Mobbing nel pubbico impiego: presupposti e riparto di giurisdizione
Il reiterarsi di una serie di episodi qualificabili come vessatori e prolungatisi nel tempo da parte di un superiore gerarchico, con conseguenze pregiudizievoli sul dipendente, in presenza di un comportamento omissivo della Pubblica Amministrazione, tale da comportare un lassismo e un’assoluta mancanza di controllo, concretizzano un fenomeno di mobbing, dando diritto al risarcimento biologico, professionale o esistenziale subito. A queste conclusioni è giunto il TAR per l’Abruzzo, Pescara, sezione I, nella sentenza 23 marzo 2007 n. 339. La vicenda ha visto coinvolto un Assistente di Polizia penitenziaria, rappresentante sindacale all’interno di un carcere, che si è ritenuto vittima di una serie di vessazioni – costituenti nel loro insieme mobbing – da parte di alcuni dipendenti che rivestivano ruoli superiori, essendo Ispettori o addirittura Direttori, esponenti di altri sindacati. In particolare, vi erano stati da parte di questi ultimi una serie di contestazioni nei confronti dell’Assistente, alcuni di natura disciplinare, conclusi con successiva archiviazione. L’interessato, caduto in una profonda depressione per il clima lavorativo avverso, che aveva nei suoi confronti prodotto un grave isolamento, per cui ha dovuto far ricorso anche a delle cure psichiatriche, avanzava richiesta di danno all’Amministrazione e dopo il respingimento della stessa proponeva ricorso al TAR. Investito della questione, il Collegio affronta dapprima la problematica del riparto di giurisdizione, atteso che la questione riguarda la polizia penitenziaria, è rientrante nel pubblico impiego non privatizzato. Il TAR, richiamando un indirizzo giurisprudenziale maggioritario (Cass. Civ. SS.UU., 22.5.2002, n.7470; 27.2.2002, n.2882; 29.1.2002, n.1147; TAR Liguria, Genova, sez.I, 12.3.2003; TAR Lazio, sez. III bis, 25.6.2004, n.6254) ritiene che al fine di individuare il giudice competente è determinante la qualificazione giuridica, contrattuale o extracontrattuale, dell’azione di responsabilità fatta valere in giudizio. Pertanto, secondo questo orientamento, è competente il giudice ordinario, quando l’azione del risarcimento del danno al dipendente è fondata sulla responsabilità extracontrattuale della Pubblica Amministrazione, come nella richiesta del danno biologico per lesione attinente all’integrità psico-fisica che derivi dalla situazione di disagio e dal comportamento di superiori (Corte Cost. 14.7.1986, n.184); è competente, invece, il giudice amministrativo, quando la domanda risarcitoria scaturisce da una violazione del rapporto contrattuale, essendo fondata sull’inadempimento da parte del datore di lavoro pubblico di obblighi relativi al rapporto di impiego, tra cui anche la violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione, posti in essere con un comportamento omissivo o commissivo, venendo meno all’obbligo specifico, di cui all’art. 2087 c.c., che vincola il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e morale del lavoratore. Il giudice amministrativo è competente, altresì, in alcuni casi particolari, quando sussiste il cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, e in tema di mobbing, possono ricorrere particolari condizioni “ove il rapporto di lavoro non ha costituito la mera occasione per la condotta vessatoria ed ostile di colleghi o superiori gerarchici, ma ha visto anche la configurazione di una culpa in vigilando da parte dell’amministrazione, che, consapevole di tale condotta, nulla ha posto in essere perché cessasse il lamentato atteggiamento di ostilità”. Premessa questa differenziazione processuale, il TAR, tenuto conto delle varie pronunce giurisprudenziali, ha sostenuto che sussiste il mobbing – definito quel “complesso di atteggiamenti illeciti posti in essere nell’ambiente di lavoro nei confronti di un dipendente e che si risolvono in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di violenza morale o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire l’isolamento e la emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità” – in presenza delle suddette condizioni: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamene sistematico e prolungato contro il dipendente, in guisa tale da disvelare un intento vessatorio; b) l’evento lesivo alla salute e alla personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del mobber e il pregiudizio alla integrità psico-fisica; d) la dimostrazione dell’elemento soggettivo. Nel caso di specie, provata la sussistenza del primo elemento, ammesso in parte dalla stessa Amministrazione, che ha affermato di conoscere la situazione di conflittualità tra i Ispettori e agente interessato, provato l’evento lesivo della depressione e il nesso eziologico, in quanto prima di subire tali atteggiamenti vessatori non accusava tali disturbi, rimaneva la dimostrazione dell’elemento soggettivo. Al riguardo, il Collegio ha fatto rilevare che concorrendo la responsabilità contrattuale con quella extracontrattuale, “sul piano processuale si rende applicabile la disciplina dell’onere probatorio più agevole per il ricorrente, ossia quello contrattuale, e quindi ai sensi dell’art. 2087 c.c., che è la norma più confacente alle ipotesi di mobbing, in quanto trasferisce in ambito contrattuale il più generale principio del neminem laedere, ripartendo l’onere della prova, grava sul datore di lavoro l’onere di aver ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore, che, esentato dall’onere di provare il dolo o la colpa del datore di lavoro, è tenuto solo a provare la lesione dell’integrità psicofisica ed il rapporto causale tra il comportamento datoriale e il pregiudizio alla salute (Trib. Tempio Pausania, 10.7.2003, n.157)”. Atteso che l’Amministrazione non ha fornito alcuna prova di aver posto in essere tutte le misure necessarie alla tutela dell’integrità pisico-fisica del lavoratore, ma anzi, il Direttore del carcere non richiamando gli Ispettori ad un senso di maggiore imparzialità e obiettività nell’esercizio del potere gerarchico e ad una visione più serena del rapporto con il ricorrente, ha omesso un intervento doveroso, in violazione dei principi di buona fede e correttezza nella gestione dei rapporti di lavoro, nonché violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione (siffatto comportamento omissivo, che rileva ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo in testa all’Amministrazione di appartenenza, va considerato tenuto conto del disposto combinato di cui agli artt. 2087, 1218 e 1228 c.c. e di cui all’art.2049 c.c. per quanto concerne la responsabilità extracontrattuale), sulla base delle predette argomentazioni il Tar ha deciso di accogliere il ricorso. Gesuele Bellini