Privatizzazione dell’acqua: servono garanzie
Privati sì, privati no: non è questo il vero problema. Però è sbagliato imporre per legge una quota minima del 40% dei privati nella gestione dell’acqua. Quale futuro per equità delle tariffe e qualità del servizio?
Tema di grande importanza
Centinaia di migliaia di firme in poche settimane. Significa molto questo successo dei comitati impegnati nella raccolta di firme per promuovere il referendum contro la privatizzazione dell’acqua. Significa non solo – e lo sapevamo – che l’acqua non è una merce come tutte le altre e che quando si toccano le risorse idriche gli italiani sono pronti alla mobilitazione. Significa soprattutto che il tema dell’acqua nei prossimi mesi è destinato ad entrare con prepotenza nell’agenda politica del governo e del parlamento. E questo è un bene, perché l’ormai famigerata legge Ronchi tutto fa tranne che affrontare seriamente i problemi: il cattivo stato degli acquedotti, l’inefficienza della rete (un colabrodo che perde il 37% di acqua), l’erogazione a singhiozzo al Sud, la necessità di investimenti e di modernizzazione.
Cosa prevede la legge
È necessaria una riforma complessiva della materia, che affronti i nodi strutturali. Invece la legge Ronchi, in maniera sbrigativa e sommaria, ha ridotto tutta la questione a un paragrafo di un decreto che contiene di tutto un po’, imponendo che i privati abbiano una quota minima del 40% nelle società che gestiranno il servizio idrico. Ma nulla impedisce che possa essere del 100%, quindi interamente private. Quando tutto questo avverrà? Entro il 31 dicembre di quest’anno, visto che in questa data decadono tutte le concessioni relative al servizio idrico rilasciate senza aver fatto alcuna gara d’appalto pubblico.
Pubblico o privato?
Non si può ridurre tutto alla domanda privati sì, privati no. Così come è sbagliato imporre una quota di partecipazione dei privati nelle società di gestione, dal momento che esistono realtà in cui il pubblico funziona benissimo: lo dimostrano i dati della nostra inchiesta in 35 città italiane. E comunque, l’acqua e la rete resteranno di proprietà pubblica, solo la gestione sarà privata. A queste condizioni gli “erogatori” avranno interesse a fare investimenti su strutture non di loro proprietà? Il dubbio è lecito. Di sicuro avranno interesse a vendere l’acqua con profitto, chiedendo ritocchi alle tariffe. Sono appunto le tariffe il vero punto critico. Gli indizi di oggi non fanno sperare nulla di buono: dove l’acqua è già gestita da privati, le bollette sono sempre più care, nel caso di Arezzo lo sono quattro volte di più rispetto a quelle delle città più economiche. Quindi al di là dei pregiudizi e delle ideologie, che necessariamente si concentrano intorno a un dibattito che si fonda sulla dicotomia pubblico-privato, l’importante per i cittadini è che rimangano chiari il sistema di valori legati all’acqua e il senso della missione del servizio. Bisogna evitare la gestione dell’acqua diventi terreno di caccia di speculazioni o di potere.
L’importanza di un’autorità di garanzia
È per evitare questo che servono regole e garanzie, sulle quali deve essere chiamata a vigilare un’Autorità di controllo indipendente a livello nazionale. Poco importa chi sia a gestire l’acquedotto. L’Autorità svolgerebbe un ruolo fondamentale nel definire e monitorare le tariffe applicate e la loro congruità rispetto agli investimenti fatti e alla qualità offerta, come fanno oggi gli enti di vigilanza territoriale (Ato). Tanto più in un servizio che sarà in regime di totale monopolio a livello locale, dove nemmeno giocherà la concorrenza come per altri servizi essenziali liberalizzati, come per esempio le comunicazioni, la luce e il gas. In questi i rischi reali – e le valenze vitali e simboliche – sono minori, ma un garante è stato previsto fin dall’inizio. L’acqua invece la si privatizza, senza rafforzare le garanzie.