Non punibili le offese contenute in un esposto al Consiglio dell’ordine
Non costituisce reato accusare un avvocato, in una missiva all’ordine, di fatti deontologicamente e penalmente rilevanti. È questo il principio di diritto estrapolato dalla sentenza n. 28081 depositata il 15 luglio 2011. Secondo la ricostruzione della vicenda che emerge dalla sentenza di legittimità, un avvocato veniva riconosciuto colpevole del reato di diffamazione in danno di un altro avvocato per aver inviato una lettera al Consiglio dell’ordine con la quale criticava la condotta del predetto professionista affermando tra l’altro che sua figlia non aveva mai conferito all’avvocato mandato per redazione di atti di precetto e che, quindi, il predetto aveva evidentemente abusato di fogli firmati in bianco, tenendo, per tanto, un atteggiamento scorretto il profilo deontologico, professionale e giuridico. Nel caso di specie, la Corte, dopo aver esposto i due diversi orientamenti in materia, ha spiegato che la più recente giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere “l’esimente di cui all’art. 598 c.p (non punibilità delle offese contenute in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie e amministrative) applicabile alle offese contenute in un esposto inviato al Consiglio dell’Ordine forense. Infatti, secondo il giudizio della Corte, la procedura instaurata va definita in termini di procedimento in quanto il Consiglio dell’ordine forense esercita poteri sottoposti a successivo controllo giurisdizionale, con la possibilità, pertanto, di applicare l’esimente di cui all’art. 598 c.p. in quanto “il Consiglio dell’Ordine forense, dando corso alla procedura di sua competenza – si legge dalla parte motiva della sentenza – esercita un’attività oggettivamente riconducibile all’esercizio di funzioni pubblicistiche, dal momento che il controllo del corretto esercizio della professione forense corrisponde all’interesse pubblico all’uso corretto, da parte del professionista, del potere riconosciutogli dallo Stato”. Dopo queste premesse, la Corte, ha da ultimo precisato che l’attività posta in essere dall’avvocato che aveva inviato la missiva la Consiglio dell’Ordine deve ritenersi lecita, “ovviamente, anche accusare – specie se lo si fa per far valere un proprio diritto, hanno spiegato gli Ermellini – è lecito, ma occorre che l’accusa abbia fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (anche se erroneamente) convinto di ciò. Ed è essenzialmente per tale motivo che è stato ritenuto (…) non integrare il delitto di diffamazione la segnalazione al competente Consiglio dell’Ordine di comportamenti, deontologicamente scorretti, tenuti da un libero professionista nei rapporti con il cliente enunciante, sempre che gli episodi segnalati siano rispondenti al vero; questo perché il cliente, per mezzo della segnalazione, esercita una legittima tutela dei suoi interessi. La esercita, evidentemente, attraverso il diritto di critica (sub specie di denunzia, esposto ecc.) e dunque con i limiti (sopra ricordati) che segnano il perimetro entro il quale si può censurare l’altrui condotta”.