Mobbing e comportamento dell’azienda Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 26.03.2010 n° 7382
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 26 marzo 2010, n. 7382
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
…omissis….
SVOGLIMENTO DEL PROCESSO
Con
ricorso de! gennaio 2001 la soc. **** conveniva in giudizio avanti al
Tribunale di Pinerolo il dipendente **** addetto allo stabilimento di
laterizi, per accertare la legittimità del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo (riduzione delia produzione) intimatogli
in data 14.2.2000.
Con ricorso dei 5.2.2001 **** conveniva in
giudizio avanti al Tribunale di Torino la società **** per
l’accertamento della nullità del predetto licenziamento e la condanna
della società al risarcimento del danno biologico subito per violazione
dell’art. 2087 c.c. ( mobbing).
Il Tribunale di Pinerolo,
dichiarata la connessione tra le due cause, rimetteva le parti avanti
al Tribunale di Torino, il quale però, riuniti i due procedimenti,
dichiarava la propria incompetenza per territorio in favore del
Tribunale di Pinerolo.
Riassunta la causa davanti al Tribunale
di Pinerolo, la società chiedeva di essere autorizzata a chiamare in
causa a garanzia la **** con la quale aveva stipulato una polizza per
l’assicurazione della responsabilità civile cui fosse tenuta nei
confronti dei dipendenti in seguito ad infortuni sul lavoro. La
compagnia di assicurazioni si costituiva e chiedeva il rigetto della
domanda di manleva, contestandone il fondamento.
Il Tribunale di
Pinerolo, espletata l’istruzione, con sentenza del 20.7.2004 dichiarava
l’illegittimità del licenziamento; condannava la **** a riassumere il
lavoratore o, in mancanza, a risarcirgli i danni patrimoniali e non
patrimoniali patiti fino al 28.12.2000; condannava la **** a tenere
indenne la **** di quanto questa fosse chiamata a pagare al **** a
titolo di danno biologico nei limiti del massimale.
La ****
proponeva impugnazione chiedendo il rigetto di tutte le domande
avanzate dal dipendente. La **** proponeva appello incidentale
chiedendo di essere assolta dalla domanda di manleva.
La Corte
di Appello di Torino, con sentenza depositata il 20.6.2006, respingeva
l’appello principale della **** e, in accoglimento dell’appello
incidentale della **** rigettava la domanda di manleva.
Per la
cassazione di tale sentenza la società **** ha proposto ricorso con
quattro motivi. **** e **** hanno resistito con controricorso. Le
società **** e **** hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con
il primo motivo di ricorso la società **** denuncia violazione
dell’art. 2087 c.c. e vizi di motivazione e censura la sentenza
impugnata per aver ravvisato un grave inadempimento contrattuale da
pale del datore di lavoro ed una situazione di “mobbing” ai danni del
**** produttiva di danni alia persona. Sostiene la ricorrente che la
Corte territoriale non ha chiarito cosa debba intendersi per mobbing né
ha chiarito quali sono state le concrete violazioni asseritamente poste
in essere dalla **** ai danni del **** e riconducibili a tale figura di
inadempimento contrattuale.
Con il secondo motivo, denunciando
omessa e contraddittoria motivazione, la ricorrente sostiene che la
Corte territoriale non ha assolutamente spiegato quali sono i ripetuti
comportamenti di mobbing posti in essere dai datore di lavoro, né da
quali elementi probatori abbia tratto il convincimento di un intento
persecutorio della società. Non costituiscono infatti comportamenti
illeciti né il rimprovero subito nel 1996 da parte del direttore dello
stabilimento per una errata manovra, né la saltuaria assegnazione del
**** ai forni dello stabilimento di laterizi; la Corte peraltro non
poteva ignorare i favori ricevuti dal **** dall’azienda, quali la
concessione in comodato gratuito di un appartamento e di un locale
adibito dal lavoratore a falegnameria, né il comportamento del
lavoratore che si rifiutava di svolgere i compiti a lui non graditi.
Con
il terzo motivo la società denuncia violazione dell’art. 3 della legge
n. 604/1966 e vizi di motivazione e censura la sentenza impugnata per
aver escluso l’esistenza del giustificato motivo oggettivo di
licenziamento invocato dal datore di lavoro e l’impossibilità di
adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe. Sostiene
la ricorrente di aver provato in giudizio sia l’esigenza di riassetto
organizzativo atto a fronteggiare il perdurante andamento negativo del
mercato, sia l’impossibilità di adibire il **** a mansioni equivalenti.
Tali prove, non valutate dalla Corte torinese, sono date dai bilancio
dell’anno 1999, dal quale risulta una consistente perdita di esercizio,
e dai libro matricola, da! quale sì ricava che la società non ha
rinnovato i contratti di lavoro in scadenza e non ha assunto altri
dipendenti per sostituire i dimissionari, fino alla cessazione
dell’attività avvenuta nel 2005.
Con il quarto motivo di
ricorso, denunciando violazione del principio di corrispondenza tra il
chiesto e il pronunciato e violazione dell’art. 1917 c.c., nonché
omessa motivazione, la società censura la sentenza impugnata nella
parte in cui ha qualificato come “doloso” il comportamento del suo
legale rappresentante ed ha escluso l’applicabilità del contratto di
assicurazione per i danni per malattia professionale e biologici subiti
dai dipendenti, respingendo la domanda di manleva avanzata nei
confronti della ****. Osserva la ricorrente che il **** aveva lamentato
un comportamento persecutorio tenuto, non già dal legale rappresentante
della società, bensì dal direttore dello stabilimento, sicché nel corso
dei due giudizi di merito il comportamento del legale rappresentante
non era mai venuto in considerazione. Rileva altresì che la Corte
territoriale non ha affatto spiegato sulla base di quali elementi
probatori abbia tratto il convincimento del “dolo” del legale
rappresentante. Rileva che a norma del’art. 1917 c.c. la garanzia
assicurativa si estende anche ai danni recati dall’assicurato a terzi
per fatto colposo.
I primi due motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.
Questa
Corte ha già avuto modo di precisare che per “mobbing”, riconducibile
alla violazione degli obblighi derivanti al datore di lavoro dall’art.
2087 c.c., deve intendersi una condotta nei confronti del lavoratore
tenuta dal datore di lavoro, o del dirigente, protratta nel tempo e
consistente in reitera comportamenti ostili che assumono la forma di
discriminazione o di persecuzione psicologica da cui consegue la
mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente nell’ambiente dì
lavoro, con effetti lesivi dell’equilibrio fisiopsichico e della
personalità del medesimo. E’ stato quindi precisato che ai fini delia
configurabilità delia condotta lesiva del datore di lavoro sono
rilevanti : a) la molteplicità di comportamenti di carattere
persecutorio posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il
dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o
della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la
condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all’integrità
psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè
dell’intento persecutorio. E’ stato infine ritenuto che la valutazione
degli elementi di fatto emersi nel corso de! giudizio, ai fini
dell’accertamento della sussistenza del mobbing e della derivazione
causale da detto comportamento illecito del datore di lavoro di danni
alta salute del lavoratore, costituisce apprezzamento di fatto
riservato in via esclusiva al giudice di merito e non censurabile in
sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivato (cfr.
Cass. n. 3785/2009, n. 22893/2008, n. 22858/2008).
Nella specie
la Corte territoriale ha tenuto correttamente presentì gli elementi
costitutivi della figura dei “mobbing”, come delineati dalla
giurisprudenza, né dal motivo di ricorso è dato comprendere sotto quale
profilo il giudizio della Corte si sia allontanato dalla fattispecie
astratta delineata dall’elaborazione giurisprudenziale, sicché la
censura di violazione dell’art. 2087 c.c., si rivela destituita di
fondamento.
Quanto poi al concreto apprezzamento dei fatti
emersi nel corso del giudizio, va osservato che la Corte territoriale
ha dato compiuta ragione della sua decisione partendo da un attento
esame dì tutte le testimonianze raccolte, valutate sia nel loro
complesso che singolarmente. Il giudice di appello, sulla scorta delle
varie testimonianze, è pervenuto al convincimento che il **** a partire
dal 1995, fu preso di mira dal **** direttore dello stabilimento **** e
fatto oggetto di continui insulti e rimproveri, umiliato e
ridicolizzato avanti ai colleghi di lavoro, adibito sempre più spesso
ai lavori più gravosi (addetto ai forni) rispetto a quelli svolti in
passato (addetto alla pulizia degli uffici), nella indifferenza,
tolleranza e complicità del legale rappresentate della società. In
questa complessiva valutazione negativa del comportamento datoriale non
ha inciso in senso limitativo o riduttivo la circostanza, non ignorata
dal giudice di appello, che al **** dalla società fosse stato concesso
in comodato un appartamento. In definitiva deve ritenersi che la Corte
di Appello abbia correttamente valutato tutti gli elementi probatori
acquisiti ed abbia motivato in modo ampio e privo di contraddizioni e
vizi logici il proprio giudizio, con ia conseguenza che le valutazioni
del giudice di appello, risolvendosi in apprezzamenti di fatto, non
sono suscettibili di riesame in sede di legittimità.
Infondato è
anche il terzo motivo di ricorso. La Corte di Appello ha osservato che
la società non aveva provato ta riduzione della produzione ed il
riassetto organizzativo che aveva posto a base del licenziamento del
****.
Ha rilevato, anzi, che le testimonianze raccolte
inducevano a ritenere che nell’anno del licenziamento la crisi del
settore edilizio era ormai superata, tanto che la società aveva assunto
un altro operaio da adibire ai forni. Ma soprattutto il giudice di
appello ha rilevato che la società non aveva in alcun modo provato di
non poter utilizzare il **** all’interno dell’azienda in mansioni
equivalenti, tenuto conto in particolare del fatto che il lavoratore,
come riferito dai testi, era in grado di lavorare su tutte le macchine
di produzione e di svolgere anche lavori di manutenzione degli
impianti. Il mancato assolvimento dell’obbligo di repéchage, in ordine
al quale la società non deduce specifiche censure, costituisce autonoma
ragione di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo ed è di per sé sufficiente a giustificare la conferma della
pronuncia dei giudici di merito.
Infondato, infine, è anche il quarto motivo di ricorso.
La
società lamenta in primo luogo che il giudice di appello avrebbe
qualificato come “doloso” il comportamento del legale rappresentante
benché il **** non avesse mai allegato e provato un siffatto
atteggiamento psicologico del datore di lavoro. La censura è priva di
fondamento ove si consideri che nella specie si discute del rapporto
assicurativo intercorso tra la **** e la **** per cui non ha senso
lamentare una violazione del principio di corrispondenza ex art. 112
c.p.c. con riferimento ad una domanda di accertamento della
illegittimità dei licenziamento e di risarcimento danni posta da altro
soggetto in relazione a diverso rapporto giuridico.
La società
lamenta in secondo luogo che il giudice di appello ha erroneamente
escluso la garanzia assicurativa benché mancasse del tutto la prova che
l’evento dannoso fosse conseguenza del comportamento doloso del
rappresentante della società. La censura è priva di fondamento, Nella
specie, come si evince dalla clausola contrattuale trascritta in
memoria dalla compagnia, si tratta di polizza di assicurazione per la
responsabilità civile della società verso i propri dipendenti per
infortuni sul lavoro derivanti da fatti commessi dall’assicurato o da
suoi dipendenti.
Trattasi dunque di contratto di assicurazione
stipulato a norma dell’art. 1917 c.c., per il quale opera la
disposizione di cui al primo comma della norma citata, secondo cui
dalla copertura assicurativa “sono esclusi i danni derivanti da fatti
dolosi”. A quest’ultima disposizione ha fatto espresso riferimento la
Corte di Appello per respingere la domanda di garanzia avanzata dalla
**** nei confronti della ****.
La Corte territoriale ha rilevato
che dal materiale probatorio emergeva incontestabilmente anche il dolo
del sig. **** amministratore unico della società omonima. A giudizio
della Corte, che ha richiamato le testimonianze di tali **** è
risultato provato che lo stesso **** fu sempre consapevole dei
comportamenti aggressivi e vessatori tenuti dal **** nei confronti del
**** e che tollerò e assecondò detti comportamenti senza far nulla per
farli cessare, così accettando consapevolmente il rischio che da tali
comportamenti illeciti potessero derivare conseguenze dannose a carico
dei dipendenti. Questa valutazione delle suddette testimonianze non ha
formato oggetto di alcuna censura da parte dell’attuale ricorrente
sotto il profilo di eventuali vizi logici o incongruenze del
ragionamento del giudice, essendosi limitato il ricorrente a lamentare
la mancanza dì prove dei dolo, in insostenibile contrasto con quanto
affermato nella sentenza impugnata.
In conclusione, il ricorso
deve essere respinto con conseguente condanna della **** al pagamento
in favore di **** e della **** delle spese dei giudizio di cassazione,
liquidate come in dispositivo. Delle spese liquidate in favore del sig.
**** va disposta la distrazione all’avv. **** che si è dichiarato
anticipatario.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente ai pagamento delle spese
del presente giudizio, liquidate in € 45,00 per esborsi ed in € tremila
per onorari in favore di ciascuna parte resistente, con distrazione in
favore dell’avv. **** delle spese liquidate al resistente.
Così deciso in Roma il 3 febbraio.
Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2010.
Se l’azienda tollera e asseconda il
comportamento del direttore dello stabilimento che, prendendo di mira
un dipendente, lo umilia e lo colpevolizza con continui “insulti e
rimproveri” davanti ai colleghi, è tenuta al risarcimento del danno da
mobbing.
E’ quanto ha precisatola Suprema Corte
che, intervenendo nuovamente nell’annosa questione del risarcimento del
danno da mobbing, con la sentenza 7382/2010, ha stabilito che “ha
diritto al risarcimento del danno da parte dell’azienda il prestatore
di lavoro che viene preso di mira e ridicolizzato da un capo davanti ai
propri colleghi”.
I giudici di
legittimità hanno, infatti, respinto il ricorso di una azienda che non
aveva provveduto alla tutela di un proprio dipendente che spesso veniva
ridicolizzato dal capo dello stabilimento, e veniva, altresì, adibito a
lavori molto gravosi rispetto a quelli svolti in passato, nella totale indifferenza e complicità del rappresentante legale della società”.
La vicenda
In seguito al licenziamento il “mobbizzato” citava in causa l’azienda, e sia il giudice di primo grado chela Corte d’Appello accordavano all’uomo il risarcimento del danno e la reintegrazione nel posto di lavoro.
La
questione si spostava dinanzi alla Corte di Cassazione dopo il ricorso
fatto dall’azienda, ma, anche qua, senza alcun successo, in quanto,
anche i giudici della Corte respingevano il ricorso, precisando,
inoltre, i parametri per accordare un risarcimento per mobbing.
Nella sentenza in commento si legge, infatti, testualmente che “per
mobbing riconducibile alla violazione degli obblighi derivanti al
datore di lavoro dall’articolo 2087 c.c. deve intendersi una condotta
nei confronti del lavoratore tenuta dal datore di lavoro, o dei
dirigenti, protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti
ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione
psicologica da cui consegue la mortificazione morale e l’emarginazione
del dipendente nell’ambiente di lavoro, con effetti lesivi
dell’equilibrio fisiopschico e della personalità del medesimo”.
“Quindi, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti :
a)
la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio posti in
essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con
intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all’integrità psicofisica dei lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”.
Nel
caso di specie, secondo le considerazioni svolte dalla Corte il
“comportamento tenuto dal capo dello stabilimento costituisce
sicuramente mobbing del quale si deve considerare responsabile
anche l’impresa che ha accettato consapevolmente il rischio che da tali
comportamenti illeciti potessero derivare conseguenze dannose a carico
dei dipendenti”.
Con la decisione in commento, quindi,la Suprema Corte
si è pronunciata riguardo alla compartecipazione alla colpa
dell’azienda in caso di comportamenti c.d. mobbizzanti di un
responsabile nei confronti di un subalterno, riconoscendo la
“colpevolezza dell’azienda” che non si è operata al fine di evitare che
un proprio dirigente interrompesse comportamenti ridicolizzanti e
vessatori nei confronti di un dipendente, addirittura fino a giungere
al licenziamento dello stesso.