in relazione al reato di
violenza privata.
Afferma
, richiamandosi ad un indirizzo consolidato, che la nozione di famiglia
sottesa alla norma penale di cui all’art. 572 c.p. è da intendersi
estensivamente, nel senso che il bene giuridico oggetto della tutela
penale è comprensivo anche della c.d. “famiglia di fatto”.
Con
la conseguenza che, ai fini della configurabilità del reato di
maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che
l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente
“more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 cod. pen.
alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone
tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti
rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di
tempo”.
Questo intervento, considerato in uno ai
precedenti conformi, suscita alcune considerazioni in relazione sia al
diritto penale, sia all’ordinamento giuridico in generale
Con
riguardo al primo profilo, resta da capire se ed in che misura
l’interpretazione estensiva della norma penale sia compatibile con il
principio di tassatività e stretta legalità che governano e presidiano
la legislazione penale, considerato che detta tecnica interpretativa,
produce un effetto espansivo del campo d’applicazione della norma,
aumentando il numero delle condotte potenzialmente suscettibili di
acquisire rilevanza penale.
Con riguardo all’ordinamento
giuridico, invece, si evidenzia che, attraverso pronunce di questo
tipo, la giurisprudenza lancia evidenti segnali al Legislatore circa
necessità di intervenire de iure condendo, positivizzando e normando un
istituto – quello della famiglia di fatto – che si afferma con
prepotenza nella vita quotidiana, esiste, opera nella vita delle
persone, con la conseguenza che non si può più far finta di nulla
“nascondendosi dietro un dito”.
Questa sentenza, infatti, si
colloca in un più ampio indirizzo che trova corrispondenza anche in
campo civile nelle pronunce che statuiscono in capo al convivente, solo
per fare qualche esempio, il diritto al risarcimento del danno
patrimoniale e morale derivante dalla morte del compagno (Cass.
2988/94); a continuare ad abitare nella casa famigliare di proprietà
esclusiva dell’altro coniuge nel caso in cui divenga affidatario dei
figli a seguito della cessazione della convivenza (C. Cost. 166/1998);
a subentrare all’assegnatario di alloggio di edilizia economica e
popolare in quanto appartenente al nucleo famigliare (Cass. 559/89); a
divenire successibile nella titolarità del contratto di locazione di
immobili urbani ad uso abitativo i caso di morte del convivente more
uxorio (C. Cost. 404/88).
Se, dunque, il diritto nasce
come risposta alle esigenze sociali che vengono via via emergendo, ecco
allora che, in questo quadro, la giurisprudenza incarna il ruolo del
messo, dell’ambasciatore veicolando i bisogni e le necessità che le
vengono rappresentate al Legislatore che, solo, può e deve risolverle
il più tempestivamente possibile.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENBALE
Sentenza 2 – 22 ottobre 2009, n. 40727
Svolgimento del processo
Con
sentenza in data 2 maggio 2006, la Corte di appello di Cagliari,
Sezione distaccata di Sassari, in parziale riforma della sentenza del
Gup presso il Tribunale di Tempio Pausania, in data 15 novembre 2005,
riduceva ad anni uno e mesi otto di reclusione la pena inflitta a T.L.
per i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza privata e
ricettazione.
La Corte territoriale respingeva le censure mosse
con l’atto d’appello, in punto di sussistenza dell’elemento oggettivo
di ciascun reato, e confermava le statuizioni del primo giudice,
ritenendo accertata la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai
reati a lui ascritti, provvedendo soltanto a ridurre la pena inflitta
per riportarla ad equità.
Avverso tale sentenza propone ricorso
l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando tre
motivi di gravame con i quali deduce:
1) inosservanza o erronea
applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei
presupposti della condotta punibile per il reato di cui all’art. 672
c.p e vizio della motivazione sul punto;
2) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione al reato di violenza privata di cui al capo b);
3)
inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione
alla sussistenza dei presupposti della condotta punibile per il reato
di cui all’art. 648 c.p e vizio della motivazione sul punto.
Motivi della decisione
Il
ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel
giudizio di legittimità e comunque manifestamente infondati.
Per
quanto riguarda il primo motivo, in punto di configurabilità dei
presupposti di cui all’art. 572 c.p., la questione è manifestamente
infondata. Non v’è dubbio, infatti, che la tutela apprestata dalla
norma penale si estenda anche alla famiglia di fatto. Secondo
l’insegnamento di questa Corte: “ai fini della configurabilità del
reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la
circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una
persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto
nell’art. 572 cod. pen. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad
ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e
consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà
per un apprezzabile periodo di tempo” (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 20647
del 29/01/2008 Cc. (dep. 22/05/2008) Rv. 239726; Sez. 6, Sentenza n.
21329 del 24/01/2007 Ud. (dep. 31/05/2007) Rv. 236757; nel senso che
sia sufficiente solo la stabilità del rapporto: Sez. 3, Sentenza n.
44262 del 08/11/2005 Ud. (dep. 05/12/2005) Rv. 232904).
Per
quanto riguarda le questioni dedotte con il secondo ed il terzo motivo,
con le quali si deducono violazione di legge e vizi della motivazione,
occorre rilevare che il vaglio logico e puntuale delle risultanze
processuali operato dai Giudici di appello non consente a questa Corte
di legittimità di muovere critiche, nè tantomeno di operare diverse
scelte di fatto. Le osservazioni del ricorrente non scalfiscono
l’impostazione della motivazione e non fanno emergere profili di
manifesta illogicità della stessa; nella sostanza, al di là dei vizi
formalmente denunciati, esse svolgono, sul punto dell’accertamento
della responsabilità, considerazioni in fatto insuscettibili di
valutazione in sede di legittimità, risultando intese a provocare un
intervento in sovrapposizione di questa Corte rispetto ai contenuti
della decisione adottata dal Giudice del merito. E’ il caso di
aggiungere che la sentenza di secondo grado va necessariamente
integrata con quella, conforme nella ricostruzione dei fatti,
pronunciata in prime curo, derivandone che i giudici di merito hanno
spiegato, in maniera adeguata e logica, le risultanze confluenti nella
certezza del pieno coinvolgimento dell’imputato nella commissione del
reato ritenuto a suo carico.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc.
pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso,
l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle
spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore
della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della
Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo
profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00).
P.Q.M.
Dichiara
inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2009.