Missioni militari all’estero: ampliate le possibilità di utilizzare le armi
La legge 29 dicembre 2009 n. 197 di conversione, con modificazioni, del decreto legge 4 novembre 2009, n. 152 recante “disposizioni urgenti per la proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonche’ delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia”, ha introdotto una norma penale di favore ovvero una nuova esimente la quale, in particolare, sancisce la non punibilità del personale militare “che, nel corso delle missioni …, in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio ovvero agli ordini legittimamente impartiti, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi, della forza o di altro mezzo di coazione fisica, per le necessità delle operazioni militari”. E’ di pochi giorni addietro, inoltre, la scoperta che la disposizione de qua si applica altresì “alle missioni militari per il sisma di Haiti del 12 gennaio 2010”.
Come già osservato da attenta dottrina trattasi di un intervento normativo di dubbia costituzionalità poiché “qui addirittura l’esimente finisce per poggiare non tanto sugli ordini legittimamente impartiti … ma addirittura su meri atti/provvedimenti amministrativi, quali le direttive militari e le regole di ingaggio”.
In altra sede si era tentato di dimostrare come le regole di ingaggio (R.O.E.), alla luce dei dati positivi in materia, fossero in realtà ordini gerarchici adottati dal Ministro della Difesa in sede di attuazione “delle deliberazioni in materia di difesa e sicurezza adottate dal Governo, sottoposte all’esame del Consiglio Supremo di difesa e approvate dal Parlamento”, con la conseguenza che le medesime non potessero che “doppiare” quanto a contenuto – in materia di utilizzo delle armi – le cause di giustificazione già contemplate dalla legislazione penale comune e militare, non potendosi escludere peraltro, la possibilità, per il giudice penale, di una disapplicazione in malam partem di quelle direttive concernenti l’uso della forza “eccedenti” i limiti contemplati dalle esimenti tipizzate.
Con la disposizione in parola, invece, si assiste ad una “metamorfosi” concernente la natura giuridica delle R.O.E.: non più ordini amministrativi concernenti la misura di utilizzo degli armamenti individuali o comunque della forza da parte degli appartenenti alle Forze Armate (con tutti i limiti legali e codicistici paventabili), bensì precetti integrativi di una norma penale di favore “in bianco” nella quale si incorporano. E ciò con una crticità.
Avendo concepito il legislatore del 2009 una norma penale di favore in bianco – e non una norma penale incriminatrice in bianco – non potrà predicarsi l’incostituzionalità della medesima alla luce dei principi di riserva di legge, precisione, determinatezza e tassatività valevoli nel sistema penalistico. Anzi, la Corte Costituzionale investita più volte della legittimità di disposizioni penali a favore dell’agente[8], ha risposto dichiarando la questione inammissibile per difetto di rilevanza poiché l’eventuale pronunzia di incostituzionalità non avrebbe prodotto effetti sul giudizio a quo, ciò perchè la disciplina penale più sfavorevole conseguente alla decisione di accoglimento della Consulta non potrebbe trovare applicazione nel caso concreto in virtù del principio di irretroattività ex art. 25 Cost. ed ex art. 2, comma 1, c.p.
In ogni caso, la dichiarazione di incostituzionalità potrebbe spiegare effetti sulla punibilità di condotte future – se sussumibili nella disposizione oramai espunta – ma non anche per quelle poste in essere prima della dichiarazione di illegittimità della norma scriminante e ciò in applicazione, ancora, del principio di irretroattività.
Dunque, il legislatore ha in sostanza delineato una sorta di “zona franca” per gli appartenenti alle Forze Armate poiché quelle condotte criminose ritenute giustificate dalla scriminante in argomento, vedranno comunque consolidata – anche in caso di declaratoria di incostituzionalità della causa di giustificazione de qua – la non punibilità del militare agente.
Ma v’è molto di più.
In atri termini, potrebbe essere offerta una interpretazione della scriminante secondo cui sarebbe autorizzato l’uso della forza da parte della compagine militare anche in eccedenza rispetto a regole di ingaggio in origine conformi – per ipotesi – alle esimenti codificate, ogni qualvolta “le necessità delle operazioni militari” lo richiedano.
Pertanto, sarebbe l’ultimo inciso dell’art. 4, comma 1 sexies – laddove si paventa un utilizzo giustificato delle armi, della coazione fisica e della forza, funzionale a non meglio specificate necessità delle operazioni militari – che fonderebbe una sorta di regola di ingaggio ad ampio spettro e per di più di fonte legislativa.
Al riguardo deve essere evidenziato che siffatta impostazione non sarebbe estranea allo stesso codice penale militare di pace il quale prevede all’art. 44, rubricato “Casi particolari di necessità militare”, l’esimente secono cui “Non è punibile il militare, che ha commesso un fatto costituente reato, per esservi stato costretto della necessità di impedire l’ammutinamento, la rivolta, il saccheggio, la devastazione, o comunque fatti tali da compromettere la sicurezza del posto, della nave o dell’aeromobile”: la nuova scriminante, allora, allargherebbe l’impunità a qualunque utilizzo delle armi in funzione di ogni necessità imposta dalle operazioni militari fuori area.
Il tutto, sempre con la criticità sopra rammentata e concernente gli effetti “limitati” al futuro di una declaratoria di incostituzionalità.
In passato si era sostenuta, ad altri fini, l’applicabilità dell’art. 54 c.p. (stato di necessità) ai militari impegnati in missioni internazionali e nonostante il comma secondo del precetto da ultimo citato escludente dall’ambito applicativo della esimente i soggetti aventi “un dovere particolare di esporsi a pericolo”; oggi il legislatore sembra aver “”unificato”, ma per finalità “offensive”, due cause di giustificazione ovvero quella sull’utilizzo legittimo delle armi e quella sullo stato di necessità. Il ricorso alla forza, alla coazione fisica ed alle armi si giustifica, a ben vedere, nella misura in cui tali strumenti appaiono funzionali alle necessità dell’operazione militare le quali, ovviamente, appaiono di problematica delimitazione.
Basti pensare ad una operazione nella quale gli ordini provengano da una catena di comando e controllo sovranazionale e magari ispirata alla dottrina della cosiddetta guerra preventiva: quali saranno in tal caso le “necessità” dell’operazione militare legittimanti l’uso della forza?
Il passo dall’utilizzo della forza militare individuale a quello della forza quale strumento di offesa ex art. 11 Cost. pare breve.
Insigni autori, però, hanno oramai celebrato il de profundis della guerra costituzionalmente contemplata: si legge negli atti parlamentari vertenti sulle proposte di legge recanti disposizioni per la partecipazione italiana a missioni internazionali che le norme costituzionali in parte qua sarebbero “ferrivecchi” del tutto inutilizzabili perché “ormai parliamo da anni di conflitti armati e abbiamo superato – così pare – il vecchio concetto di guerra internazionale”.
Il problema – in disparte la condivisibilità di simili assunti – sembra però essere (anche) un altro: non è tanto sul concetto di guerra, uso della forza armata e loro evoluzioni o surrogati (per come finemente argomentati) che deve soffermarsi l’attenzione, quanto sull’identità delle Forze Armate italiane e sul loro vincolo costituzionale ovvero quello di essere al servizio della Repubblica rectius delle istituzioni democratiche.
Se si elide tale vincolo, cadono evidentemente con esso anche i correlativi principi informatori compreso quello dell’utilizzo della forza militare per sole finalità difensive (appunto) della Patria: il problema, allora, è comprendere se l’incremento – a costituzione invariata – dei compiti “esterni” delle Forze Armate, ulteriori rispetto a quello principe “interno” di difesa dello Stato democratico fondato sulla Costituzione, possa essere considerato legittimo e “autorizzato” per effetto di quelle cessioni di sovranità pur costituzionalmente previste (art. 11 Cost.).
Ma, al riguardo, sembra opportuno rispondere secondo quella che risulta essere l’ottica dello stesso legislatore costituente il quale parrebbe aver voluto lasciare “l’ultima parola” al garante della Costituzione ovvero al Presidente della Repubblica, non a caso titolare del “comando delle Forze Armate” ex art. 87, comma 9, Cost. nonchè del potere di dichiarare lo stato di guerra deliberato, quasi a volersi ribadire che l’impiego governativo nonché parlamentare delle truppe possa in qualche modo essere oggetto da parte del Capo dello Stato – anche, ad esempio, in sede di promulgazione di leggi come quella oggetto del presente commento – di una “sanzione costituzionale”.
Fermo restando, a ben vedere, che l’ultimo guardiano della democrazia e delle istituzioni repubblicane – lo Stato istituzione fondato sulla Charta – è da identificarsi proprio nelle Forze Armate italiane il cui dovere assoluto di fedeltà ex art. 54 Cost. ed ex art. 4, comma 1, L. n. 382/1978 non è da escludere che, in casi estremi, possa legittimare un controllo diffuso di costituzionalità degli ordini ricevuti in ossequio al sacro ed irrinunciabile dovere di difesa della Patria.