Marito costinge la moglie assegnataria a lasciare la casa, commette estorsione Cassazione penale , sez. II, sentenza 20.04.2010 n° 15111
Sempre più spesso, purtroppo, le difficoltà
che emergono nel contesto dei rapporti familiare assumono un rilievo
tale da trasmodare in profili di ordine penale.
La sentenza 20
aprile 2010, n. 15111, pronunziata dalla IIa Sezione della Corte di
Cassazione, affronta il tema della ravvisabilità del reato di
estorsione nel comportamento del coniuge che rientri nella
disponibilità della casa familiare, utilizzando minacce nei confronti
della parte cui la stessa sia stata assegnata nel corso del giudizio di
separazione o di divorzio.
Va detto subito, onde evitare
equivoci, che anche in un caso particolare – in fatto – come quello
oggetto della pronunzia citata, la struttura, sia materiale che
formale, del delitto di cui all’art. 629 c.p., non soffre significative
alterazioni.
Emerge, infatti, prima facie un’azione illecita connotata dall’elemento della minaccia, azione “volta ad ottenere un comportamento immediato del soggetto passivo, influendo sulla sua libertà di autodeterminazione” (Cfr.Trib. Napoli Sez. III, 8 aprile 2004, Riv. Pen., 2005, 599).
Il
marito condannato avrebbe – infatti – posto in essere, in modo ritenuto
sia dai giudici di merito, che di legittimità, sufficientemente ed
adeguatamente provato, plurime minacce di morte per ottenere il
rilascio dell’immobile e riprenderne il possesso materiale.
Sarebbe,
quindi, stata posta in essere un vis psichica, che suppone nei
confronti del destinatario della minaccia la prospettazione di un danno
futuro (che può essere anche in sé non ingiusto).
Risulta, pertanto, nodale l’affermazione che è la minaccia di “un male” l’in sé negativo della condotta (Cfr. MARINI Voce Estorsione in Digesto Discipline Penalistiche vol. IV pg. 376).
Va,
però, sottolineato come la presenza della minaccia, in sé, non pare
sufficiente a permettere di concludere per la configurazione piena ed
inequivoca del delitto di estorsione.
L’elemento costitutivo
della minaccia (o della violenza), per potere esplicare appieno quella
valenza antigiuridica, che connota di illiceità la condotta dell’agente
e le rende sussumibile nel nomotipo di cui all’art. 629 c.p., deve
produrre concretamente una coartazione “…preordinata a procurare al soggetto attivo un ingiusto profitto…” [Cfr.
Cass. pen. Sez. V, 19 aprile 2006, n. 32011 (rv. 235195), Procuratore
Generale della Repubblica presso Corte Appello di Cagliari c. A.R., CED
Cassazione, 2006, Riv. Pen., 2007, 9, 921].
E’ gioco forza,
quindi, affermare che la condotta materiale – idonea a suscitare
privazione della libertà di autodeterminazione nelle disposizioni
patrimoniali del soggetto passivo – deve trovare, quindi, naturale e
consequenziale risultato nella verificazione dell’ingiusto profitto del
minacciante e del correlativo danno del minacciato.
E’ in tale
ulteriore sviluppo ed approdo dell’azione che l’estorsione si manifesta
distinta dalla violenza privata di cui all’art. 610 c.p. .
Ha,
infatti, affermato la Suprema Corte, Sez. II, 18 novembre 2005, n.
44319, (Terrenghi, Giur. It., 2007, 1, 196 nota di MARTINELLI) che il
reato previsto dall’art. 629 c.p. “è una violenza privata
caratterizzata dall’ulteriore evento del conseguimento di un ingiusto
profitto con altrui danno, caratterizzata dalla privazione della
libertà di autodeterminazione nelle disposizioni patrimoniali del
soggetto passivo”.
La centralità e decisività
dell’ingiusto profitto viene valorizzata dalla Corte, stimolata sul
punto dal ricorso della difesa, la quale ha proposto l’assunto che tale
requisito non sia ravvisabile, atteso che l’immobile non sarebbe stato
di proprietà della parte offesa.
E’ evidente che il danno in parola deve essere collocato nella prospettiva di carattere eminentemente patrimoniale.
Il MARINI (Estorsione cit. pg. 386) conferma questo indirizzo.
L’Autore
parte da una valutazione di ordine sistematico, passa per l’esame della
terminologia usata dal legislatore, che differisce rispetto ad altre
distinte ipotesi di reato ove si parla di “vantaggio” od “utilità”,
oppure “profitto”, per pervenire alla conclusione che si deve
identificare il profitto “in termini rigorosamente patrimoniali cioè in termini di arricchimento o di mancato impoverimento del soggetto attivo…”.
Vale a dire che, muovendo dal principio che l’ingiusto profitto deve essere inteso “come accrescimento patrimoniale in senso lato” (Cfr. Trib. Bologna Sent., 25 gennaio 2010, Ve.Ar., www.leggiditalia.it,
che sviluppa il concetto in relazione al reato di truffa ex art. 640
c.p., ma che offre un paradigma assolutamente pertinente).
Attesa questa premessa il profitto ingiusto è, dunque, quello contra jus oppure quello sine jure.
Qualunque
situazione o condizione giuridica soggettiva che sia produttiva di
effetti di carattere economico è, dunque, suscettibile di venire
ricompreso nella nozione in disamina.
Assolutamente corretta,
quindi, appare la posizione assunta dai giudici di legittimità, i quali
risolvono il quesito posto, disancorando il concetto di profitto
ingiusto da quello di ablazione del diritto di proprietà del bene in
contesa.
Vine, infatti, così conferito valore di natura
economico-patrimoniale anche al diritto di abitazione, dell’immobile,
quale concreto esercizio del provvedimento di assegnazione
giurisdizionale intervenuta nel procedimento di separazione o di
divorzio.
Sinallagmaticamente è, quindi, ravvisabile anche il
danno che la parte offesa viene a subire e che consiste nel mancato
godimento di un bene, rispetto al quale il possessore era munito di un
titolo valido e non revocato giudizialmente.
Tale danno non
presenta profili meramente formali, quanto piuttosto abbina al naturale
danno da reato anche un danno patrimoniale che consiste nella ablazione (quale effettivo danno emergente) di un diritto soggettivo (suscettibile di quantificazione economica).
Da
ultimo appare opportuno rilevare che la Corte non esclude che nella
fattispecie si potesse configurare in alternativa al reato di
estorsione quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ai
sensi dell’art. 393 c.p..
E’ pacifico che “Il criterio
distintivo tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni
con violenza alle persone risiede nel fatto che, mentre nel primo
l’agente mira a conseguire un profitto ingiusto con la consapevolezza
che quanto pretende non gli è giuridicamente dovuto, nel secondo,
invece, l’agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto
con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli competa giuridicamente. (Cfr. Trib. Napoli, Sez. IV, sentenza 8 febbraio 2010, K. N. V., www.leggiditalia.it).
L’analisi
che si impone usualmente per potere discernere dai fatti la corretta
qualificazione di diritto, involge usualmente l’elemento psicologico
dell’agente.
Nel caso concreto, come rilevato dai giudici di
legittimità, la derubricazione ipotizzata avrebbe potuto avere un
proprio pregio, a condizione che fossero indicate le reali ragion di
diritto.
Ciò in concreto non è avvenuto e, dunque, l’argomento rimane puramente potenziale.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 22 gennaio – 20 aprile 2010, n. 15111
Svolgimento del processo
Con
sentenza del 26.2.2008 la Corte di appello di Napoli confermava la
sentenza emessa dal GUP del Tribunale di S. Maria C.V. in data 4.6.2006
di condanna del ricorrente per il reato di estorsione alla pena di anni
due, mesi due di reclusione ed Euro 300,00 di multa.
L’imputato
avrebbe costretto la moglie alla quale prima in sede di separazione poi
in sede di divorzio era stato affidata l’abitazione coniugale di
proprietà dei familiari del ricorrente con ingiurie e minacce di morte
ad abbandonare la detta abitazione e trasferirsi altrove.
Ricorre
l’imputato che con un primo motivo allega che manca l’elemento
dell’ingiusto profitto perchè l’abitazione non era di proprietà della
parte offesa e questa aveva già manifestato l’intenzione di trasferirsi
altrove.
Inoltre le dichiarazioni della donna erano prive di sostanziali conferme.
Infine,
al più, era ravvisabile il reato di cui all’art. 393 c.p. in quanto il
ricorrente poteva adire il giudice per ottenere l’immobile che era di
sua proprietà.
Motivi della decisione
Il ricorso, stante la sua manifesta infondatezza, va dichiarato inammissibile.
Circa
il primo motivo i giudici di merito hanno accertato che in seguito alle
minacce, insulti ed atti di violenza posti in essere dall’imputato la
moglie fu indotta a lasciare l’abitazione che le era stato affidato sia
in sede di separazione che di divorzio. Tali episodi emergono dalle
precise ed univoche dichiarazioni erse dalla p.o. e il giudice di primo
grado ha indicato i riscontri derivanti dalle dichiarazioni rese dai
testi I., G.S., S.A., M.G..
Il motivo è assolutamente generico
perchè ignora le dette dichiarazioni e non sottopone neppure a
specifiche censure le dichiarazioni della moglie. L’ipotesi che la
stessa abbia volontariamente abbandonato l’appartamento perchè
desiderava spostarsi altrove è smentita dalle sentenze di merito e non
vengono indicati gli elementi dai quali questa ipotesi sarebbe
confermata.
Pur essendo l’appartamento di proprietà dei
familiari del ricorrente l’ingiusto profitto è evidente, posto che
l’imputato, essendo stato l’immobile affidato alla moglie sia in sede
di separazione che di divorzio, non ne aveva la disponibilità.
Quanto
all’ultima doglianza circa l’applicabilità dell’art. 393 c.p., il
motivo è generico. Certamente l’imputato poteva in astratto adire il
giudice ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono nemmeno
indicate.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il
provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo
ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del
procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore
della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così
equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara
inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali ed al versamento di Euro mille alla Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2010.
Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2010.