Pretesa di denaro dai genitori con maltrattamenti e lesioni, è tentata estorsione Cassazione penale , sez. VI, sentenza 19.04.2010 n° 14914
Si configura la fattispecie della tentata estorsione in danno dei
genitori qualora il figlio chieda loro del denaro con il ricorso a
maltrattamenti e a lesioni, ovvero “in assenza di condizioni legittimanti la pretesa consegna” della suddetta somma.
È
quanto ha recentemente statuito la Corte di Cassazione con la sentenza
19 aprile 2010, n. 14914 con la quale i Giudici di legittimità hanno
negato la sussistenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie
ragioni di cui all’art. 393 c.p., ritenendo, di converso, ravvisabile
quello ex art. 630 c.p..
Nel caso de quo,
il soggetto ricorre in Cassazione avverso la sentenza della Corte
d’Appello con la quale era stato condannato per i reati di tentata
estorsione, maltrattamenti in famiglia e lesioni in danno della madre,
ritenendo legittima la sua condotta considerato che, all’epoca dei
fatti, privo di lavoro, aveva diritto, per il grado di parentela, ad
ottenere un contributo da parte dei genitori.
Tuttavia,
il Supremo Collegio, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso,
ritiene corretta la qualificazione giuridica del reato ex art. 629 c.p..
I
giudici di legittimità, .ur ammettendo che i genitori debbano
sottostare alle disposizioni di cui agli artt. 147 e 148 c.c., per
quanto concerne il mantenimento dei figli, sino a quando questi ultimi
non abbiano raggiunto una sostanziale indipendenza economica –
indipendentemente o meno dalla maggiore età – ritengono che nel caso di
specie la richiesta di denaro sia avvenuta con “modalità violente” accertate; inoltre, “non risulta affatto la prova che le somme fossero destinate al mantenimento dell’imputato”.
Quindi non vi è prova circa la corrispondenza causale tra la richiesta
di denaro e l’esercizio di un diritto dell’imputato quale il
mantenimento per mezzo dell’ausilio dei genitori.
Secondo la Corte di Cassazione, quindi, il “difetto di tale essenziale connotazione causale dell’agire del ricorrente” non può che far propendere per “l’azione esecutiva e la soggettività del delitto di estorsione”.
Delitto di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni: brevi spunti di riflessione
Un
aspetto particolarmente interessante del delitto di cui all’art. 629
c.p. consiste nel suo rapporto con l’altro delitto preso in
considerazione dalla sentenza in commento, ovvero l’esercizio
arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone.
Da
sempre la giurisprudenza si è preoccupata di individuare gli elementi
differenziali di queste due fattispecie, opinando, in maniera oramai
consolidata, per un criterio di carattere soggettivo.
Invero,
merita accoglimento l’impostazione ermeneutica che distingue i due
reati sotto il profilo dell’elemento soggettivo, che per l’estorsione
si configura nel fine di conseguire un profitto, nella consapevolezza
di non averne alcun diritto o titolo; nel secondo si ha la ragionevole
opinione – pur errata – della sussistenza di esso.
Orbene, si configurerà correttamente l’ipotesi punitiva di cui all’art. 393 c.p. ove il soggetto agisca nella “convinzione ragionevole della legittimità delle propria pretesa”, nonché “che quanto egli vuole gli compete” (V., ex multis,
Cass., Sez. II, 15.06.04, n. 26887). Pertanto, ciò che rileva ai fini
discretivi, non è tanto la condotta materiale posta in essere – che può
essere addirittura identica nei due casi – quanto l’elemento
intenzionale che solo nella estorsione è caratterizzato dalla
consapevolezza che quanto il reo pretenda non gli è in alcun modo
dovuto.
Tuttavia, accanto a questo filone
interpretativo, si può rinvenire un costante orientamento
giurisprudenziale – cui sembra conformarsi la sentenza in esame –
secondo il quale la finalità estorsiva della condotta posta in essere
potrebbe di per sé rinvenirsi nella stessa modalità costrittiva.
Aderendo a tale impostazione, quindi, si sostiene che se la minaccia o
la violenza si manifestano in forme di tale forza intimidatoria da
andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio
preteso diritto, allora la coartazione non può che integrare i
caratteri dell’ingiustizia e l’ipotesi concreta quelli dell’art. 629
c.p. (V., tra le altre, Cass., Sez. II, 10.12.04, n. 47972).
Ciò
trova conferma nella circostanza che, secondo costanti interventi della
Suprema Corte, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie
ragioni, la condotta violenta o minacciosa deve essere proporzionale e
strettamente connessa con la pretesa di un diritto; agendo diversamente
si avrebbe, infatti, un utilizzo gratuito ed, appunto, sproporzionato
della forza, tale da imporre un annullamento o una limitazione della
capacità di autodeterminazione della volontà del soggetto passivo
(Cass., Sez. II, 26.09.07, n. 35610).
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 19 aprile 2010, n. 14194
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione sesta penale
composta da:
Giovanni de Roberto Presidente
Saverio Felice Mannino Consigliere
Luigi Lanza Consigliere relatore
Domenico Carcano Consigliere
Carlo Citterio Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
decidendo
sul ricorso proposto da ****, avverso la sentenza 22 aprite 2009 della
Corte di appello di Napoli che, in parziale riforma della sentenza 29
settembre 2008 del G.U.P. del Tribunale di Napoli, previo
riconoscimento dell’attenuante ex art. 62 n.4 C.P. -dichiarata
equivalente alla contestata recidiva- ha condannato il ricorrente alla
pena di anni 2 e mesi 4 di reclusione.
Visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso.
Udita la relazione fatta dal Consigliere Luigi Lanza.
Sentito
il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale
Eugenio Selvaggi che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorso.
CONSIDERATO IN FATTO E RITENUTO IN DIRITTO
ricorre,
a mezzo del suo difensore, contro la sentenza 22 aprile 2009 delia
Corte di appello di Napoli, la quale, in parziale riforma della
sentenza 29 settembre 2008 del G.U.P. del Tribunale di Napoli, previo
riconoscimento dell’attenuante ex art, 62 n.6 GP. -dichiarata
equivalente alla contestata recidiva- lo ha condannato alla pena di
anni 2 e mesi 4 di reclusione per i reati, unificati ex art. 81
capoverso C.P., di tentata estorsione, maltrattamenti in famiglia e
lesioni in danno della madre,
I giudici di merito hanno ritenuto la sussistenza del tre delitti, ritenendo:
a) attendibili e reciprocamente riscontrate le convergenti dichiarazioni del genitori dell’accusato,
b)
indiscutibile l’entità e la causa delle lesioni, certificate
nell’immediatezza di uno dei fatti violenti, posti in essere dal figlio
nei confronti della madre;
c) corretta della qualificazione
giuridica del fatto di tentata estorsione di cui al capo -A
dell’imputazione, in assenza di condizioni legittimanti la pretesa
consegna di una somma di denaro.
Con un unico motivo di impugnazione la ricorrente difesa deduce vizio di motivazione sotto due distinti profili:
1) sul punto della mancata verifica di attendibilità intrinseca ed estrinseca dei genitori;
2)
sulla affermazione della “non legittimità della pretesa dei figlio” di
ricevere da denaro dai genitori, considerato che egli all’epoca era
privo di lavoro e, per lo stretto legame di parentela, aveva titolo per
ottenere un contributo da parte dei genitori stessi.
Il motivo
per la parte sub a) è inammissibile posto che, sotto il profilo di una
pretesa inadeguatezza motivazionale, esso finisce con proporre una
ricostruzione alternativa dei fatti, esclusa -senza vizi- nella
giustificazione a supporto che è stata offerta in modo integrato e
sintonico dai giudici di merito, i quali hanno rigorosamente ed
ampiamente soppesato l’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle
conformi dichiarazioni dei genitori dell’imputato.
Invero, per
pacifica giurisprudenza, gli aspetti del giudizio, che consistono nella
valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi
acquisiti, attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel
giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso
giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e che, pertanto,
restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano
nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del
risultato probatorio (Cass. pen. sez. V, 8094/2007 Rv.236540, ****).
Quanto al secondo profilo di doglianza, pur essendo pacifico il principio che l’obbligo dei genitori di concorrere al
mantenimento
dei figli, secondo le regole degli artt. 147 e 148 cod. civ., non
cessa, “ipso facto”, con il raggiungimento della maggiore età da parte
di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato
alla declaratoria della cessazione dell’obbligo non dia la prova che il
figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che fi mancato
svolgimento di un’attività economica dipende da un atteggiamento di
inerzia di
rifiuto ingiustificato delio stesso (Cass. Civ. Sez. 1, 23673/2006 Rv. 592717, ****), va nella specie rilevato come
non
risulti affatto la prova che le somme, chieste con le modalità violente
che risultano accertate fossero destinate. al “mantenimento”
dell’imputato.
Ne consegue che, in difetto di tale essenziale
connotazione causale dell’agire del ricorrente, si è nella specie
verificata fazione esecutiva e fa soggettività del delitto di
estorsione e non la minore fattispecie criminosa disciplinata dall’art.
393 C.P..
Il ricorso pertanto, nella verificata palese
infondatezza delle critiche, formulate alla gravata sentenza, va
dichiarato inammissibile con condanna dell’imputato al pagamento delle
spese processuali e della somma di €. mille in favore della Cassa delle
ammende.
P.Q.M.
dichiara
inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di €. 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma il giorno 25 marzo 2010.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA OGGI 19 APRILE 2010.