Matrimonio ecclesiastico, nullità, delibazione, precisazioni (sentenza completa)
La sentenza di nullità del matrimonio ecclesiastico pronunciata per
grave immaturità o “grave difetto di discrezione del giudizio” di un
coniuge può essere delibata nell’ordinamento italiano in quanto non è
contrastante con i principi di ordine pubblico. (1)
(1) In tema di sentenze ecclesiastiche e delibazione, si veda Cassazione civile, sez. I, sentenza 15.01.2009 n° 814.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 15 settembre 2009, n. 19808
Svolgimento del processo
1.
Con sentenza n. 300/07 del 13 agosto 2007 la Corte di appello di Ancona
accoglieva la domanda con la quale B.R. aveva chiesto, con ricorso
depositato il 25 maggio 2006, il riconoscimento e la declaratoria di
esecutività nello Stato italiano della sentenza pronunciata il 23
aprile 2001 dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Piceno, ratificata
con decreto del 15 ottobre 2003 dal Tribunale della Rota Romana, con la
quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario dal
medesimo contratto con F. L. il ****.Per l’effetto, la Corte
territoriale dichiarava l’efficacia nella Repubblica Italiana della
menzionata sentenza del Tribunale Ecclesiastico Regionale Piceno.2.
A fondamento della decisione la Corte di appello, in via preliminare,
rilevava che la domanda di riconoscimento era stata erroneamente
proposta in applicazione della L. n. 218 del 1995, trovando invece la
fattispecie disciplina nell’accordo bilaterale con protocollo
addizionale tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede, firmato a Roma
il 18 febbraio 1984 (di modifica del precedente Concordato Lateranense
dell’11 febbraio 1929) e reso esecutivo con la L. n. 121 del 1985, e
che tuttavia tale irregolarità poteva essere superata in considerazione
del potere officioso del giudice di qualificare l’azione sotto il
profilo giuridico, fermo restando il bene della vita richiesto.La
Corte territoriale osservava, inoltre, che era errata l’adozione, per
l’introduttivo del giudizio, del modello del ricorso, essendo invece
previsto, per promuovere il giudizio di delibazione, l’atto di
citazione in virtù del richiamo da parte della normativa concordataria
degli artt. 796 e 797 c.p.c., fermo restando che la relativa nullità
del giudizio era rimasta sanata dalla costituzione della
resistente-convenuta, che non aveva sollevato al riguardo eccezioni.La
Corte premetteva ancora che il decreto del Supremo Tribunale della
Segnatura Apostolica, necessario per l’esecutività della sentenza
pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico, era sopraggiunto in corso di
causa il 3 luglio 2006 ed era stato prodotto dal ricorrente solo il 24
luglio 2006 e che tuttavia, costituendo tale elemento non un
presupposto processuale, ma una condizione dell’azione che poteva
intervenire sino al momento della decisione, erano sussistenti le
condizioni per la pronuncia sul merito della domanda.Era infine
priva di conseguenze, sul piano processuale, l’eccezione di nullità
sollevata dall’intimata sotto il profilo della produzione in giudizio
da parte del ricorrente di una copia in lingua latina della sentenza
delibanda, in quanto tale irregolarità era stata sanata dalla
produzione di copia tradotta in italiano e comunque la convenuta, in
conseguenza di tale circostanza, non aveva dedotto alcuna limitazione
del proprio diritto di difesa.3. Nel merito la Corte di appello
riteneva che fosse privo di pertinenza il principale argomento
difensivo della convenuta, relativo alla nullità, per contrarietà
all’ordine pubblico, della sentenza ecclesiastica, argomento basato in
realtà su di un postulato inesatto, nel senso che la nullità del
matrimonio sarebbe stata dichiarata per esclusione di “bona matrimonii”
e dunque su di una riserva mentale unilaterale di uno dei coniugi,
laddove la declaratoria di nullità era derivata dall’accertamento
dell’esistenza nel marito di “grave difetto di discrezione di
giudizio”, ossia di un vizio della volontà attinente in modo diretto
alla incapacità personale del coniuge di partecipare efficacemente
all’atto, escludendone quel minimo requisito psichico che si richiede
per la validità del vincolo. Affermava la Corte di appello che tale
vizio era ben diverso dalla riserva interiore di escludere uno o
l’altro dei “bona matrimonii” e incideva in modo negativo sulla
validità del matrimonio anche nell’ordinamento civile sotto forma di
incapacità naturale, mentre irrilevante doveva ritenersi la circostanza
che il medesimo istituto ricevesse differente disciplina nei due
ordinamenti, non influendo ciò sui principi essenziali di quello
interno e non ostacolando il riconoscimento della sentenza
ecclesiastica.4. In ordine alle richieste di carattere
economico avanzate da F.L. e dal figlio della coppia, B.E., divenuto
maggiorenne nel corso del giudizio e che aveva fatto proprie le istanze
di tipo economico della madre, quale contitolare dell’assegno di
mantenimento stabilito dal Tribunale di Roma nell’ambito del giudizio
di divorzio pendente tra i genitori, la Corte territoriale osservava
che l’unico provvedimento adottabile dal giudice della delibazione era
previsto dall’art. 8 dell’Accordo di modifica del Concordato
Lateranense del 1984, nella parte in cui consente al giudice che rende
esecutiva la sentenza canonica di “statuire provvedimenti economici
provvisori a favore di uno dei coniugio il cui matrimonio sia stato
dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la
decisione sulla materia”. Di conseguenza nessuna statuizione di ordine
economico poteva essere presa, in sede di delibazione, in forza di
norme, quali la L. n. 54 del 2006, art. 4 o gli artt. 129 e 129 bis
c.c., esulanti dal delineato contesto normativo e la cui applicabilità
costituiva prerogativa esclusiva del giudice interno. Inoltre il
giudice della delibazione non poteva intervenire nei rapporti economici
tra gli ex coniugi che fossero già, come nella specie, sottoposti alla
valutazione ed alla decisione del giudice interno naturale, il quale
dispone di un ampio potere di emanare provvedimenti, anche provvisori e
cautelari, a tutela degli interessi materiali dell’altro coniuge o
della prole. Comunque, il fatto che nel caso di specie il giudice della
separazione e quello del divorzio avessero già emanato provvedimenti di
tutela delle ragioni della convenuta e del figlio (come dai medesimi
riconosciuto) avrebbe comportato, a tutto concedere, l’inopportunità da
parte del giudice della delibazione di intervenire a sua volta con
provvedimenti che avrebbero finito per sovrapporsi a quelli già emanati
dal giudice competente.5. Considerato infine che il giudice
ecclesiastico era competente a conoscere della causa, in quanto il
matrimonio era stato celebrato con rito canonico e trascritto nei
registri dello Stato Civile; che nel procedimento canonico la F. era
stata regolarmente citata a comparire, come si evinceva dalla sentenza
delibanda, e che la sentenza stessa non era contraria ad altra
pronunciata in Italia, non pendendo inoltre nel nostro Stato processo
davanti al giudice nazionale per il medesimo oggetto e tra le stesse
parti, nè contrastava con l’ordine pubblico, l’opposizione della F.
doveva essere rigettata insieme con le istanze economiche formulate
dalla medesima e dal figlio, che dovevano essere condannati alle spese
processuali secondo soccombenza.6. Per la cassazione di tale sentenza, ricorrono F.L. ed B.E. sulla base di sei motivi. B. R. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1.
Con il primo motivo i ricorrenti denunciando contrarietà della sentenza
canonica all’ordine pubblico italiano per violazione del principio
fondamentale di tutela della buona fede e premesso che la F. nulla
sapeva dell’asserito vizio mentale del marito – deducono che la
declaratoria di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico,
il quale abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario per
esclusione da parte di uno solo dei coniugi di uno dei “bona
matrimonii”, oppure per incapacità di intendere e di volere di uno dei
coniugi, postula che tali circostanze siano state rese note all’altro
coniuge, ovvero che siano state da questo effettivamente conosciute,
con la conseguenza che, qualora le menzionate situazioni non ricorrano,
la delibazione e la dichiarazione di efficacia trovano ostacolo
insormontabile nella contrarietà all’ordine pubblico italiano, nel cui
ambito va ricompreso il principio della buona fede e dell’affidamento
incolpevole. Viene quindi formulato il seguente quesito di diritto ex
art. 366 bis c.p.c.: “dichiarare o meno che in assenza di prova circa
la conoscenza dell’incapacità mentale del marito, da parte della
moglie, non possa essere accolto l’annullamento del matrimonio e cioè
vada salvaguardato il principio fondamentale di tutela della buona fede
della donna per mancata conoscenza delle riserve mentali, dei vizi
canonici sulla capacità, o comunque sull’inesistenza di uno dei bona
matrimonii. Ovvero se in caso di mancata prova circa la conoscenza da
parte della donna, l’annullamento non possa essere pronunciato per
contrasto con l’Ordine Pubblico Italiano”. 2. Con il secondo motivo i
ricorrenti – prospettando l’inammissibilità della domanda di
delibazione in quanto contraria all’ordine pubblico italiano per la
differenza esistente tra il grave difetto di discrezione di giudizio e
l’incapacità di contrarre matrimonio – si dolgono che la Corte di
appello abbia equiparato il grave difetto di discrezione di giudizio
previsto dal diritto canonico con l’incapacità naturale disciplinata
dal diritto civile italiano. Deducono che invece i due istituti
divergono, in quanto il grave difetto di discrezione di giudizio non
costituisce manifestazione di totale incapacità di agire, ma configura
soltanto una grave forma di immaturità. Soggiungono che il
riconoscimento di tale forma di immaturità nel dr. B., noto ed
affermato medico, contrasta con la sua vita e la sua carriera
professionale.Viene formulato il seguente quesito di diritto:
“dichiarare o meno che il grave difetto di discrezione di giudizio
ravvisato nel diritto canonico, non coincide per nulla con l’incapacità
di agire, nè con l’incapacità di intendere e di volere nel diritto
civile, ma con la semplice grave immaturità, rendendo inammissibile la
domanda di efficacia nel territorio italiano o di delibazione per
contrarietà all’Ordine Pubblico Nazionale”. 3. Le due censure, che
possono essere esaminate congiuntamente in quanto attinenti a questioni
strettamente connesse, sono prive di fondamento. La Corte di appello di
Ancona ha chiaramente affermato che era privo di pertinenza il
principale argomento difensivo della convenuta, relativo alla nullità,
per contrarietà all’ordine pubblico, della sentenza ecclesiastica, in
quanto si trattava di un argomento basato su di un postulato inesatto,
nel senso che la nullità del matrimonio sarebbe stata dichiarata per
esclusione di “bona matrimonii” e dunque su di una riserva mentale
unilaterale di uno dei coniugi, laddove la declaratoria di nullità era
derivata dall’accertamento dell’esistenza nel marito di “grave difetto
di discrezione di giudizio”, ossia di un vizio della volontà attinente
in modo diretto alla incapacità personale del coniuge di partecipare
efficacemente all’atto, escludendone quel minimo requisito psichico che
si richiede per la validità del vincolo. La Corte di appello ha anche
precisato che tale vizio è ben diverso dalla riserva inferiore di
escludere uno o l’altro dei “bona matrimonii” e incide invece in modo
negativo sulla validità del matrimonio anche nell’ordinamento civile
sotto forma di incapacità naturale, mentre è irrilevante la circostanza
che il medesimo istituto riceva differente disciplina nei due
ordinamenti, non influendo ciò sui principi essenziali di quello
interno e non ostacolando il riconoscimento della sentenza
ecclesiastica.I ricorrenti non sollevano censure su tale
fondante nucleo argomentativo della decisione impugnata, introducendo a
sostegno della loro impugnazione un tema (quello dell’applicazione del
principio fondamentale di tutela della buona fede e dell’affidamento
incolpevole in relazione non solo all’ipotesi di esclusione da parte di
uno solo dei coniugi di uno dei “bona matrimonii”, ma anche a quella
della non conoscenza da parte di uno dei coniugi del “grave difetto di
discrezione di giudizio” dell’altro coniuge), che – oltre a fondarsi
sulla prospettazione di un fatto nuovo (la non conoscenza da parte
della F. di tale “grave difetto di discrezione di giudizio” in capo al
marito) che, nè dalla sentenza impugnata, nè dallo stesso ricorso per
cassazione, risulta essere stato specificamente dedotto nel giudizio
davanti al Tribunale ecclesiastico e in quello di delibazione innanzi
alla Corte di appello e che pertanto non può essere prospettato per la
prima volta in sede di legittimità – è comunque privo di fondamento
giuridico.3.1. Ritiene infatti, in via generale, il collegio
che – in conformità all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite di
questa Corte con riferimento alle sentenze di annullamento del
matrimonio pronunciate da altri Stati (cfr. Cass. S.U. 2008/19809) – il
riconoscimento dell’efficacia è subordinato alla mancanza di
incompatibilità con l’ordine pubblico interno, che è assoluta e
relativa rispetto a tutti gli Stati, mentre è solo assoluta per le
sentenza ecclesiastiche atteso che – in ragione del favore particolare
al loro riconoscimento che lo Stato italiano si è imposto con
Protocollo addizionale del 18/2/1984 modificativo del concordato – per
queste la delibazione è possibile in caso di incompatibilità relativa,
ravvisatole tutte le volte che la divergenza possa superarsi, sulla
base di una valutazione di circostanze o fatti (anche irrilevanti per
il diritto canonico), individuati dal giudice della delibazione, idonei
a conformare la pronuncia ai valori o principi essenziali della
coscienza sociale desunti dalle fonti normative costituzionali ed alla
norma inderogabile, anche ordinaria, nella materia matrimoniale.Nel
caso di specie, i ricorrenti, a fronte dell’argomentata valutazione del
giudice della delibazione – secondo il quale il “grave difetto di
discrezione di giudizio costituisce vizio della volontà che attiene
direttamente alla capacità personale del coniuge di partecipare
efficacemente all’atto escludendone quel minimo requisito psichico che
si richiede per la validità del vincolo, vizio che …. incide
negativamente sulla validità del matrimonio anche nell’ordinamento
civile sotto forma di incapacità naturale…” – si sono limitati a
prospettare, peraltro in modo del lutto generico, la diversità
concettuale che intercorrerebbe tra il “grave difetto di discrezione di
giudizio”, preso in considerazione dal giudice ecclesiastico e
consistente in una forma di immaturità grave, ma non tale da poter
comportare l’annullamento del matrimonio, e l’incapacità di intendere e
di volere prevista quale causa d’invalidità del matrimonio (invero
impropriamente intesa dai ricorrenti stessi quale totale incapacità di
agire ed equiparata alla situazione degli interdetti per infermità
mentale), ma non hanno dedotto specifiche ragioni d’incompatibilità
assoluta della sentenza ecclesiastica con l’ordine pubblico italiano,
ossia ragioni d’incompatibilità tali da escludere – alla stregua di
rilevanti circostanze di causa, peraltro nella specie neppure dedotte –
che la decisione del Tribunale ecclesiastico risultasse conforme ai
principi desunti dalle fonti normative costituzionali ed alle norme
ordinarie inderogabili in materia matrimoniale.3.2.
Indipendentemente da tali valutazioni di carattere generale e
pronunciando specificamente sul merito della censura svolta dai
ricorrenti, ritiene comunque il collegio che la decisione assunta sul
punto dal giudice della delibazione si sottragga alle critiche degli
impugnanti. Infatti, in tema di delibazione della sentenza di un
tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità di un matrimonio
concordatario, per difetto di consenso, la situazione di vizio psichico
(“ob defectum discretionis iudicii”) da parte di uno dei coniugi,
assunta in considerazione dal giudice ecclesiastico siccome comportante
inettitudine del soggetto ad intendere i diritti ed i doveri del
matrimonio al momento della manifestazione del consenso, non si
discosta sostanzialmente dall’ipotesi di invalidità contemplata
dall’art. 120 c.c., cosicchè è da escludere che il riconoscimento
dell’efficacia di una tale sentenza trovi ostacolo nei principi
fondamentali dell’ordinamento italiano (Cass. 1988/4710; 1997/3002. In
senso conforme, cfr. Cass. 1987/5822; 2000/4387; 2006/10796). E
contrasto con tali principi non si rende ravvisabile neppure sotto il
profilo dei difetto di tutela dell’affidamento della controparte.
Infatti, al riguardo, è sufficiente rilevare che, mentre la disciplina
generale dell’incapacità naturale da rilievo, in tema di contratti,
alla buona o alla mala fede dell’altra parte (art. 428 c.c., comma 2),
tale aspetto si rende invece del tutto ignorato nella disciplina
dell’incapacità naturale vista quale causa di invalidità del
matrimonio, essendo preminente, in tal caso, l’esigenza di rimuovere il
vincolo coniugale inficiato da vizio psichico (Cass. 1997/3002).4.
Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione della L. n. 54
del 2006 e si dolgono che la Corte di appello, nonostante il disposto
dell’art. 4, legge citata – in forza del quale le disposizioni della
stessa legge si applicano anche in caso di scioglimento, cessazione
degli effetti civili o di nullità del matrimonio – non ha provveduto
sulle richieste economiche avanzate dalla F. e del figlio B.E., senza
tener conto dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui, a seguito
della novella di cui alla L. n. 54 del 2006, anche al giudice minorile
a cui era in precedenza inibita l’emissione di provvedimenti di natura
economica, rimessi alla competenza del tribunale civile ordinano –
spetta ora di pronunciare provvedimenti di ordine economico.Affermano
altresì che priva di pregio è la tesi della Corte di appello, secondo
cui non sarebbe stato possibile provvedere, avendo il giudice del
divorzio già assunto i provvedimenti provvisori, in quanto la nullità
del matrimonio travolge il divorzio, spettando quindi al giudice della
delibazione della nullità le necessarie statuizioni economiche. Viene
formulato il seguente quesito di diritto: “determinare se il Giudice
della Corte d’Appello in sede di delibazione o di applicazione del
Concordato Lateranense, al fine di dichiarare l’efficacia nella
Repubblica Italiana della sentenza di nullità del matrimonio canonico,
non debba egualmente, così come avviene, per il Tribunale dei Minori,
in presenza di genitori non uniti in matrimonio, ed al Tribunale
Ordinario in sede di divorzio, istruire il processo ai fini dei
provvedimenti economici e personali di cui alla L. n. 54 del 2006.
Conseguentemente pronunciare i provvedimenti di natura economica a
tutela dei figli e del coniuge, esattamente (secondo) tutti i principi
già riportati e da condividere nell’ordinanza di questa Suprema Corte
03/04/2007 n. 8362. Dichiarare quindi l’obbligo della Corte di appello
in sede di delibazione o di applicazione del concordato lateranense di
effettuare tutte le istruzioni processuali al fine delle pronunce di
natura economica in favore della moglie e del figlio”. 4.1. Anche tale
censura non è fondata.A norma della citata L. n. 121 del 1985,
art. 8, comma 2, lett. c), in sede di delibazione di una sentenza di
nullità del matrimonio pronunciata da un tribunale ecclesiastico, la
corte di appello può soltanto, nella sentenza intesa a rendere
esecutiva detta decisione, “statuire provvedimenti economici provvisori
a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato
nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla
materia”. Pertanto al giudice della delibazione della sentenza
ecclesiastica spetta soltanto il potere di adottare eventuali
provvedimenti economici provvisori, aventi funzione strumentale e
natura anticipatoria, in quanto diretti ad assicurare la “fruttuosità
pratica” della decisione definitiva, che resta dunque sottratta alla
competenza del giudice della delibazione e affidata invece al giudice
competente per la decisione sulla materia (cfr. Cass. 2003/17535;
2007/11654).Privo di pertinenza è il richiamo, operato dai
ricorrenti, del disposto della L. n. 54 del 2006, art. 4, secondo il
quale le disposizioni della legge medesima, relative alla materia della
separazione dei genitori, dell’affidamento condiviso dei figli e dei
provvedimenti nei loro confronti, “si applicano anche in caso di
scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del
matrimonio”. La norma richiamata si limita, infatti, ad estendere la
disciplina sostanziale e processuale dettata dalla L. n. 54 del 2006
con riferimento al giudizio di separazione anche ai giudizi di divorzio
e di nullità del matrimonio, ma nulla innova in ordine alla competenza
all’adozione di tali provvedimenti, riservata al giudice chiamato
pronunciarsi sul merito della controversia, e soprattutto in alcun modo
deroga alla previsione della L. n. 121 del 1985, citato art. 8, comma
2, lett. c), che affida al giudice della delibazione il potere
discrezionale di adottare soltanto eventuali provvedimenti provvisori e
anticipatoli di quelli che saranno assunti in via definitiva dal
giudice competente della materia.4.2. Parimenti non pertinente
è il riferimento operato dai ricorrenti all’orientamento
giurisprudenziale,, secondo il quale, in l’orza della L. n. 54 del
2006, anche al giudice minorile spetta di adottare provvedimenti di
natura economica. Infatti l’orientamento richiamato – che ha ravvisato
la competenza del Tribunale per i Minorenni nel caso di contestuale
adozione delle misure relative all’esercizio della potestà dei genitori
e all’affidamento dei figli e di quelle economiche inerenti al loro
mantenimento, in ragione dell’esigenza non solo di evitare che i minori
ricevano dall’ordinamento un trattamento diseguale a seconda che siano
nati da genitori coniugati oppure da genitori non coniugati, ma anche
di escludere soluzioni interpretative che comportino un sacrificio del
principio di concentrazione delle tutele, che è aspetto centrale della
ragionevole durata del processo (Cass. 2007/8362) – si fonda su
presupposti di fatto e diritto che non hanno alcuna attinenza con il
caso in esame e non può pertanto essere utilmente invocato per
giustificare l’asserito potere del giudice della delibazione di
adottare, oltre alle eventuali misure interinali e provvisorie previste
dalla L. n. 121 del 1985, art. 8, provvedimenti che, ai sensi degli
artt. 129 e 129 bis c.c. e della L. n. 54 del 2006, regolino i rapporti
economici tra i coniugi del matrimonio dichiarato nullo, o che
stabiliscano provvidenze economiche a favore dei loro figli.4.3.
Quanto alla decisione di non adottare nel caso di specie alcun
provvedimento economico provvisorio – motivata dalla Corte di appello
con riferimento alla circostanza che di tale questione erano già stati
investiti il giudice della separazione personale e successivamente
quello del divorzio e con l’esigenza di non intervenire, con
provvedimenti che finirebbero per sovrapponi a quelli già emanati dal
giudice competente, nei rapporti economici tra gli ex coniugi che siano
già sottoposti alla valutazione e alla decisione del loro giudice
naturale – le censure sollevate al riguardo dai ricorrenti sono
inammissibili in sede di giudizio di legittimità, avendo ad oggetto
statuizioni di natura non definitiva nè decisoria (2003/17535;
2007/11654).5. Con il quarto motivo si prospetta la
incostituzionalità degli artt. 129 e 129 bis c.c. in rapporto alla L.
n. 54 del 2006 ed alla disciplina in tema di divorzio e separazione dei
coniugi. Si deduce la disparità di trattamento tra quanto statuito
dalla L. n. 54 del 2006 in favore del coniuge divorziato e del figlio e
quanto stabilito dalle norme codicistiche con riferimento al coniuge
che, senza sua colpa, subisca l’annullamento del matrimonio, in
relazione agli artt. 3, 7, 29 e 30 Cost.. Si formula il seguente
quesito di diritto:“Rilevare l’incostituzionalità sopra
enucleata rimettendo gli atti alla Consulta”. 5.1. Anche tale motivo di
ricorso è privo di fondamento, in quanto la questione di
costituzionalità sollevata dai ricorrenti – oltre ad essere stata
formulata in modo del tutto generico, in particolare per quanto
riguarda la formulazione del quesito di diritto, richiesto anche per la
illustrazione del motivo di ricorso con il quale la questione di
costituzionalità viene proposta (Cass. S.U. 2008/28050;Cass.
2007/4072) e che nella specie si è concretizzato nella mera richiesta
alla Corte di rilevare la eccepita incostituzionalità – non è rilevante
ai fini della decisione del giudizio di cui trattasi, riguardando norme
non applicabili nel caso di specie e questioni comunque non attinenti
al “decisum” del provvedimento impugnato.6. Con il quinto
motivo i ricorrenti deducono la improcedibilità del processo di
delibazione per violazione del contraddittorio e degli artt. 347, 348 e
ss. c.p.c., in quanto la sentenza ecclesiastica, depositata in atti,
non era accompagnata dal decreto di esecutorietà del Supremo Tribunale
della Segnatura Apostolica e non era stata tradotta in lingua italiana,
decreto e traduzione intervenuti solo successivamente nel corso del
giudizio. Viene formulato il seguente quesito di diritto: “se nei
procedimenti di delibazione o equiparati, trattandosi di processi
avanti la Corte d’Appello, la traduzione in lingua italiana e
l’attestazione del passaggio in giudicato o, comunque, l’effettivo
passaggio in giudicato, debbano sussistere prima della proposizione
della domanda o quanto meno all’atto della costituzione in giudizio”.
6.1. Anche tale doglianza è priva di fondamento.Infatti, in
tema di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarativa della
nullità di un matrimonio, la circostanza che detto provvedimento sia
redatto in latino non comporta l’obbligo della sua traduzione nella
lingua italiana, ma solo la facoltà per il giudice di disporla per il
caso in cui non conosca la lingua latina, ovvero sia insorta
controversia tra le parti sul significato di determinate espressioni
(Cass. 1993/3635). Nel caso di specie nessuna di tali evenienze si è
verificata e la Corte di appello ha dato atto altresì che la F., nel
corso del giudizio di delibazione, non ha in alcun modo dedotto che il
suo diritto di difesa sia stato leso dalla produzione in giudizio di
una copia in lingua latina della sentenza delibanda. Su tale
affermazione della Corte di appello non è stata sollevata specifica
censura da parte dei ricorrenti, che solo in questa sede di legittimità
si sono limitati a dedurre, per la prima volta e in modo del tutto
generico, che la produzione della sentenza in latino avrebbe comportato
la lesione del loro diritto di difesa, essendosi il giudizio di
delibazione svolto in un’unica udienza di discussione.Quanto
alla tardiva produzione del decreto con il quale il Supremo Tribunale
della Segnatura Apostolica ha reso esecutiva la sentenza di nullità del
matrimonio pronunciata dal tribunale ecclesiastico, rileva il collegio
che tale decreto non costituisce un presupposto processuale, bensì una
condizione dell’azione; ne consegue che non è necessaria la sua
esistenza nel momento in cui il giudizio di delibazione viene
introdotto, potendo la sentenza ecclesiastica essere delibata purchè
tale decreto esista nel momento in cui la lite viene decisa (Cass.
2009/814).Non sussistono pertanto, alla stregua delle
considerazioni che precedono, le ragioni di improcedibilità del
giudizio di delibazione dedotte con il motivo di ricorso ora esaminato.7.
Con la sesta ed ultima censura i ricorrenti lamentano la loro
illegittima condanna al pagamento delle spese processuali in violazione
dell’art. 91 c.p.c. e formulano il seguente quesito di diritto:
“sussiste o meno violazione della normativa di cui agli artt. 91 e 92
c.p.c. essendosi condannati gli attuali comparenti alle spese di lite,
sussistendo invece giusti motivi per la compensazione delle stesse,
nell’ipotesi non creduta il cui il presente ricorso non dovesse essere
accolto”. 7.1. La censura è inammissibile. Infatti, in tema di
regolamento delle spese processuali, la relativa statuizione è
sindacabile in sede di legittimità soltanto in caso di violazione di
legge, quale si verificherebbe nell’ipotesi in cui, contrariamente al
divieto stabilito dall’art. 91 c.p.c. e diversamente da quanto avvenuto
nel caso di specie, le stesse venissero poste a carico della parte
totalmente vittoriosa (Cass. 2006/5828; 2006/17457). Inoltre la facoltà
di disporre la compensazione tra le parti delle spese processuali
rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è
tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di
tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle
spese, anche se adottata senza prendere in considerazione l’eventualità
di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure
sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. S.U. 2005/14989).8.
Le considerazioni che precedono conducono al rigetto del ricorso e le
spese del giudizio di cassazione, da liquidarsi come in dispositivo,
seguono la soccombenza.P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento
delle spese processuali, che si liquidano in Euro 2.700,00, di cui Euro
2.500,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge. In
caso di diffusione del presente provvedimento, omettere, a norma del
D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, le generalità e gli altri dati
identificativi di F.L., B.E. e B.R., in quanto imposto dalla legge.