Mobilità del lavoratore: sì se previsto dal contratto collettivo e con solita qualifica
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 24 novembre 2006, n. 25033
(Presidente Carbone – Relatore Amoroso – Pm Iannelli)
Svolgimento del processo
1. Con ricorso ex articolo 414 c.p.c. O.R. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Brescia, quale giudice del lavoro, la società Poste Italiane Spa, sua datrice di lavoro, esponendo: a) di essere stata assunta dapprima con contratto di formazione e lavoro, in data 12 aprile 1996, e successivamente con contratto a tempo indeterminato in data 10 ottobre 1997, con inquadramento nell’Area operativa; b) di aver svolto con continuità mansioni di addetta allo sportello; e) di essere stata assegnata a decorrere dal dicembre del 1998 a mansioni di recapito; d) che tale assegnazione costituiva un demansionamento rispetto alle mansioni in precedenza svolte, come tale vietato dall’articolo 2103 c.c.. Chiedeva pertanto che, accertata l’illegittimità dell’assegnazione alle mansioni di recapito, la società Poste Italiane fosse condannata alla reintegra nelle mansioni precedentemente svolte nonché al risarcimento del danno da dequalificazione, da liquidarsi in via equitativa.
2. Si costituiva in giudizio la società convenuta resistendo alla domanda della ricorrente, di cui chiedeva il rigetto. Con sentenza del 10 luglio 2001 il tribunale adito accoglieva parzialmente il ricorso, dichiarando illegittimo il provvedimento di assegnazione della dipendente a mansioni di recapito ed ordinando la reintegrazione della stessa nelle mansioni di addetta allo sportello. Rigettava invece la domanda volta al risarcimento del danno da dequalificazione.
3. Con ricorso in appello, tempestivamente depositato, la società Poste Italiane impugnava la sentenza di primo grado, chiedendone la totale riforma. L’appellata O. proponeva a sua volta appello incidentale avverso la medesima pronuncia nella parte in cui non aveva accolto la domanda risarcitoria.
Con sentenza del 10 ottobre 29 novembre 2002 la Corte di Appello di Brescia, previa riunione dei due giudizi di appello, riformava integralmente la decisone del giudice di primo grado, rigettando il ricorso e compensando tra le parti le spese del giudizio. In particolare la Corte territoriale ha rilevato che la O. è stata assunta per lo svolgimento di mansioni rientranti nell’Area operativa, cui appartenevano sia quelle di sportello che quelle di recapito ed in relazione alle quali la contrattazione collettiva prevedeva, con apposita clausola di fungibilità, l’intercambiabilità delle mansioni; né tale clausola di fungibilità poteva ritenersi contrastante con il disposto dell’articolo 2103 c.c..
4. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione la ricorrente con un unico motivo illustrato anche da successiva memoria.
Resiste con controricorso la società intimata.
La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite perché presenta una questione di massima di particolare importanza ex articolo 374, comma 2, c.p.c..
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia da una parte la violazione degli articoli 2103 e 1362 c.c., in connessione con gli articoli 43 e 46 del Ccnl 26 novembre 1994 per i dipendenti delle Poste Italiane, recante la clausola di fungibilità di mansioni equivalenti, e dell’accordo del 23 maggio 1995; menziona poi anche l’accordo territoriale del 20 marzo 1998 sull’alternanza di mansioni equivalenti. Ad avviso della ricorrente la clausola di fungibilità delle mansioni, prevista dalla menzionata contrattazione collettiva, sarebbe invalida stante il carattere assolutamente inderogabile del precetto posto dal comma 1 dell’articolo 2103 c.c.. In nessun caso sarebbe possibile alla contrattazione collettiva, perché non consentito dalla citata disposizione, prevedere la mobilità tra mansioni che esprimano una professionalità diversa da quella ormai acquisita dal lavoratore, ancorché rientranti nella medesima qualifica e segnatamente, nella specie, nell’Area operativa.
D’altra parte la ricorrente deduce il vizio di motivazione dell’impugnata sentenza. Sostiene che comunque la Corte d’appello avrebbe errato nel non rilevare la differenza esistente tra le mansioni di sportello, cui la dipendente era stata applicata all’atto dell’assunzione, e le mansioni di recapito, cui la stessa era stata assegnata in un periodo successivo con conseguente illegittima dequalificazione.
2. Il ricorso è infondato.
Deve premettersi che in punto di fatto è pacifico tra le parti che la ricorrente sia stata assunta prima (il 12 aprite 1996) con contratto di formazione e lavoro per l’acquisizione della qualifica di Area operativa prevista dalla vigente (all’epoca) contrattazione collettiva (articolo 43 Ccnl 26 novembre 1994 per i dipendenti delle Poste Italiane) e poi (il 10 ottobre 1997) con contratto definitivo a tempo indeterminato con inquadramento in tale area . La stessa inizialmente è stata assegnata a mansioni di sportello e successivamente (a partire dal 9 dicembre 1998) a mansioni di recapito. Più in particolare la Corte d’appello ha rilevato, in riferimento a tali mansioni assegnatele in successione di tempo, che la ricorrente si era “obbligata con la conclusione del contratto a svolgerle entrambe promiscuamente o in via alternativa” come mansioni di assunzione nella vigenza del Ccnl del 1994. Ed in esecuzione di tale previsione contrattuale all’atto dell’assunzione la ricorrente è stata inizialmente addetta a mansioni di sportello e, dopo alcuni mesi, “è stata inviata a un corso teorico organizzato per tutti i neo assunti con contratto di formazione e lavoro diretto all’insegnamento teorico e all’acquisizione delle nozioni tecniche per l’espletamento sia delle mansioni di s portello che delle mansioni di recapito”; si da maturare l’esperienza sufficiente per svolgere le une e le altre mansioni. Poi è stata avviata a corsi di approfondimento di una giornata organizzati solo per sportellisti in tirocinio o già assunti definitivamente. infine dopo che in data 20 marzo 1998 era stato stipulato un accordo sindacale di sede (ossia territoriale) riguardante appunto, per i nuovi assunti, specificamente la fungibilità tra le mansioni di recapito e quelle di sportello secondo un “meccanismo di scambio automatico” (id est: avvicendamento o turnazione), come riferisce la stessa ricorrente in ricorso la O. è stata assegnata dal 9 dicembre 1998 a mansioni di recapito.
Entrambe queste mansioni rientrano (o meglio, rientravano) nella stessa qualifica, ossia nella declaratoria contrattuale dell’Area operativa che costituisce una qualifica tout court, seppur di ampio contenuto perché, con una definizione assai generale (articolo 43 Ccnl cit.), è destinata ad accorpare plurime mansioni. Nella specie si legge nell’impugnata sentenza il contratto individuale di lavoro era stato stipulato “per l’espletamento in via alternativa, secondo le necessità aziendali, di mansioni diverse e fungibili, appartenenti ad una medesima qualifica professionale”.
La ricorrente però come già indicato deduce in generale che la clausola di fungibilità delle mansioni, prevista dalla contrattazione collettiva, urta con il precetto inderogabile dell’articolo 2103 c.c.; d’altra parte in particolare assume che lo svolgimento delle mansioni di addetta allo sportello esprime una professionalità specifica, diversa e più elevata di quella tipica delle mansioni di recapito e quindi ha lamentato un demansionamento vietato dall’articolo 2103 c.c,; sicché essa pone in sostanza una questione di diritto di carattere generale, cui si riferisce il denunciato vizio di violazione di legge, ed un’altra più specifica, relativa al caso di specie, cui si riferisce essenzialmente il dedotto vizio di motivazione.
3. La prima questione che si pone è se siano compatibili con il disposto dell’articolo 2103 c.c. applicabile, a partire dalla vigenza del primo contratto collettivo (26 novembre 1994), al rapporto di lavoro in questione dopo la sua privatizzazione con l’istituzione dell’ente Poste Italiane, successivamente trasformato in società per azioni (Cassazione, Sezioni Unite, 205/99) le clausole di fungibilità che in ipotesi la contrattazione collettiva, sia quella nazionale che quella integrativa territoriale, abbia previsto come in realtà ha previsto quella relativa al rapporto di lavoro dedotto in giudizio per innestare elementi di flessibilità nella mobilità orizzontale in azienda.
La Corte d’appello, muovendo dal rilievo che sia le mansioni di sportello che quelle di recapito appartengono entrambe all’Area operativa (perché rientranti nella declaratoria contrattuale dell’articolo 43 Ccnl 1994), ha considerato che la contrattazione collettiva dell’epoca (articolo 46 Ccnl cit.) prevedeva la loro “intercambiabilità” (con esclusione solo di quelle tecniche, ipotesi che nella specie non ricorre) “per necessità di servizio”, ponendo in rilievo come già notato che la conclusione del contratto individuale di lavoro era stata finalizzata all’espletamento vuoi delle mansioni di recapito vuoi di quelle di sportello, entrambe rientranti tra quelle dell’Area operativa.
Il problema che si pone all’esame delle Sezioni Unite, investite dalla Sezione lavoro con ordinanza 22915/05 per essere questa una questione di massima di particolare importanza al sensi dell’articolo 374, comma 2, c.p.c., è se la “clausola di fungibilità” così denominata dalla Corte di Appello ed espressa dal cit. articolo 46 Ccnl (ma anche, più specificamente, dal citato accordo di sede) sia compatibile, o meno, con il precetto inderogabile posto dal comma 1 dell’articolo 2103 c.c. e quindi se risulti, o no, inficiata dalla sanzione di nullità comminata dal comma 2 di tale disposizione.
4. Orbene la prima considerazione da fare è che il parametro di validità della clausola collettiva di fungibilità è costituito, per quanto rileva in questa causa, dal citato comma 1 dell’articolo 2103 c.c. che disciplina lo jus variandi del datore di lavoro nell’assegnazione delle mansioni relative alle qualifiche contrattuali ovvero alle categorie legali. Ed infatti, oltre alle categorie legali contemplate dall’articolo 2095 c.c., cui si raccordano discipline legali specifiche, e nel rispetto delle stesse, la contrattazione collettiva, nell’esercizio della sua autonomia, può prevedere il sistema di classificazione del personale articolandolo in plurime qualifiche secondo l’apprezzamento discrezionale delle parti sociali.
È quindi ben possibile che il contratto collettivo accorpi nella stessa qualifica mansioni diverse che esprimono distinte professionalità; l’articolo 96, comma 2, disp. att. c.c. che opera sullo stesso piano di quello dell’articolo 2103 c.c. contempla espressamente la possibilità che le qualifiche del prestatore di lavoro, nell’ambito di ciascuna categoria legale, possano essere raggruppate per “gradi” secondo l’importanza e l’ordinamento dell’impresa. Nulla esclude che queste professionalità costituiscano lo sbocco di percorsi formativi distinti, in ipotesi anche di livello diverso. L’equivalenza contrattuale sta a significare che la disciplina collettiva che fa riferimento alla qualifica si applica di norma a tutte tali mansioni così accorpate, ancorché espressione di diverse professionalità.
Una volta poi assegnate le mansioni al lavoratore, questo esprime nel loro espletamento una professionalità ormai individualizzata, destinata ad arricchirsi progressivamente con l’esperienza (cfr. articolo 1, comma 1 lettera f) D.Lgs 152/97, che prescrive che il datore di lavoro pubblico e privato è tenuto a fornire al lavoratore, entro trenta giorni dalla data dell’assunzione, l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuitigli oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro).
5. Orbene prendendo in esame innanzi tutto il comma 1 dell’articolo 2103 c.c., sostituito dall’articolo 13 legge 300/70 (Statuto dei lavoratori), che prevede che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione deve considerarsi che si tratta di una speciale norma di protezione del lavoratore per preservarlo dai “danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all’interno o all’esterno dell’azienda” (Corte costituzionale 113/04); compromissione costituita appunto dal demansionamento che può ridondare in comportamento discriminatorio. La valenza costituzionale del bene protetto da tale disposizione, in comparazione con altre prerogative del lavoratore di pari rilievo, ha portato recentemente alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’articolo 2751bis, n. 1, c.c., nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell’illegittimo comportamento del datore di lavoro (Corte costituzionale 113/04, cit.).
Ma anche in precedenza la Corte costituzionale (108/89) ha posto in rilievo che “per quanto riguarda le mansioni, l’ali. 2103 c.c. ( … ) prevede l’obbligo del datore di lavoro di destinare il lavoratore alle mansioni per cui lo ha assunto o a mansioni equivalenti, senza, però, diminuzione di retribuzione, o alla categoria superiore successivamente acquisita”. “Sicché ha aggiunto la Corte può affermarsi che nella determinazione delle mansioni e dei conseguenti livelli retributivi, l’autonomia del datore di lavoro, cui spetta l’organizzazione dell’azienda, è fortemente limitata dal potere collettivo, ossia dai contratti collettivi e dai contratti aziendali”.
Quale norma di protezione, l’articolo 2103 c.c. regolamenta l’esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro che vede il lavoratore in una posizione di soggezione conseguente al carattere subordinato del rapporto di lavoro; da ciò la necessità di bilanciare questo potere direttivo con l’approntamento di una garanzia finalizzata da ultimo alla tutela della dignità del lavoratore; cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 7755/98, in tema di demansionamento eccezionalmente compatibile con l’articolo 2103 c.c., che ha rimarcato la “necessità di bilanciare la tutela degli interessi, costituzionalmente rilevanti (articolo 4, 32, 36), del prestatore con la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore”. Il demansionamento può infatti atteggiarsi a comportamento discriminatorio e avverte in proposito Corte costituzionale 108/89, appena cit. “la dignità sociale del lavoratore è tutelata contro discriminazioni che riguardano non solo l’area dei diritti di libertà e l’attività sindacale finalizzata all’obiettivo strumentale dell’autotutela degli interessi collettivi, ma anche l’area dei diritti di libertà finalizzati allo sviluppo della personalità morale e civile del lavoratore”; anche Corte costituzionale 359/03 con riferimento al mobbing che secondo la (allora impugnata) legge reg. Lazio 16/2002, articolo 2, comma 2, poteva consistere anche nel demansionamento (così ora anche Cassazione, Sezione lavoro, 6326/05) ha ribadito l’esigenza di “salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del, lavoratore (articoli 2 e 3, comma 1, della Costituzione)”; altresì cfr, ora il D.Lgs 216/03, che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 2000178/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Analogamente queste Sezioni Unite (Cassazione, Sezioni Unite, 6572/06) hanno affermato che “il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità”. Altresì queste Sezioni Unite (Cassazione, Sezioni Unite, 12699/98) hanno identificato la ratio della norma in esame nell’eliminazione di situazioni di dequalificazione professionale.
In particolare queste Sezioni Unite (Cassazione, Sezioni Unite, 7755/98) hanno precisato e qui ulteriormente ribadiscono che le mansioni “equivalenti” alle attuali (articolo 2103 cit.) sono quelle oggettivamente comprese nella stessa area professionale e salariale e che, soggettivamente, esse debbono armonizzarsi con la professionalità già acquisita dai lavoratore nel corso del rapporto, impedendone comunque la dequalificazione o la mortificazione.
Quindi, in sintesi, il baricentro della disposizione in esame (articolo 2103 c.c.), nella formulazione introdotta dallo Statuto dei lavoratori (legge 300/70, cit.), è la protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro.
6. La violazione della prescrizione del citato comma 1 dell’articolo 2103 c.c. è sanzionata dalla nullità di ogni regolamento negoziale o clausola con essa confliggente: il comma 2 di tale disposizione prevede infatti che “ogni patto contrario è nullo”. E costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (in passato v. Cassazione, Sezione lavoro, 672/87; fino a 12821/02; e con 20983/04, 18719/04, 12251/03, 7606/03, 6614/03, 1494/03) che la nullità dei patti contrari, comminata dal comma 2 dell’articolo 2103 c.c., riguarda anche il contratto collettivo. Ciò del resto si desume in positivo dal dato normativo testuale dell’articolo 40 della cit. legge 300/70, che fa salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali solo se più favorevoli ai lavoratori, nonché a contrario da altre disposizioni con cui eccezionalmente il legislatore ha autorizzato la contrattazione collettiva ad introdurre una disciplina in deroga al disposto del comma 1 dell’articolo 2103 c.c.; quale l’articolo 4, comma 11, legge 223/91, che stabilisce che “gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire, anche in deroga al comma 2 dell’articolo 2103 del c.c., la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte”.
In ragione della salvaguardia di questo patrimonio di’ professionalità, assicurata dall’art, 2103 c.c., il datore di lavoro non può assegnare al lavoratore mansioni diverse da quelle di assunzione ed, in caso di intervenuta mobilità verticale, diverse dalle ultime espletate che compromettano questa professionalità anche se le mansioni svolte e quelle di nuova assegnazione rientrino in ipotesi nella stessa qualifica contrattuale.
Ha più volte affermato la giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis Cassazione 425/06, 7453/05, 7351/05, 6326/05, 19836/04, 16183/04, 14666/04, 5651/04, 4790/04, 4773/04, 2649/04, 18984/03, 13372/03, 13000/03, 9408/03, 6030/03, 2328/03, 14150/02, 12821/02) che la equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti che legittima lo jus variandi del datore di lavoro deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l’arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto. Ed ha poi precisato la medesima iurisprudenza che il divieto di variazioni in pejus (demansionamento) opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non é sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma é necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze (cfr. in particolare Cassazione, Sezione lavoro, 14150/02, cit., che ha ribadito tale principio proprio con riferimento ad analoga fattispecie di mutamento di mansioni impiegatizie in mansioni di recapito di una dipendente della società P oste Italiane).
Ed ancora, con riferimento al rapporto di lavoro dei dipendenti della società Poste Italiane, Cassazione, Sezione lavoro, 12821/02 cit., superando il precedente contrario orientamento espresso da Cassazione, Sezione lavoro, 10048/01, ha affermato che “la contrattazione collettiva può prevedere una più dettagliata articolazione di qualifiche e stabilire anche un rapporto di equivalenza di mansioni distinte, ma riconducibili alla stessa qualifica”. Ed aggiunge: “il nuovo contratto collettivo può anche prevedere il reinquadramento in una nuova unica qualifica di lavoratori in precedenza inquadrati in qualifiche distinte, con la conseguente parificazione limitatamente a quella disciplina contrattuale (normativa ed economica) riferita alla nuova qualifica. Ma ciò non implica necessariamente anche che insorga un rapporto di equivalenza tra tutte le mansioni rientranti nella qualifica”.
Anche in passato, con riferimento ad una similare fattispecie di reinquadramento o riclassificazione, costituita dall’inquadramento unico di impiegati ed operai, introdotto dalla contrattazione collettiva dell’epoca, questa Corte (Cassazione, Sezione lavoro, 5098/85) ebbe a precisare che “il passaggio da impiegato ad operaio è in astratto configurabile purché non si trasformi in un mutamento peggiorativo”; ed aggiunse: in concreto si tratta soltanto quindi di stabilire se la variazione di mansioni provochi un qualsiasi pregiudizio per il lavoratore, e quindi si traduca in un mutamento in pejus delle mansioni”.
L’inderogabilità della disciplina legale in esame si atteggia pertanto anche a limite per la contrattazione collettiva, sicché l’eventuale accorpamento, da parte della contrattazione collettiva, in un’unica categoria (o qualifica, o area ) di plurime mansioni, anche di diversa professionalità e livello, rende si applicabile alle stesse la medesima disciplina collettiva che a tale categoria (o qualifica, o area ) faccia riferimento (arg. ex articolo 1367 c.c.), ma non è di ostacolo all’operatività della disciplina legale di carattere inderogabile, qual è il comma 1 dell’articolo 2103 c.c., che preclude l’ulteriore previsione di un’indiscriminata fungibilità di mansioni per solo fatto di tale accorpamento convenzionale.
Anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva opera la garanzia dell’articolo 2103 c.c. e pertanto il lavoratore addetto a determinate mansioni (che il datore di lavoro è tenuto a comunicargli ex articolo 96 disp. att. c.c. nell’esercizio del suo potere confermativo delle iniziali mansioni alla qualifica) non può essere assegnato a mansioni nuove e diverse che compromettano la professionalità raggiunta, ancorché rientranti nella medesima qualifica contrattuale.
7. Così segnato il perimetro della prescrizione del comma 1 dell’articolo 2103 c.c. e venendo ora più specificamente alla portata del comma 2, che fa blocco con il primo, deve considerarsi che secondo la ricostruzione della Corte d’appello nella specie le parti sociali, nel rispetto dell’articolo 2103 c.c., dopo aver accorpato certe mansioni nell’area operativa (articolo 43 Ccnl del 1994), hanno dettato una speciale regola della mobilità orizzontale nella c.d. clausola di fungibilità, prevista dall’articolo 46 Ccnl in termini articolati, già sopra ricordati, e comunque condizionatamente alla sussistenza di necessità di servizio”; sicché deve subito disattendersi il rilievo della difesa della ricorrente che deduce essere l’articolo 43 Ccnl cit. in rotta di collisione con l’articolo 2103 c.c. per aver previsto una fungibilità indiscriminata all’interno dell’area operativa: se la fungibilità è specificamente disciplinata dall’art 46, evidentemente la confluenza delle mansioni nell’area operativa dell’articolo 43 vale ad uniformare la disciplina contrattuale delle stesse ciò che le parti sociali possono legittimamente fare mentre la clausola di fungibilità risiede nell’articolo 46 cit..
Ed è in riferimento a tale menzionata clausola di fungibilità che occorre chiedersi se la contrattazione collettiva possa prevedere una qualche flessibilità all’interno della qualifica contrattuale compatibile con la rigidità della garanzia dell’articolo 2103 c.c..
Vengono allora in rilievo le sollecitazioni e gli spunti della citata ordinanza del Collegio rimettente che inducono a svolgere delle puntualizzazioni in chiave di adattabilità della garanzia dell’articolo 2103 c.c. alle esigenze di maggiore flessibilità che derivano dalla sempre più penetrante integrazione dei sistemi produttivi; puntualizzazioni che però si sviluppano pur sempre in linea di continuità con la giurisprudenza di queste Sezioni Unite che, in una prospettiva allora individuale, ha già riconosciuto una fattispecie che si sottrae alla sanzione di nullità del comma 2 dell’articolo 2103 c.c., affermando che “il divieto di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, posto dall’articolo 2103 c.c. nell’interesse esclusivo del medesimo, non opera quando egli chieda o accetti il mutamento in peggio al fine di evitare il licenziamento, comunque giustificato” (Cassazione, Sezioni Unite, 7755/98).
Anche nella prospettiva collettiva può ora ritagliarsi una fattispecie che parimenti si sottrae a tale sanzione di nullità.
Da una parte può e considerarsi che la dimensione individuale della garanzia dell’articolo 2103 c.c. riguarda essenzialmente il rapporto datore di lavoro lavoratore ed è ispirato ad un favor lavoratoris, laddove la dimensione collettiva può vedere, in una prospettiva diversa e più generale, il bilanciamento della sommatoria di tali garanzie individuali con le esigenze dell’impresa.
L’equilibrio che le parti sociali possono trovare può tradursi in una clausola di fungibilità compatibile con l’articolo 2103 c.c.. In altre parole la contrattazione collettiva, nel collocare plurime e diverse mansioni nella stessa qualifica sicché il lavoratore inquadrato in quella qualifica è idoneo, e sa di poter essere chiamato a svolgere, mansioni diverse, in ipotesi anche di livello diverso, può disciplinare un meccanismo di fungibilità tra le mansioni di prima assegnazione e quelle successive che tenga conto delle esigenze aziendali in una necessaria prospettiva di temporaneitá.
È quindi legittima una clausola che per contingenti esigenze aziendali (il riferimento è alle “necessità di servizio” dell’articolo 46 Ccnl cit.) consenta al datore di lavoro l’esercizio dello jus variandi indirizzando il lavoratore verso altre mansioni contrattualmente equivalenti.
Parimenti, sempre considerando la dimensione collettiva, le parti sociali possono farsi carico di un’esigenza “collettiva” di estrinsecazione della professionalità dei lavoratori inquadrati nella medesima qualifica. La dimensione individuale della garanzia dell’articolo 2103 c.c. crea degli steccati che certamente valgono a protezione del lavoratore nei confronti di un indiscriminato jus variandi del datore di lavoro; ma possono rappresentare anche un attrito di resistenza alla progressione professionale della collettività dei lavoratori inquadrati in quella stessa qualifica. Se per rimanere al caso di specie gli impiegati di sportello, pur essendo stati assunti anche per mansioni di recapito, hanno maturato un’esperienza professionale specifica ed intangibile, ben difficilmente i dipendenti con mansioni di recapito, pur essendo stati assunti (al pari dei primi) anche per mansioni di impiegati di sportello, potranno maturare l’esperienza professionale di queste mansioni. Ed allora, se come deve ritenersi rileva non solo quello che il lavoratore fa, ma anche quello che sa fare (ossia la professionalità potenziale), la contrattazione collettiva può legittimamente farsi carico di ciò prevedendo e disciplinando meccanismi di scambio o di avvicendamento o di rotazione (come il menzionato accordo integrativo del 20 marzo 1998) che non violano la garanzia dell’articolo 2103 c.c., ma che con quest’ultima sono compatibili.
Analogamente la contrattazione collettiva può prevedere percorsi formativi per creare questa professionalità potenziale e disciplinare il passaggio del prestatore, allorché tale professionalità abbia acquisito, verso queste nuove mansioni.
In tal modo può portarsi ad ulteriori sviluppi la giurisprudenza sulle mansioni promiscue e vicarie: come la contrattazione collettiva può prevedere che le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza siano costituite dallo svolgimento (promiscuo, appunto) di plurime attività diverse, talune anche con carattere di prevalenza rispetto ad altre (Cassazione, Sezione lavoro, 1987/04; 16461/03), ovvero che le mansioni assegnate comprendano eventualmente anche attività vicarie di diverso livello (Cassazione, Sezione lavoro, 9141/04; 14738/99), analogamente la stessa contrattazione collettiva può introdurre clausole di fungibilità che, verificandosi specifici presupposti di fatto, consentano una mobilità orizzontale tra le mansioni svolte e quelle, pur diverse, rispetto alle quali sussiste un’originaria idoneità del prestatore a svolgerle secondo un criterio di professionalità potenziale per ciò che il lavoratore sa fare, anche se attualmente non fa.
In sintesi, ed in conclusione, va affermato, come principio di diritto, che la contrattazione collettiva se da una parte deve muoversi all’interno, e quindi nel rispetto, della prescrizione posta dal comma 1 dell’articolo 2103 c.c. che fa divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale e quindi pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale è però autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra esse per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del comma 2 della medesima disposizione.
Correttamente quindi la Corte d’appello ha ritenuto la legittimità della “clausola di fungibilità” espressa dall’articolo 46 Ccnl cit., che appunto prevede (anzi prevedeva) l’intercambiabilità delle mansioni, con esclusione delle mansioni tecniche, all’interno della stessa area operativa (e di quella di base) sul verificato presupposto della ricorrenza delle “necessità di servizio”, la cui sussistenza nella specie non risulta contestata, se non in termini assolutamente generici, dalla ricorrente.
Pertanto quanto alla prima questione posta sopra sub 2 devono ritenersi non fondate, per le ragioni finora argomentate, le doglianze della ricorrente che ha dedotto in radice l’illegittimità di tale clausola di fungibilità per violazione dell’articolo 2103 c.c..
8. Né può accogliersi la censura di vizio di motivazione dell’impugnata sentenza (è la seconda questione sopra posta sub 2); vizio che la difesa della ricorrente, dopo aver dedotto in generale la nullità della clausola di fungibilità, denuncia in particolare con una prospettiva calata nel caso di specie sostenendo ulteriormente che le mansioni di recapito non sarebbero equivalenti a quelle di sportello.
Deve infatti considerarsi che è si vero che la clausola di fungibilità prevista dalla contrattazione collettiva, di cui si è appena predicata la piena compatibilità con il disposto dell’articolo 2103 c.c., opera tra mansioni che possono esprimere una diversa professionalità, ma che sono pur sempre equivalenti, ossia come appena precisato riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale. Però deve rilevarsi nella specie che, anche se nella formale intestazione del motivo di ricorso è altresì denunciato il vizio di motivazione, in realtà non è dedotta, se non in termini generici, alcuna intrinseca contraddizione della pronuncia della Corte d’appello; la quale ha operato una valutazione in fatto pervenendo al convincimento che come si legge nella pronuncia impugnata la descrizione delle mansioni di sportello e di recapito contenuta negli scritti difensivi ( … ) rende palese che sul piano dell’autonomia organizzativa ed operativa si tratta di mansioni equivalenti”. Quindi la Corte di Appello, con una motivazione sufficiente seppur sintetica, noti si è sottratta alla verifica in concreto dell’equivalenza delle mansioni secondo un apprezzamento di fatto devoluto al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità ove immune da contraddittorietà o illogicità intrinseche.
Deve infatti ribadirsi (cfr.. ex plurimis Cassazione, Sezione lavoro, 425/06) che, ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, il giudice di merito con giudizio di fatto incensurabile con ricorso per cassazione ove adeguatamente motivato deve valutare la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente.
Del resto la Corte territoriale che ha ritenuto superfluo approfondire l’esame comparativo delle mansioni di sportellista e di addetto al recapito, “essendosi la lavoratrice obbligata con la conclusione del contratto a svolgerle entrambe promiscuamente o in via alternativa” come mansioni di assunzione nella vigenza del Ccnl del 1994 non ha mancato di rilevare che all’assunzione la ricorrente è stata addetta a mansioni di sportello e, dopo alcuni mesi, è stata avviata a un corso di formazione per l’espletamento sia delle mansioni di sportello che delle mansioni di recapito; ed ha poi considerato il successivo percorso formativo della O. (sopra descritto sub 2). Questa sequenza temporale indicata dalla Corte territoriale mostra un processo di progressivo ed iniziale addestramento diretto ad entrambe le mansioni dedotte nel contratto individuale di lavoro sicché l’alternatività delle stesse poteva considerarsi non ancora risolta nell’individuazione delle une piuttosto che delle altre e, in questa situazione contingente e particolare, le mansioni di riferimento per verificare l’osservanza dell’articolo 2103 c.c. erano ancora quelle “iniziali”, ossia quelle alternativamente dedotte nel contratto di lavoro che in astratto il contratto collettivo inquadrava nella stessa area (quella operativa) e di cui in concrete la Corte territoriale pur mediante il solo raffronto della loro descrizione contenuta negli scritti difensivi ha verificato l’equivalenza.
9. Il ricorso va quindi rigettato sotto entrambi i profili (della violazione di legge e del vizio di motivazione) in cui è articolato il suo unico motivo.
Sussistono giustificati motivi tra cui la novità di alcuni profili sopra trattati – per compensare tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese di questo giudizio.