Pensioni più magre e più anni al lavoro, ecco come cambia la previdenza di qui al 2015
Il pianeta-pensioni si appresta a vivere un altro lustro di grandi cambiamenti. Da qui al 2015, il calendario sarà affollato da una serie di appuntamenti che muteranno in profondità il volto della previdenza. Sarà una sorta di riforma permanente: dall’entrata in vigore delle nuove finestre, nel 2011, fino alla prima applicazione del meccanismo per l’aumento dell’età di pensionamento in relazione alla crescita della speranza di vita, nel 2015.
Allungare il periodo di permanenza al lavoro e contenere la spesa sono gli obiettivi di lungo periodo. Per centrare i quali, passo dopo passo, prenderanno corpo le misure introdotte negli ultimi anni e quelle arrivate in questi giorni con la manovra economica, ora all’esame del Parlamento.
Al lavoro più a lungo
L’innalzamento dell’età per la pensione delle donne della pubblica amministrazione rappresenta la misura più recente di questa strategia. Dal 2012, con l’emendamento che verrà recepito nel decreto legge 78, il requisito per la pensione di vecchiaia nella Pa sarà unificato, per maschi e femmine, a 65 anni. Fino al 31 dicembre 2011, alle donne “statali” ne basteranno invece 61. Poi, dall’anno successivo, ci sarà di fatto un blocco di quattro anni delle pensioni di vecchiaia. Nel 2011 potranno lasciare il lavoro le nate nel 1950; poi, ma solo nel 2016, toccherà alle nate nel 1951. Nel frattempo, ma naturalmente anche in futuro, per ottenere la pensione, le donne della Pa dovranno fare i conti con i requisiti per l’anzianità. Va detto, però, che attraverso il canale dell’anzianità le dipendenti pubbliche, se in possesso del requisito dei 35 anni di contributi, nel 2012, con la quota 96 e l’età di 60 anni e dal 2013 in poi con la quota 97 e l’età di 61 anni potranno andare in pensione. In altri termini, restando inalterati i requisiti per le quote, le dipendenti pubbliche possono aggirare l’ostacolo dei 65 anni di età. Per non parlare poi di chi matura i 40 anni di contribuzione che potrà andare tranquillamente in pensione indipendentemente dall’età anagrafica.
Un prolungamento della vita lavorativa giunge anche con le finestre a scorrimento. Il sistema, dal 2011, prevede un unico termine di decorrenza della pensione sia per l’anzianità sia per la vecchiaia: il 13° mese dalla maturazione dei requisiti, per i dipendenti (pubblici e privati, donne incluse); il 19° mese per gli autonomi.
La norma, in effetti, ha lo scopo di uniformare un metodo, le vecchie finestre, che creava disparità di trattamento. Ora tutti i lavoratori sono uguali, ma – nel cambio di regime – qualcuno dovrà attendere più a lungo rispetto al passato per poter effettivamente incassare l’assegno. In ogni caso, la distorsione maggiore riguarda l’attesa per la vecchiaia, che rispetto alle vecchie finestre vede di fatto crescere l’età di pensionamento di 7-9 mesi per i dipendenti e di 10-12 per gli autonomi. Non si potrà più dire che “la pensione arriva a 65 anni”, perché in realtà si lavorerà fino a 66 o 66 e mezzo.
Stessa logica per l’anzianità. Il meccanismo delle “quote” – una determinata somma di età e anni di contributi – non è certo una novità. Ma, inesorabile, il calendario avanza. Dal 1° gennaio prossimo si passa a “quota 96” per i dipendenti (e l’età minima richiesta sale a 60 anni, con 36 anni di contributi) e a “quota 97” per gli autonomi, con età minima di 61 anni. Poi, dal 2013, il gradino finale con l’aumento di un anno sia nelle quote sia nell’età minima.
L’ultima tappa di questo percorso è, in parte, ancora da scrivere. La legge 102 dello scorso anno prevede, a partire dal 2015, l’introduzione di un meccanismo di adeguamento quinquennale dei requisiti anagrafici per accedere al pensionamento in funzione degli incrementi della speranza di vita.
Che cosa succederà non è facile prevedere. La legge stabilisce che in sede di prima applicazione l’aumento dell’età non potrà superare i 3 mesi, sia per la vecchiaia sia per l’anzianità. Successivamente, lo scatto potrebbe essere più ampio, se è vero che, a esempio, tra il 2010 e il 2020 la speranza di vita aumenterà di oltre un anno e mezzo per gli uomini (da 79,1 a 80,7 anni) e di altrettanto per le donne (da 84,6 a 86,2).
Pensioni più magre
A determinare l’assegno è un mix di elementi. Da un lato, il sistema di calcolo della pensione basato sui contributi effettivamente versati, che – via via – interesserà un numero sempre maggiore di lavoratori (gli assunti dal 1° gennaio 1996 senza possesso di contribuzione precedente avranno assegni interamente contributivi). Dall’altro, i coefficienti di trasformazione, cioè quel valore per il quale vanno moltiplicati tutti i contributi rivalutati (montante) del lavoratore per determinare l’importo della pensione. Dal gennaio scorso si applicano i nuovi coefficienti meno favorevoli rispetto a quelli precedenti. E ora è previsto inoltre che la loro revisione avvenga ogni tre anni, per tenere conto delle dinamiche macroeconomiche, demografiche e migratorie. Quindi, nel 2013 ci sarà un nuovo aggiornamento e poi un altro nel 2016.
Questa miscela fa sì che – stima la Ragioneria dello Stato – il tasso di sostituzione della previdenza (ossia il rapporto tra l’ultima retribuzione e la prima rata della sua pensione) sia destinato a ridursi sensibilmente. Oggi l’assegno calcolato con il sistema di calcolo retributivo arriva a coprire l’80-85% netto dell’ultimo stipendio. Nel 2050 – una data non così lontana quando si ragiona di previdenza – non si supererà il 70.
Insomma, al lavoro più a lungo e pensioni un po’ più basse. Meglio farsi trovare preparati.