Occultare fatti significativi può costituire diffamazione
Corte di Cassazione – Sentenza n. 11259/2007 |
Cassazione – Sezione terza civile – sentenza 2 aprile – 16 maggio 2007, n. 11259 Presidente Preden – Relatore Filadoro Pm Uccella – conforme – Ricorrente R. – Controricorrente Gruppo editoriale l’Espresso Spa ed altri Svolgimento del processo Con sentenza 21 marzo – 22 aprile 2003 la Corte d’Appello di Roma confermava la decisione del locale Tribunale dell’8 febbraio 2000 che, aveva rigettato la domanda del dott. Franco R., intesa ad ottenere la condanna al risarcimento dei danni del periodico L’Espresso, del direttore responsabile Claudio R. e della giornalista, Rosanna S. La domanda di risarcimento danni, traeva origine da un articolo pubblicato nel n. 25 del settimanale del 20 giugno 1996, nel quale venivano riportati ampi stralci delle dichiarazioni rese dal pentito G. sul conto di un magistrato inquisito, Filippo V., al sostituto procuratore R. In tale articolo si poneva in risalto che il contenuto di queste dichiarazioni era rimasto praticamente sconosciuto e senza effetto per circa tre anni e si poneva in cattiva luce l’operato del dott. R., sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Napoli. I giudici di appello, così come già il giudice di primo grado, escludevano qualsiasi intento diffamatorio nell’articolo del periodico, individuando nel contenuto dello stesso tutti gli elementi richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte necessari per affermare la piena liceità delle notizie fornite. La Corte territoriale, in particolare, riteneva che non fosse ravvisabile, nella pubblicazione di cui trattasi, alcun elemento valutabile astrattamente come costitutivo del reato di diffamazione a mezzo stampa, sotto il triplice profilo della rilevanza sociale, della veridicità e della forma civile della esposizione. Avverso tale decisione il R. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da un unico motivo. Gli intimati non hanno svolto difese. Motivi della decisione Con l’unico motivo il ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 codice civile. La sentenza impugnata rivela., ad avviso del ricorrente, una insanabile carenza di motivazione sul punto fondamentale dell’accertamento della liceità dell’articolo di cui trattasi. I giudici di appello non avevano evidenziato in alcun modo quali fossero i presupposti di conformità tra il contenuto informativo dell’articolo ed i parametri fissati uniformemente in materia di diritto di cronaca e segnatamente in tema di verità (obiettiva o putativa) della notizia. Osserva il Collegio: La valutazione del superamento dei limiti del diritto di critica e di informazione (costituiti dall’interesse pubblico, dalla rispondenza a verità dei fatti esposti e della continenza formale), con conseguente attribuzione di rilevanza diffamatoria ad espressioni usate in articoli di stampa, si risolve in giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione corretta, congrua e coerente (Cass. 15 febbraio 2006 n. 3284, 18 aprile 2006 n. 3953). L’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca è stato riconosciuto dalla sentenza impugnata in considerazione del diffuso interesse della collettività alla conoscenza delle notizie pubblicate e della rispondenza delle notizie stesse alla verità, almeno putativa. Mentre la prima condizione non forma oggetto del ricorso, lo è invece la seconda. Con riferimento al caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto che le frasi incriminate contenute nell’articolo “Metti Filippo a cena” non potevano di per sé costituire espressione idonea a diffamare, in considerazione delle verità delle circostanze riferite, le cose riferite dalla giornalista (e cioè che le dichiarazioni vennero raccolte dal sostituto R. e che restarono ignote per circa tre anni) sono assolutamente veritiere”. “Del resto nessuno dei termini utilizzati autorizza a ritenere che il verbale fosse rimasto sconosciuto per volontà o comportamento omissivo del magistrato inquirente, per cui la veridicità anche solo putativa della circostanza è confermata, né può avere rilevanza il fatto che nei tre anni trascorsi il verbale in questione fosse stato posto a disposizione di altri magistrati ed avesse portato all’emissione di provvedimenti restrittivi della libertà personale nei confronti del V., in quanto la giornalista non era tenuta ed in effetti in conseguenza del segreto di ufficio non sapeva che nel silenzio generale le indagini avevano fatto notevoli progressi”. Ad avviso del Collegio, le osservazioni formulate dai giudici di appello sono, da un lato, apodittiche e, dall’altro, contraddittorie. I giudici di appello non hanno esaminato se, in ipotesi, l’accostamento del nome del magistrato che per primo ebbe a raccogliere le rivelazioni del pentito G. , alla circostanza che per circa tre anni le indagini in ordine al magistrato Filippo V. non avevano portato ad alcun pratico risultato, potesse far presumere, nel lettore medio, un comportamento colpevole o negligente da parte del dottor R., sostanzialmente accusato di avere verbalizzato e poi dimenticato le accuse dello stesso G. (secondo quanto del resto suggerito nel sottotitolo dell’articolo). Il contenuto del verbale di interrogatorio del pentito viene definito dall’articolista “inquietante” e “finora sconosciuto”, salvo poi sottolineare che il giudice Filippo V. , nonostante le pesanti accuse mossegli dal pentito G., aveva continuato a ricoprire ruoli importanti prima presso il Ministero di Giustizia e poi presso questa Corte per oltre tre anni. Con motivazione apodittica, la Corte territoriale rileva che nessun elemento contenuto nell’articolo era tale da concretare una diffamazione a mezzo stampa, non rinvenendosi in esso un qualsiasi giudizio negativo nei confronti del dott. R.: la giornalista, sottolineano i giudici di appello, non aveva addebitato alcunché al magistrato, limitandosi a riportare dei fatti, la cui verità oggettiva era fuori discussione. Dal complesso dello scritto, rileva ancora la Corte territoriale, non si poteva desumere un giudizio di disvalore nei confronti del dott. R., che aveva raccolto e verbalizzato le dichiarazioni rese dal pentito. L’articolista si era, infatti, limitata a riferire i fatti ed a riportare il nome del magistrato inquirente “senza addebitargli alcunché” e “soprattutto in modo che dal complesso dello scritto non si potesse desumere un giudizio di disvalore nei cuoi confronti” Secondo la giurisprudenza di questa Corte, tuttavia, il giudizio di liceità della cronaca non può limitarsi ad una valutazione degli elementi formali ed estrinseci, ma deve estendersi anche ad un esame dell’uso di espedienti stilistici, che possono trasmettere ai lettori, anche al di là di una formale ed apparente correttezza espositiva, giudizi negativi sulla persona che si mira a mettere in cattiva luce. Ogni accostamento di notizie vere è lecito, se esso non produce un ulteriore significato che le trascenda e che abbia autonoma attitudine lesiva. In questa prospettiva, i giudici di appello hanno inspiegabilmente omesso qualsiasi indagine in ordine al fatto che i primi risultati delle rivelazioni del pentito G. in ordine ai comportamenti del giudice V. avessero portato ad un qualche risultato a distanza di oltre tre anni (accompagnato alla circostanza che le dichiarazioni rese dal G. fossero state prontamente “dimenticate” da chi le aveva raccolte) e che ciò potesse indurre nel lettore la conclusione che il dottor R. si fosse mosso con colpevole inerzia. I giudici di appello hanno posto le omissioni della giornalista in relazione con il segreto istruttorio e con la circostanza che la stessa potesse non essere a conoscenza del fatto che le indagini sui fatti denunciati dal pentito G. erano proseguite nella dovuta segretezza, a seguito dell’invio di copia delle sue dichiarazioni alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Salerno e di Perugia, ad opera del dott. R.. Deve in proposito sottolinearsi che sul giornalista grava l’onere, anche processuale, di dimostrare la bontà del metodo di lavoro usato, la diligenza approntata, la attendibilità delle fonti utilizzate. Nel caso di specie, poi, non poteva in alcun modo prescindersi dalla circostanza che la giornalista scriveva a distanza di circa tre anni dai primi fatti, e su un settimanale di informazione (e non su un quotidiano che doveva dare la notizia degli sviluppi della inchiesta giudiziaria in tempo reale) . Pertanto i giudici di appello avrebbero dovuto affrontare il problema se un articolo di commento e critica di avvenimenti di tale importanza ben potesse comparire anche a distanza di una settimana, dopo avere assunto tutte le necessarie informazioni, senza con ciò venir meno al dovere di informazione, ma anzi ottemperandovi in maniera più adeguata e corretta. Nell’articolo non vi è alcun cenno ad un collegamento o ad una qualche continuità tra l’operato del dott. R. e le iniziative delle due Procure della Repubblica di Salerno e Perugia del 1996 che sono, infatti, rappresentate come del tutto autonome rispetto all’ interrogatorio del G. raccolto dal Sostituto Procuratore di Napoli. Subito dopo, la stessa Corte ha dato – tuttavia atto che altro giornale appartenente allo stesso gruppo editoriale (La Repubblica) aveva divulgato il contenuto del verbale in questione così contraddicendo le precedenti argomentazioni. In tal modo, i giudici di appello non hanno tenuto conto dei principi più volti affermati da questa Corte secondo i quali è legittimo l’esercizio del diritto di cronaca quando sia riportata la verità oggettiva (o anche solo putativa) purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca dei fatti esposti, che non può ritenersi rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. (Cass. 18 ottobre 1984 n. 5259). Sotto tale profilo, appare illogica e contraddittoria rispetto ai principi sopra richiamati, la semplice affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale l’autrice dell’articolo “Metti Filippo a cena” “poteva non aver letto” la notizia pubblicata dal quotidiano “La Repubblica che pure aveva avuto ampia diffusione e che aveva fruttato al suo autore una denuncia penale per violazione del segreto istruttorio. In ogni caso, tale osservazione si pone in aperto contrasto con i principi più volte affermati da questa corte circa la necessità di un serio e diligente lavoro di ricerca della verità dei fatti esposti, sopra richiamati. In base a tali principi, da ritenere oramai consolidati, la verità, almeno putativa, delle notizie pubblicate avrebbe dovuto essere accertata alla stregua di quanto conosciuto o conoscibile dalla giornalista alla data di pubblicazione dell’articolo. Sul punto la sentenza impugnata omette qualsiasi considerazione. Conclusivamente il ricorso deve essere accolto, con rinvio ad altra sezione della stessa Corte di Appello che provvederà a nuovo esame, provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio. PQM La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma anche per le spese del presente giudizio. |