Alle sorgenti del percolato, come alla ricerca delle mitiche fonti del Nilo. Ma qui sono tutt’altri liquidi. Un lago che ribolle come la Solfatara, una puzza che non è quella di mofete solforose, ma è peste che ammorba l’aria.
Cava Riconta, Italia. Italia da dimenticare. Amministrativamente è Villaricca. Villaricca, ma zona B. Come un lato B, dove riversare le scorie immonde del consumo. La monnezza che fermenta, che cambia stato, si fa liquida e penetra nel terreno, uccidendolo, saecula saeculorm.
Qui, il percolato, quattro anni fa assunse dimensioni da Vajont. Poteva franare tutto, giù verso via Ripuaria, la strada più fetente del mondo, affiancata dall’Alveo dei Camaldoli, un cavone che per fortuna in questi giorni è quasi asciutto. Non alluvionò tutto perché si penso di svuotarla e buttare tutto a mare: a Cuma, a Licola, dovunque si potesse.
Ma la monnezza è sempre pericolosamente viva, pressata, si sgonfia e si scioglie. Qui in un’autentica “no man’s land”, accanto a una selva oscura, dove la diritta via è facile smarrirla, appestata da scarichi abusivi, il terreno acquista sfumature malate, un grigio sbiancato che cela pericoli. Peggio di Attila, nella terra delle pesche gialle e delle albicocche profumate, non cresce un filo d’erba. Cava Riconta è chiusa. Esaurita.
Ci sono custodi che si alternano. Uno solo alla volta. Sono lavoratori del Consorzio di Bacino 3. Un solo uomo e tanti cani che cominciano ad abbaiare appena ci si avvicina al cancello. Dietro una rete che circonda uno spiazzo, dove sono parcheggiati dei camion, c’è un mastino napoletano legato a una catena. È Cerbero all’ingresso dei gironi danteschi, dell’inferno in terra.
Dentro è Malebolge, lo Stige fangoso, lo stagno melmoso in cui i dannati devono scontare in eterno la pena. Solo che qui la condanna è in vita. Un liquido spesso di un grigio quasi blu, circondato da schiuma e bollicine bianche, da brecciolino che non riesce a ricoprire la materia fetente. In certi punti il laghetto può scendere pure a una profondità di tre metri…