Medico che sbaglia deve risarcire anche bambino nato malformato e i fratelli
1.La Corte di cassazione, con una pronuncia innovativa, ha riconosciuto, a titolo di responsabilità sanitaria per l’errore del ginecologo che non ha eseguito l’amniocentesi e gli altri esami necessari, a fronte di richiesta di accertamenti diagnostici specifici da parte della gestante, il risarcimento del danno oltre che alla stessa e al padre del bambino, anche al bambino stesso nato malformato e alla sorella del bambino.
La violazione dell’obbligo d’informazione da parte del sanitario dà luogo al risarcimento del danno in favore, oltre che della gestante-madre, anche del concepito, una volta che quest’ultimo sia venuto ad esistenza, in relazione all’inosservanza del principio del c.d. “consenso informato”, cioè della violazione dell’obbligo di informazione.
Tra i profili di responsabilità del medico possono essere individuati, in termini generali, l’omessa diagnosi colposa dell’handicap, la mancata comunicazione dell’esito degli esami ai genitori (anche se la cura della malattia fetale non è possibile), oppure la mancata utilizzazione, come nel caso di specie, con la dovuta diligenza, prudenza e perizia, degli strumenti (sempre più evoluti) di monitoraggio della vita antenatale del feto (ecografia, fetoscopia, amniocentesi, villocentesi,analisi molecolari, biochimiche,citogeniche e del DNA), ritenendo,nel caso concreto, insufficiente, sia pure con riferimento all’epoca dei fatti, a seguito della espressa richiesta di indagini sulla salute del feto da parte della gestante, la sola indicazione del cd. “tritest” quale indagine diagnostica funzionale all’accertamento di eventuali anomalie fetali.
La responsabilità del medico va affermata, in termini generali: a) sia per non avere fatto ricorso a tali indagini; b) sia, nel caso in cui le abbia effettuate ma non sia riuscito a interpretarne esattamente i risultati, per la trascuratezza con cui ha condotto l’indagine.
La mancata informazione si riconnette alla lesione del diritto alla autodeterminazione della donne ed alla procreazione cosciente e responsabile
Occorre anche la prova della sussistenza delle condizioni di cui agli artt. 6 e 7, L. 194/78.
Trattasi di una sentenza che modifica la precedenza giurisprudenza che riconosceva il diritto al risarcimento del danno, in caso di omessa informazione o errore medico in ordine alla diagnosi di malformazione del feto, solamente ai genitori: a) alla mamma in quanto parte del contratto con la struttura o il medico; b) al papà in quanto terzo direttamente tutelato dal contratto; infatti il contratto di assistenza sanitaria ha effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito ed anche a questi è dovuto il risarcimento del danno per l’inadempimento del sanitario (Cass. 14.7.2006, n. 16123; Cass., 20.10.2005, n. 21287); importante appare anche la specificazione, operata dalla giurisprudenza, della natura del risarcimento a favore del padre, ex contractu (Cass., 14.7.2006, n. 16123) e non come vittima “di rimbalzo” (Cass. 6375/2002)
Venivano, in precedenza, esclusi dalla tutela risarcitoria i fratelli del nascituro, non ritenuti terzi tutelati dal contratto stipulato dalla gestante (solo il padre era tutelato dal contratto di protezione) e lo stesso bambino nato malformato, nel caso di malformazioni congenite, non curabili in via intrauterina, in quanto, si affermava, non può essere invocato un inesistente diritto a nascere se non sano, sussistendo, invece, il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni o patologie (Cass. 11.5. 2009, n. 10741, Cass. 14.7.2006, n. 16123; Cass. 29/07/2004, n. 14488).
Viene esclusa l’ammissibilità nell’ordinamento del c.d. aborto “eugenetico”, prescindente dal pericolo derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, atteso che l’interruzione della gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt.4 e 6 legge n. 194 del 1978 ( accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8), oltre a risultare in ogni caso in contrasto con i principi di solidarietà di cui all’art. 2, Cost. e di indisponibilità del proprio corpo ex art. 5 cod. civ., costituisce reato anche a carico della stessa gestante.
Era orientamento accettato che il diritto di “non nascere” sarebbe un diritto adespota in quanto ex art. 1 c.c. la capacità giuridica si acquista solamente al momento della nascita e il cd. diritto di “non nascere” non avrebbe alcun titolare fino al momento della nascita, a seguito della quale risulterebbe non esistere più.
La pronuncia in rassegna , innovando la precedenza giurisprudenza, afferma che “il principio di diritto secondo il quale la responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti della madre nella qualità di parte contrattuale (ovvero di un rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre (come già affermato da Cass. n. 14488/2004 e prima ancora da Cass. n. 6735/2002)”, ampliando la tutela risarcitoria “alla stregua dello stesso principio di diritto posto a presidio del riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al padre stesso, ai fratelli e alle sorelle del neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta”, estendendola anche al bambino nato malformato.
2. La estensione della tutela risarcitoria ai fratelli del nascituro elimina una evidente disparità di trattamento con il danno parentale da morte (ancorchè su presupposti diversi), essendo pacificamente riconosciuto a tutti i figli della vittima il risarcimento del danno per la perdita della persona cara, potendosi, peraltro, anche invocare, anche nel caso di responsabilità medica da malformazione del feto, non solo la responsabilità contrattuale ma anche quella extracontrattuale, dimostrando la inviolabilità della lesione e la serietà e gravità del pregiudizio per i fratelli del bambino nato malformato, in forza dei principi affermati dalle sentenze di San Martino delle Sezioni Unite del novembre 2008.
In precedenza la giurisprudenza riteneva che gli altri figli della coppia (fratelli del nascituro) non avevano diritto al risarcimento non essendo titolari di alcuna prestazione contrattuale, non essendo tutelati dal contratto stipulato dalla madre e non essendo destinatari di alcun obbligo di informazione (Cass. 14.7.2006, n. 16123).
Era evidente il vulnus ai diritti dei minori a cui ha posto rimedio la sentenza in rassegna che ha esteso l’ambito della tutela anche ai fratelli del neonato malformato, individuando il danno, di natura non patrimoniale, “nella inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione”.
3. Viene anche riconosciuto, per la prima volta, il risarcimento del danno al neonato malformato per una patologia non curabile in via intrauterina.
Sussiste, quindi “la legittimazione attiva del neonato in proprio all’azione di risarcimento e il diritto a chiedere il risarcimento dal momento in cui è nato”.
La Cassazione aveva già in precedenza riconosciuto al nascituro il diritto al risarcimento dei danni per la sua malformazione, sotto il profilo della violazione del diritto alla salute, ma nel diverso caso in cui la malformazione non fosse congenita, ma fosse stata provocata colposamente dal medico, oppure qualora fosse possibile una cura pre-natale tale da consentire la nascita di un bambino sano.
Il nascituro è terzo protetto dal contratto stipulato dalla madre con il sanitario e con la struttura sanitaria e gli va riconosciuta, pertanto, legittimazione risarcitoria per i danni derivanti alla sua salute per la nascita quale soggetto malformato.
La soggettività giuridica che, sulla scorta di una pluralità di fonti e della c.d. giurisprudenza normativa, non può essergli negata, gli consente, infatti, di essere titolare del diritto alla vita, alla salute, all’onore, alla reputazione ed all’identità personale (Cass. 11 maggio 2009, n. 10741), tutti diritti in fieri che divengono attuali al momento della nascita.
Il salto di qualità operato dalla Suprema Corte consiste nel riconoscere tutela risarcitoria anche al bambino nato con una malformazione incurabile (quale la sindrome di Down, la talassemia etc), riconoscendo a “qui in utero est”, la natura di soggetto di diritto ovvero, del tutto specularmente, di oggetto di tutela sino al momento della sua nascita.
Il concepito, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall’ordinamento sia nazionale che sovranazionale, quali diritti fondamentali (diritto alla vita, alla salute, all’onore, all’identità personale), rispetto ai quali l’avverarsi della “condicio iuris” della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori.
Con un radicale cambiamento di prospettiva si afferma che “la lesione inferta al concepito si manifesta e diviene attuale al momento della nascita, la situazione soggettiva tutelata è il diritto alla salute, non quello a nascere sani”.
Si precisa che “chi nasce malato per via di un fatto lesivo ingiusto occorsogli durante il concepimento non fa, pertanto, valere un diritto alla vita né un diritto a nascere sano né tantomeno un diritto a non nascere. Fa valere, ora per allora, la lesione della sua salute, originatasi al momento del concepimento. Oggetto della pretesa e della tutela risarcitoria è, pertanto, sul piano morfologico, la nascita malformata, su quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi della vita quotidiana) il perdurante e irredimibile stato di infermità. Non la nascita non sana…o la non nascita”.
L’interesse tutelato trova il suo fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 della Costituzione.
“Il vulnus lamentato da parte del minore malformato, difatti, non è la malformazione in sé considerata – non è, in altri termini, l’infermità intesa in senso naturalistico (o secondo i dettami della scienza medica), bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata intese come proiezione dinamica dell’esistenza che non è semplice somma algebrica della vita e dell’handicap, ma sintesi di vita ed handicap, sintesi generatrice di una vita handicappata”
Viene in rilievo non la nascita bensì la “futura vita handicappata intesa nella sua più ampia accezione funzionale di una vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente”.
Viene abbandonato il principio del diritto a nascere tout court e la riflessa inesistenza di un diritto a nascere se non sano che aveva caratterizzato la precedenza giurisprudenza, specificandosi che “l’unica alternativa in ordine all’ammissibilità di una siffatta tutela non era tra non nascere o nascere malato, bensì tra nascere sano o nascere malato”, in quanto “vivere una vita malformata è di per se una situazione esistenziale negativa”
Si puntualizza che “la questione non è più quella della sua venuta al mondo, ma soltanto quella del suo handicap …. gli effetti protettivi del rapporto obbligatorio (contrattuale o da cd. “contatto sociale”) instaurato tra la paziente e i sanitari che la assistono durante la gestazione si producono non solo a favore del marito, bensì anche del figlio”.
Il diritto al risarcimento anche al nato con malformazioni congenite e non solo ai suoi genitori, come oggi avviene, è stato ritenuto in linea col sistema e con la “diffusa sensibilità sociale che sia esteso al feto lo stesso effetto protettivo (per il padre) del rapporto intercorso tra madre e medico; e che, come del resto accade per il padre, il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)”.
Premessa della tutela risarcitoria del nascituro o concepito è il riconoscimento di una sua autonoma soggettività giuridica e il contratto che la paziente pone in essere con la struttura sanitaria, sia il contratto con il singolo medico risultano produttivi di effetti, oltre che nei confronti delle stesse parti, anche di ulteriori effetti, c.d. protettivi, nei confronti del concepito e dell’altro genitore, come terzi direttamente tutelati dal contratto stesso.
La pronuncia si sofferma sulla “propagazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito” in quanto “l’interesse alla procreazione cosciente e responsabile non sia solo della madre, ma altresì del futuro bambino, e ciò anche quando questo si trovi ancora nel ventre materno”
Da sottolineare sono i riflessi della pronuncia della Corte di Cassazione che chiarisce come la pretesa risarcitoria possa essere avanzata solamente nei confronti del sanitario e mai nei confronti della madre anche nel caso in cui, essendo stata informata dal medico della malformazione del bambino, decida comunque di portare a termine la gravidanza.
In tal caso, comunque, nessuna responsabilità potrà essere fatta valere nei confronti del medico che ha correttamente informato la gestante della malformazione del feto.
Nel diverso caso in cui, invece, la futura madre non venga informata della malformazione del feto, per l’incuria o disattenzione del medico, a maggior ragione non potrà essere destinataria di alcuna azione risarcitoria da parte del figlio, ovviamente una volta nato, mentre l’azione risarcitoria potrà utilmente essere intentata nei confronti del medico, quale conseguenza del suo comportamento colposo.
Si specifica, al riguardo che “la titolarità del relativo diritto soggettivo, riconosciuto espressamente dall’art. 1 della legge n. 194 del 1978, non può che spettare…, alla sola madre, in quanto solo alla donna è concessa (dalla natura prima ancora che dal diritto) la legittimazione attiva all’esercizio del diritto di procreare coscientemente e responsabilmente”, dovendosi escludere “tout court la possibilità che il bambino, una volta nato, si dolga nei confronti della madre, come pure si è talvolta ipotizzato seguendo gli itinerari del ragionamento per assurdo, della scelta di portare avanti la gravidanza accampando conseguentemente pretese risarcitorie.”
Ogni decisione viene rimessa alla madre che “esercitando un diritto iure proprio (anche se, talvolta, nell’interesse non soltanto proprio, pur essendo tale interesse confinato nella sfera dell’irrilevante giuridico), deciderà presuntivamente per il meglio”.
Solamente alla madre è rimessa “la facoltà di decidere, in solitudine, della prosecuzione o meno della gravidanza”, senza che il figlio possa far valere qualsivoglia diritto nei suoi confronti comunque decida.
A fronte dell’accertamento positivo di tale diritto della madre va riconosciuto l’interesse del “nascituro (una volta in vita), oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, alla procreazione cosciente e responsabile” essendo, comunque, “il nascituro malformato in condizioni di diseguaglianza rispetto agli altri nascituri”
Il vero problema è accertare se la condotta lesiva del sanitario, unico legittimato passivo nel giudizio risarcitorio, unitamente, eventualmente, alla struttura sanitaria pubblica o privata, sia o meno concausa del suo diritto al risarcimento, essendo il concepito “come un oggetto di tutela necessaria, essendo la soggettività ….un’astrazione normativa funzionale alla titolarità di rapporti giuridici”.
Si precisa ulteriormente che il diritto al godimento del rapporto parentale è “inconfigurabile prima della nascita, così come solo successivamente alla nascita si verificano le conseguenze pregiudizievoli che dalla lesione del diritto derivano”.
4. Merita una particolare attenzione anche il criterio di individuazione del nesso di causalità tra la condotta generalmente omissiva colposa del medico e l’evento (la nascita di un bambino malformato), accertando se “una condotta diligente e incolpevole avrebbe consentito alla donna di esercitare il suo diritto all’aborto”.
La Suprema Corte bandisce ogni automatismo o presunzione assoluta relativamente agli effetti della condotta colpevole del medico, limitandosi alla individuazione di una “presunzione semplice”, meglio qualificabile quale principio di prova fondato su un “unico elemento indiziante di una volontà che si presume orientata verso un determinato esito finale, che va suffragato con altri elementi indizianti.
Appare importante anche stabilire se sia in presenza di un’omessa informazione o di una ritardata informazione.
In tale ultrimo caso non può affermarsi “tout court” che, comunque, la donna poteva abortire al momento in cui ha saputo della malformazione del feto; infatti oltre il 90^ giorno la scelta abortiva non è affidata alla libera autodeterminazione della donna, ma al preventivo accertamento di specifiche e rigorose condizioni in quanto la interruzione della gravidanza può essere praticata solo: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, la interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui all’art. 6, lett. a), e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.
Per possibilità di vita autonoma del feto si intende quel grado di maturità che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori dall’ambiente materno.
In tal caso, al fine di accertare se la donna sia stata impedita ad interrompere la gravidanza da un inadempimento del medico ad una sua obbligazione professionale, l’eventuale interrogativo concernente la possibilità di vita autonoma del feto va risolto avendo riguardo al grado di maturità raggiunto dal feto nel momento in cui il medico ha mancato di tenere il comportamento che da lui ci si doveva attendere (Cass. 10 maggio 2002, n. 6735).
Occorre accertare, ex ante, se la conoscibilità delle rilevanti anomalie e malformazioni del feto -, secondo la diagnostica a disposizione all’epoca in relazione alla possibilità di riscontrarle – avrebbe determinato (con un giudizio di prognosi postuma) un grave pericolo della lesione del diritto alla salute della madre, avuto riguardo alle condizioni concrete fisiopsichiche patologiche della stessa e secondo la scienza medica dell’epoca in base alla regola causale del “più probabile che non” (Cass. 10741/2009), così da determinare i presupposti per attuare la tutela di tale interesse – ritenuto dall’ordinamento prevalente su quello alla nascita del concepito gravemente malformato, purchè non giunto ad uno stadio di formazione e maturità che ne rende possibile la sua vita autonoma (L. n. 194 del 1978, art. 7, comma 3) – consentendo alla madre di interrompere la gravidanza, quale intervento terapeutico complementare (art. 6, lett. b), stessa legge) [Cass 2-2-2010, n. 2354].
Sussiste, in tale evenienza, il diritto della madre di poter decidere liberamente, anche attraverso una adeguata informazione sanitaria, la scelta dello aborto terapeutico o di rischiare una nascita a rischio genetico e questa scelta le è stata preclusa dai mancati esami medici o dalla loro inadeguata informazione (Cass. 30 novembre 2011, n. 25559).
La Cassazione non trae da tale presunzione semplice, fondata sul solo “elemento indiziante dell’omessa informazione”, alcuna necessitata conseguenza, anzi “il giudice di merito è chiamato a desumere, caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di tipo statistico (o di cd. probabilità a priori), le conseguenti inferenze probatorie e il successivo riparto dei relativi oneri”.
Nel caso in esame, viene demandato al giudice di rinvio di accertare se un “indizio isolato” (la richiesta di accertamento diagnostico da parte della gestante) possa essere ritenuto sufficiente a ritenere provata l’interruzione di gravidanza.
Viene escluso “qualsivoglia automatismo probatorio” e ai fini della prova del nesso causale “le parti, preso atto della situazione processuale di partenza costituita dall’esistenza di una vicenda probatoria “di indizio isolato” rispetto al fatto da provare (conseguentemente presunto o presumibile), sono chiamate a fornire al giudice gli elementi, che potranno dipanarsi anche sul piano della prova logica, funzionali a dirimere la questione del se le circostanze concrete e specifiche della concreta vicenda processuale consentano una valutazione di sufficienza o meno di quella presunzione semplice”
Acquistano rilievo i “fatti così come narrati, le circostanze come di volta in volta evidenziate, le stesse qualità personali delle parti agenti e resistenti …..potranno indurre i protagonisti del processo ad integrare o svilire la portata della presunzione semplice….. La materiale impossibilità di fornire la prova negativa di un fatto induce a ritenere che sia onere di parte attrice integrare il contenuto di quella presunzione con elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da sottoporre all’esame del giudice per una valutazione finale circa la corrispondenza della presunzione stessa all’asserto illustrato in citazione.
Non si tratta di stabilire se la donna avesse potuto esercitare il suo diritto di interrompere la gravidanza, ma cosa la stessa avrebbe deciso ove fosse stata convenientemente informata sulle condizioni del nascituro (sempre che si sia sottoposta a visita prima dei 90 giorni dall’inizio della gravidanza)
È anche possibile l’allegazione di fattori ambientali, culturali, di storia personale idonei a dimostrare in modo certo che, pur informata, la donna avrebbe accettato di continuare la gravidanza
Non si deve, quindi, accertare se in lei si sia instaurato un processo patologico capace di evolvere in grave pericolo per la sua salute psichica, ma se la dovuta informazione sulle condizioni del feto avrebbe potuto determinare durante la gravidanza l’insorgere di un tale processo patologico. (Cass. 1.12.1998, n. 12195 e Cass. 10.5. 2002, n. 6735)
In termini generali, l’omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, deveono ritenersi circostanze idonee a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza” (Cass. 21 giugno 2004, n. 11488)
La sentenza evidenzia l’opportunità di “evitare di trasformare un giudizio risarcitorio (e la natura stessa della responsabilità civile) in una sorta di vicenda para-assicurativa ex post”, pur apparendo evidenti i riflessi negativi sui premi delle polizze assicurative per l’aumento del rischio collegato alla individuazione di nuovi soggetti potenziali danneggiati dalla omessa diagnosi di malformazione del feto.
5. Ulteriore problematica è costituita dai criteri risarcitori, su cui la sentenza non si sofferma particolarmente avendo rimesso alla Corte di appello, in sede di rinvio, la rivalutazione ex novo della fondatezza della richiesta risarcitoria sia della minore, sia dei suoi familiari
Poichè si versa in tema di inadempimento contrattuale, il danno, al cui risarcimento il debitore inadempiente è tenuto ex art. 1218 c.c., deve essere valutato secondo i criteri generali di cui agli artt. 1223, 1225 e 1227 c.c.
Se per danno si intende il pregiudizio subito dal creditore, allora è questo pregiudizio che occorre risarcire, secondo i principi della regolarità causale (art. 1223 c.c.) comprendendo non solo il danno alla salute in senso stretto ma anche il danno economico, che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del sanitario, in termini di causalità adeguata (Cass. n. 12195/1998).
Poichè si tratta di contratto di prestazione di opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito, che, per effetto dell’attività professionale dell’ostetrico – ginecologo diventa o non diventa padre (o diventa padre di un bambino anormale) il danno provocato da inadempimento del sanitario, costituisce una conseguenza immediata e diretta anche nei confronti del padre e, come tale è risarcibile a norma dell’art. 1223 c.c. (Cass. 4/1/2010, n. 13).
Poiché anche il padre del bambino malformato rientra tra i soggetti protetti dal contratto, la struttura sanitaria in caso di suo inadempimento è tenuta a risarcire i danni immediati e diretti subiti anche dal padre (Cass. 4/1/2010 n. 13), in quanto “qualora l’imperizia del medico impedisca alla donna di esercitare il proprio diritto all’aborto, e ciò determini un danno alla salute della madre, è ipotizzabile che da tale danno derivi un danno alla salute anche del marito” (Cass. 29 luglio 2004, n. 14488, Cass. 10 maggio 2002, n. 6735, Cass. 11 maggio 2009, n. 10741).
Il padre non ha titolo per intervenire sulla decisione di interrompere la gravidanza, ai sensi della L. 194 del 1978, ma diversa questione è quella relativa al danno che il padre del nascituro potrebbe subire, perchè altri hanno impedito alla madre di esercitare il diritto di interruzione della gravidanza, che essa (e solo essa) legittimamente poteva esercitare, mentre il padre è obbligato solidale al mantenimento, alla crescita ed alla protezione del nato non sano (Cass. 30 novembre 2011, n. 25559)
Quindi l’ inadempimento del medico o della struttura debitori della prestazione, sono suscettibili di ledere i diritti inviolabili della persona e, nel caso di nascita di persona handicappata, sia della gestante, sia del padre (che è giuridicamente obbligato, in via solidale con la madre, al mantenimento, alla crescita ed alla protezione del nato non sano), sia di eventuali altri figli, nonché anche del bambino nato malformato.
L’evento di danno, per quest’ultimo, è costituito dalla “individuazione di sintesi della “nascita malformata”, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente”.
Il danno non patrimoniale andrà liquidato, con equo apprezzamento del giudice, in via equitativa, auspicandosi una elaborazione di tabelle risarcitorie anche per tali danni, potendosi, allo stato, assumere quale parametro generale di riferimento le stesse tabelle del Tribunale di Milano, relative al danno alla salute per quanto concerne l’invalidità subita dal malformato e i criteri risarcitori del danno parentale, con una riduzione equitativa delle tabelle del 50%, non trattandosi di morte della persona cara ma di nascita di soggetto malformato.
Con riferimento al soggetto malformato il danno areddituale viene configurato quale danno futuro idoneo “alla riparazione di una condizione di pregiudizio per via di un risarcimento funzionale ad alleviarne sofferenze e infermità, talora prevalenti sul valore della vita stessa…, consentendo di alleviare, sul piano risarcitorio, la propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera estrinsecazione secondo gli auspici dal Costituente.
Il risarcimento ha la funzione, per la Cassazione, “di consentire al bambino malformato di poter vivere meno disagevolmente la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di rappresentante-rappresentato, ma di includente-incluso.
Una esistenza diversamente abile che trasforma il dolore in denaro “affinchè quella condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al minore una vita meno disagevole”.
A seguito dell’ampliamento dei soggetti legittimati al risarcimento dei danni occorre evitare, soprattutto con riferimento al danno patrimoniale, duplicazioni risarcitorie.
Se il danno patrimoniale viene riconosciuto a favore dei genitori o di uno solo di essi, obbligato al mantenimento, non potrà essere riconosciuto né agli eventuali fratelli, né allo stesso soggetto nato malformato.
Il danno patrimoniale deve tener conto del “differenziale” tra la spesa necessaria per il mantenimento di un figlio “sano” e la spesa per il mantenimento di un figlio affetto da deficit.
Una volta stabilito che la gestante avrebbe optato per la interruzione volontaria di gravidanza, l’inadempimento posto in essere dal medico e/o dalla ASL ha, comunque, fatto si che la coppia debba sopportare per intero un costo economico che altrimenti non avrebbe avuto.
È dubbio che, in tal caso, i genitori abbiano diritto all’intero costo del mantenimento in quanto l’obbligo di istruire, mantenere e educare i figli è posto esclusivamente a carico dei genitori e non può essere addossato a terzi, ancorchè la nascita del figlio sia ad essi imputabile.
Il danno patrimoniale, una volta riconosciuto a favore dei genitori, va liquidato fino al momento del raggiungimento della indipendenza economica che può essere individuata presuntivamente nella età di 28/30 anni.
Anche la persona nata con malformazioni congenite è legittimata a domandare il risarcimento del danno patrimoniale nei confronti del medico che non ha colposamente diagnosticato alla madre tale malformazione, ma da tale epoca in poi.
Tale danno va riconosciuto, quindi, dal 28/30anno, epoca in cui si presume che il soggetto potrà ragionevolmente entrare nel mondo del lavoro, con una ridotta autonomia lavorativa e pregiudizi nello svolgimento della attività e nelle prospettive di carriera, considerando anche la presumibile epoca di sopravvivenza relativa alla patologia (che per un Dawn è, ad esempio, di circa 60 anni, per un talassemico va da 40 a 50 anni).