Perchè il Capo dello Stato non ha firmato il ddl sul lavoro
Il testo integrale del messaggio alle Camere
Il
Presidente della Repubblica non ha firmato il disegno di legge che
prevedeva l’estensione della possibilità di ricorrere all’arbitrato in
tema di lavoro. Riportiamo il testo diffuso dal Quirinale:
Messaggio motivato con il quale il Presidente
Napolitano ha chiesto alle Camere una nuova deliberazione sulla Legge
recante: “Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di
ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi
all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro
pubblico e di controversie di lavoro”.
“Onorevoli Parlamentari,
mi è stata sottoposta, per la promulgazione, la
legge recante: “Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di
ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi
all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro
pubblico e di controversie di lavoro”.
Il provvedimento, che nasce come stralcio di un
disegno di legge collegato alla legge finanziaria 2009 (Camera
n.1441-quater), ha avuto un travagliato iter parlamentare nel corso del
quale il testo, che all’origine constava di 9 articoli e 39 commi e già
interveniva in settori tra loro diversi, si è trasformato in una legge
molto complessa, composta da 50 articoli e 140 commi riferiti alle
materie più disparate.
Questa configurazione marcatamente eterogenea
dell’atto normativo – che risulta, del resto, dallo stesso titolo sopra
riportato – è resa ancora più evidente da una sia pur sintetica e
parziale elencazione delle principali materie oggetto di disciplina:
revisione della normativa in tema di lavori usuranti, riorganizzazione
degli enti vigilati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali
e dal Ministero della salute, regolamentazione della Commissione per la
vigilanza sul doping e la tutela della salute nelle attività sportive,
misure contro il lavoro sommerso, disposizioni riguardanti i medici e
professionisti sanitari extracomunitari, permessi per l’assistenza ai
portatori di handicap, ispezioni nei luoghi di lavoro, indicatori di
situazione economica equivalente, indennizzi per aziende in crisi,
numerosi aspetti della disciplina del pubblico impiego (con
conferimento di varie deleghe o il rinvio a successive disposizioni
legislative), nonché una ampia riforma del codice di procedura civile
per quanto attiene alle disposizioni in materia di conciliazione e
arbitrato nelle controversie individuali di lavoro.
Ho già avuto altre volte occasione di
sottolineare gli effetti negativi di questo modo di legiferare sulla
conoscibilità e comprensibilità delle disposizioni, sulla organicità
del sistema normativo e quindi sulla certezza del diritto; nonché sullo
stesso svolgimento del procedimento legislativo, per la impossibilità
di coinvolgere a pieno titolo nella fase istruttoria tutte le
Commissioni parlamentari competenti per ciascuna delle materie
interessate. Nel caso specifico l’esame referente si è concentrato alla
Camera nella Commissione lavoro e al Senato nelle Commissioni affari
costituzionali e lavoro, mentre, ad esempio, la Commissione giustizia
di entrambi i rami del Parlamento ed anche la Commissione affari
costituzionali della Camera sono intervenute esclusivamente in sede
consultiva e non hanno potuto seguire l’esame in Assemblea nelle forme
consentite dai rispettivi Regolamenti. Tali inconvenienti risultano
ancora più gravi allorché si intervenga, come in questo caso, in modo
novellistico su codici e leggi organiche.
Ciò premesso – con l’auspicio di una attenta
riflessione sul modo in cui procedere nel futuro alla definizione di
provvedimenti legislativi, specialmente se relativi a materie di
particolare rilievo e complessità – sono indotto a chiedere alle Camere
una nuova deliberazione sulla presente legge dalla particolare
problematicità di alcune disposizioni che disciplinano temi di indubbia
delicatezza sul piano sociale, attinenti alla tutela del diritto alla
salute e di altri diritti dei lavoratori: temi sui quali –
nell’esercizio del mio mandato – ho ritenuto di dover richiamare più
volte l’attenzione delle istituzioni, delle parti sociali e
dell’opinione pubblica.
Intendo qui riferirmi specificamente
all’articolo 31 che modifica le disposizioni del codice di procedura
civile in materia di conciliazione ed arbitrato nelle controversie
individuali di lavoro e all’articolo 20 relativo alla responsabilità
per le infezioni da amianto subite dal personale che presta la sua
opera sul naviglio di Stato. Su di essi sottopongo alla vostra
attenzione le considerazioni ed osservazioni che seguono.
1. L’articolo 31, nei primi nove commi, che ne
costituiscono la parte più significativa, modifica in modo rilevante la
sezione prima del capo primo del titolo quarto del libro secondo del
codice di procedura civile, nella parte in cui reca le disposizioni sul
tentativo di conciliazione e sull’arbitrato nelle controversie
individuali di lavoro (artt. da 409 a 412-quater del codice di
procedura civile), introducendo varie modalità di composizione delle
controversie di lavoro alternative al ricorso al giudice. Apporta
inoltre, negli ultimi sette commi, una serie di modifiche al decreto
legislativo 10 settembre 2003, n. 276, dirette a rafforzare le
competenze delle commissioni di certificazione dei contratti di lavoro.
La introduzione nell’ordinamento di strumenti
idonei a prevenire l’insorgere di controversie ed a semplificarne ed
accelerarne le modalità di definizione può risultare certamente
apprezzabile e merita di essere valutata con spirito aperto: ma occorre
verificare attentamente che le relative disposizioni siano pienamente
coerenti con i princìpi della volontarietà dell’arbitrato e della
necessità di assicurare una adeguata tutela del contraente debole.
Entrambi questi princìpi sono stati
costantemente affermati in numerose pronunce dalla Corte
Costituzionale. La Corte infatti ha innanzi tutto dichiarato la
illegittimità costituzionale delle norme che prevedono il ricorso
obbligatorio all’arbitrato, poiché solo la concorde volontà delle parti
può consentire deroghe al fondamentale principio di statualità ed
esclusività della giurisdizione (art. 102, primo comma, della
Costituzione) e al diritto di tutti i cittadini di agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi (artt. 24 e 25
della Costituzione). Inoltre, con riferimento ai rapporti nei quali
sussiste un evidente, marcato squilibrio di potere contrattuale tra le
parti, la Corte ha riconosciuto la necessità di garantire la
“effettiva” volontarietà delle negoziazioni e delle eventuali rinunce,
ancora una volta con speciale riguardo ai rapporti di lavoro ed alla
tutela dei diritti del lavoratore in sede giurisdizionale. Questa linea
giurisprudenziale, ripresa e sviluppata dalla Corte di Cassazione, ha
condotto a far decorrere la prescrizione dei crediti di lavoro nei
rapporti privi della garanzia della stabilità dalla cessazione del
rapporto. Ciò in analogia con quanto previsto dall’art. 2113 del Codice
civile in ordine alla decorrenza del termine per l’impugnazione di
rinunce e transazioni che abbiano avuto ad oggetto diritti del
prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge
e dei contratti collettivi (si vedano le sentenze della Corte
Costituzionale n. 63 del 1966, n. 143 del 1969, n. 174 del 1972, n. 127
del 1977, n. 488 del 1991, nn. 49, 206 e 232 del 1994, nn. 54 e 152 del
1996, n. 381 del 1997, n. 325 del 1998 e n. 221 del 2005).
Sulla base di tali indicazioni, non può non
destare serie perplessità la previsione del comma 9 dell’art. 31,
secondo cui la decisione di devolvere ad arbitri la definizione di
eventuali controversie può essere assunta non solo in costanza di
rapporto allorché insorga la controversia, ma anche nel momento della
stipulazione del contratto, attraverso l’inserimento di apposita
clausola compromissoria: la fase della costituzione del rapporto è
infatti il momento nel quale massima è la condizione di debolezza della
parte che offre la prestazione di lavoro.
Del resto l’esigenza di verificare che la
volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversie sia
“effettiva” risulta dalla stessa formulazione del comma 9, che affida
tale accertamento agli organi di certificazione di cui all’art. 76 del
citato decreto legislativo n. 276 del 2003. Garanzia che peraltro non
appare sufficiente, perché tali organi – anche a prescindere dalle
incertezze sull’ambito dei relativi poteri, che scontano più generali
difficoltà di “acclimatamento” dell’istituto – non potrebbero che
prendere atto della volontà dichiarata dal lavoratore, una volta che
sia stata confermata in una fase che è pur sempre costitutiva del
rapporto e nella quale permane pertanto una ovvia condizione di
debolezza.
Ulteriori motivi di perplessità discendono dalla
circostanza che, ai sensi della nuova formulazione dell’art. 412 del
codice di procedura civile contenuta nel comma 5 dell’art. 31
(disposizione espressamente richiamata dal comma 9 dello stesso
articolo) la clausola compromissoria può ricomprendere anche la
“richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi
generali dell’ordinamento”.
Come è noto, nell’arbitrato di equità la
controversia può essere risolta in deroga alle disposizioni di legge:
si incide in tal modo sulla stessa disciplina sostanziale del rapporto
di lavoro, rendendola estremamente flessibile anche al livello del
rapporto individuale. Né può costituire garanzia sufficiente il
generico richiamo del rispetto dei principi generali dell’ordinamento,
che non appare come tale idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di
diritti indisponibili, al di là di quelli costituzionalmente garantiti;
e comunque un aspetto così delicato non può essere affidato a
contrastanti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, suscettibili
di alimentare contenziosi che la legge si propone invece di evitare.
Perplessità ulteriori suscita la estensione della possibilità di
ricorrere a tale tipo di arbitrato anche in materia di pubblico
impiego: in tal caso è particolarmente evidente la necessità di
chiarire se ed a quali norme si possa derogare senza ledere i princìpi
di buon andamento, trasparenza ed imparzialità dell’azione
amministrativa sanciti dall’art. 97 della Costituzione.
Del resto un arbitrato di equità può svolgere un
ruolo apprezzabile ed utile solo a patto di muoversi all’interno di uno
spazio significativo ma circoscritto in limiti certi e condivisi. In
sostanza l’obiettivo che si intende perseguire è quello di una incisiva
modifica della disciplina sostanziale del rapporto di lavoro, che si è
finora prevalentemente basata su normative inderogabili o comunque
disponibili esclusivamente in sede di contrattazione collettiva. E in
effetti l’esigenza di una maggiore flessibilità risponde a
sollecitazioni da tempo provenienti dal mondo dell’imprenditoria, alle
quali le organizzazioni sindacali hanno mostrato responsabile
attenzione guardando anche alla competitività del sistema produttivo
nel mercato globale. Si tratta pertanto di un intendimento riformatore
certamente percorribile, ma che deve essere esplicitato e precisato,
non potendo essere semplicemente presupposto o affidato in misura
largamente prevalente a meccanismi di conciliazione e risoluzione
equitativa delle controversie, assecondando una discutibile linea di
intervento legislativo – basato sugli istituti processuali piuttosto e
prima che su quelli sostanziali – di cui l’esperienza applicativa
mostra tutti i limiti.
Il problema che si pone è dunque quello di
definire – nelle sedi dovute e in primo luogo nel Parlamento – in modo
puntuale modalità, tempi e limiti che rendano il ricorso all’arbitrato
– nell’ambito del rapporto di lavoro – coerente con la necessità di
garantire l’effettiva volontarietà della clausola compromissoria e una
adeguata tutela dei diritti più rilevanti del lavoratore (da quelli
costituzionalmente garantiti agli altri che si ritengano ugualmente non
negoziabili). Si tratta cioè di procedere ad adeguamenti normativi che
vanno al di là della questione, pur rilevante, delle garanzie
apprestate nei confronti del licenziamento dall’art. 18 dello statuto
dei lavoratori.
A quest’ultimo proposito lo scorso 11 marzo la
maggior parte delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e delle
imprese si è impegnata a definire accordi interconfederali che
escludano l’inserimento nella clausola compromissoria delle
controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro ed il
Ministro del lavoro e delle politiche sociali si è a sua volta
impegnato a conformarsi a tale orientamento negli atti di propria
competenza. Ma pur apprezzando il significato e il valore di tali
impegni, decisivo resta il tema di un attento equilibrio tra
legislazione, contrattazione collettiva e contratto individuale. Solo
il legislatore può e deve stabilire le condizioni perché possa
considerarsi “effettiva” la volontà delle parti di ricorrere
all’arbitrato; e solo esso può e deve stabilire quali siano i diritti
del lavoratore da tutelare con norme imperative di legge e quali
normative invece demandare alla contrattazione collettiva. A
quest’ultima, nei diversi livelli in cui si articola, può inoltre
utilmente affidarsi la chiara individuazione di spazi di
regolamentazione integrativa o in deroga per negoziazioni individuali
adeguatamente assistite così come per la definizione equitativa delle
controversie che insorgano in tali ambiti.
Si avvierebbe in tal modo un processo
concertato, ed insieme ispirato ad un opportuno gradualismo, attraverso
il quale ripristinare quella certezza del diritto che è condizione
essenziale nella disciplina dei rapporti di lavoro per garantire una
efficace tutela del contraente debole e una effettiva riduzione del
contenzioso in un contesto generale di serena evoluzione delle
relazioni sindacali.
Non sembra invece coerente con i princìpi
generali dell’ordinamento e con la stessa impostazione del comma 9 in
esame, che consente di pattuire clausole compromissorie solo ove ciò
sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di
lavoro, il prevedere un intervento suppletivo del Ministro – di cui tra
l’altro non si stabilisce espressamente la natura regolamentare né si
delimitano i contenuti – che dovrebbe consentire comunque, anche in
assenza dei predetti accordi, entro 12 mesi dalla data di entrata in
vigore della legge tale possibilità, stabilendone le modalità di
attuazione e di piena operatività: suscita infatti serie perplessità
una così ampia delegificazione con modalità che non risultano in linea
con le previsioni dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n.
400.
Al di là delle osservazioni fin qui svolte a
proposito dell’articolo 31, è da sottolineare l’opportunità di una
riflessione anche su disposizioni in qualche modo connesse – presenti
negli articoli 30, 32 e 50 – che riguardano gli stessi giudizi in corso
e che oltretutto rischiano, così come sono formulate, di prestarsi a
seri dubbi interpretativi e a potenziali contenziosi.
2. Secondo l’articolo 20 della legge, l’articolo
2, lettera b), della legge 12 febbraio 1955, n. 51, recante delega al
Governo per l’emanazione di norme per l’igiene del lavoro, si
interpreta nel senso che l’applicazione della legge delega è esclusa
non soltanto – come espressamente recita la lettera b) dell’articolo 2
– per “il lavoro a bordo delle navi mercantili e a bordo degli
aeromobili”, ma anche per “il lavoro a bordo del naviglio di Stato,
fatto salvo il diritto del lavoratore al risarcimento del danno
eventualmente subito”.
Dai lavori parlamentari emerge che con detto
articolo 20 si è inteso evitare che alle morti o alle lesioni subite
dal personale imbarcato su navigli militari e cagionate dal contatto
con l’amianto, possano continuare ad applicarsi – come invece sta
accadendo in procedimenti attualmente pendenti davanti ad autorità
giudiziarie – le sanzioni penali stabilite dal DPR 19 marzo 1956, n.
303, che disciplina l’applicazione di tali sanzioni, escludendole
unicamente nei casi di morti o lesioni subite da personale imbarcato su
navi mercantili.
Si ricorda altresì che in materia di tutela
della salute e della sicurezza del lavoro, oggi disciplinata dal
decreto legislativo n. 81 del 2008, sono previste sanzioni per la
inosservanza delle norme in tema di protezione dai rischi per
esposizione ad amianto in tutti i settori di attività, pubblici e
privati, sia pure con i necessari adattamenti, con riguardo in
particolare alle forze armate, peraltro non ancora definiti.
Al di là degli aspetti strettamente di merito,
occorre rilevare innanzitutto che l’articolo 20 in esame non esplicita
alcuno dei possibili significati dell’articolo 2, lettera b), della
legge del 1955 e quindi non interpreta ma apporta a tale disposizione
una evidente modificazione integrativa. La norma incide, inoltre, su
una legge delega che ha già esaurito la sua funzione dopo l’adozione
del DPR attuativo n. 303 del 1956, senza invece intervenire su di esso,
risultando di fatto inapplicabile e priva di effetti.
L’articolo 20 presenta inoltre profili
problematici anche nella parte – in sé largamente condivisibile – che
riguarda la “salvezza” del diritto del lavoratore al risarcimento dei
danni eventualmente subiti. In assenza di disposizioni specifiche – non
rinvenibili nella legge – che pongano a carico dello Stato un obbligo
di indennizzo, il risarcimento del danno ingiusto è possibile
esclusivamente in presenza di un “fatto doloso o colposo” addebitabile
a un soggetto individuato (art. 2043 del codice civile). Qualora la
efficacia della norma generatrice di responsabilità sia fatta cessare,
con la conseguente non punibilità delle lesioni o delle morti cagionate
su navigli di Stato, non è infatti più possibile individuare il
soggetto giuridicamente obbligato e configurare ipotesi di “dolo o
colpa” nella determinazione del danno.
Per conseguire in modo da un lato tecnicamente
corretto ed efficace, e dall’altro non esposto a possibili censure di
illegittimità costituzionale, le finalità che la disposizione in esame
si propone, appare quindi necessario escludere la responsabilità penale
attualmente prevista per i soggetti responsabili di alcune categorie di
navigli, in linea del resto con gli adattamenti previsti dal citato
testo unico n. 81 del 2008, e prevedere, come già accade per altre
infermità conseguenti ad attività di servizio, un autonomo titolo per
la corresponsione di indennizzi per i danni arrecati alla salute dei
lavoratori.
Per i motivi innanzi illustrati, chiedo alle
Camere – a norma dell’articolo 74, primo comma, della Costituzione –
una nuova deliberazione in ordine alla legge a me trasmessa il 3 marzo
2010″.