Napoli, dopo abusi in gita 13enne non va a scuola. Le nonne: punite i bulli
Niente scuola per il ragazzo di tredici anni molestato durante una gita scolastica lo scorso aprile. Da quando i compagni-aggressori sono tornati in classe, dopo la sospensione punitiva che li ha tenuti lontano dai banchi della scuola di Posillipo per quindici giorni, lo studente non riesce più a frequentare le lezioni. Ci prova ogni giorno, talvolta appare anche sereno, ma dopo aver messo piede in classe chiede di andar via tra le lacrime.
È accaduto anche ieri mattina, nonostante l’impegno e i molteplici tentativi di trattenerlo da parte delle insegnanti, il ragazzo non ce l’ha fatta ancora una volta e ha chiesto alla mamma di tornare a casa. Da qui la decisione della preside di trasferire, da questa mattina, due dei sette aggressori in un’altra classe, al piano inferiore dell’edificio, così da evitare ogni contatto.
Paura? Nuove provocazioni? Altre offese da parte del gruppo di piccoli bulli che quella notte in Puglia lo molestò in una camera d’albergo? La famiglia della giovane vittima assicura di sì. Le nonne del ragazzino, autrici di una lettera nella quale chiedono alle istituzioni scolastiche «un castigo adeguato» per chi ha sbagliato, parlano di ulteriori «offese, sfottò e velate minacce» nei confronti del nipote, colpevole – secondo i compagni – di aver raccontato tutto ai genitori.
Preside e insegnanti invece non ci stanno e assicurano che da quando questa brutta storia è venuta alla luce l’attenzione nei confronti della classe è massima «e a nessuno sarebbe concesso di continuare a molestare il ragazzo».
Fatto sta che da questa mattina in due cambiano sezione, e uno dei due è lo studente che quella notte, con la complicità dei compagni, si rese protagonista della vicenda; l’altro invece è uno dei suoi migliori amici: «Proviamo così. – dice la preside – Può darsi che, sapendo di non incontrarli più in classe, il ragazzo riesca finalmente a tornare tra i banchi. Perché non ci ho pensato prima? Ci ho pensato eccome, ma il nostro obiettivo era quello di tenerli insieme, volevamo risolvere il problema provando a ricostituire un’armonia di classe. Sparpagliarli, anche d’accordo con gli esperti che ci seguono, non ci sembrava la soluzione più giusta».
Intanto, è quasi un mese che il ragazzo, nonostante il supporto di due psicologhe, salta le lezioni. «Non vuole incontrare i suoi compagni, non riesce più a guardare in faccia gli aggressori – racconta la nonna – è terrorizzato. Piange continuamente. È rimasto letteralmente frastornato da questa storia, per un periodo ha chiesto di dormire da me: voleva stare lontano da tutto e tutti, sperava di dimenticare rapidamente». Invece, no, non ha dimenticato proprio nulla. È passato del tempo dai giorni della gita, ma è come se tutto fosse accaduto ieri, dicono ancora le nonne. Il ragazzino non riesce a dimenticare quella brutta notte quando, dopo essere stato bloccato dai suoi compagni, è stato costretto a subire le «attenzioni» di uno di loro, il più bullo di tutti. Momenti di panico, angoscia e paura. Erano in otto, alloggiavano in due stanze comunicanti.
Hanno cominciato a giocare a «tutti contro tutti», ovvero immobilizzarsi l’uno con l’altro cercando di resistere quanto più tempo possibile. Quasi sempre i ragazzi riescono a liberarsi e, dunque, a tornare in gioco a caccia di un’altra vittima. Così non è stato quando è toccato a lui, il più piccolo del gruppo, particolarmente esile, forse un po’ più fragile degli altri, sia dal punto di vista fisico che psicologico. La giovane vittima non riesce a sottrarsi; gli amici, nonostante le urla, continuano a tenerlo fermo, fino quando uno di loro si abbassa i pantaloni. E quel gesto il ragazzino non riesce ancora a toglierselo dalla testa.