problemi per il capo che danneggia i dipendenti, ora devono essere risarciti come stabilisce la cassazione
di NOI Consumatori · 25 marzo 2009
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Tempi duri per i «capi». Si rischia una condanna per mobbing e un risarcimento a rimproverare continuamente un dipendente sul posto di lavoro. A suon di sentenze, la Cassazione mette ordine negli uffici: a cadere sotto la «penna» degli «ermellini», questa volta, è dunque il dirigente arrogante che facendosi forte del proprio ruolo di superiore fa oggetto di continui rimproveri, con toni pesanti, e davanti ad altre persone, un suo dipendente. La sentenza n. 6907 della Sezione lavoro della Suprema Corte ha confermato infatti la condanna per mobbing di un’azienda milanese perché una sua dirigente aveva vessato per mesi una dipendente, Anna D., cui dopo una serie di sanzioni disciplinari era arrivato il licenziamento. La storia di Anna inizia nel 1987 quando la donna viene assunta come centralinista alla Ivm srl per poi passare alla gestione dei cartellini e alla elaborazione delle agende dell’azienda. Poi dal gennaio ’99 fino al settembre dello stesso anno la responsabile dell’azienda comincia a prenderla di mira, consigliandole di trovarsi un nuovo impiego perché la società non è più soddisfatta del suo lavoro. Arrivano le tre contestazioni e poi, infine, il licenziamento dopo 12 anni di lavoro. La lavoratrice, però, non ci sta e cita l’azienda per mobbing, riportando i continui rimproveri e il clima vessatorio a cui è stata sottoposta per mesi. Il giudice di primo grado e poi la Corte di appello di Milano le riconoscono un danno biologico del 6% condannando l’azienda al risarcimento per 9.500 euro ritenendo «eccessivi» sia i provvedimenti disciplinari sia il licenziamento. I giudici d’Appello sottolineano come il «clima aziendale nei confronti della signora Anna fosse stato pesante, dato che i rimproveri orali da parte dei superiori venivano effettuati adottando toni pesanti ed in modo tale che potessero essere uditi dagli altri colleghi di lavoro». Inutilmente l’azienda ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo che Anna era stata licenziata perché «aveva eseguito con negligenza le prestazioni che le erano affidate». La Suprema Corte ha respinto il ricorso sottolineando che «la società pretende di sovrapporre la propria valutazione a quella legittima della Corte d’Appello» che aveva ravvisato vessazioni, da parte della società nei confronti della dipendente, come tali risarcibili per danni da mobbing. Per effetto del rigetto del ricorso l’azienda è stata inoltre condannata al pagamento delle spese processuali e a 3mila euro per onorari vari. La Cassazione ha confermato in toto la condanna ritenendo la sentenza «ampia, precisa, puntuale e del tutto logica e convincente». Secondo i supremi giudici, «la sentenza impugnata aveva dimostrato come le sanzioni fossero illegittime e irrogate, in realtà «per ragioni strumentali ed in maniera sostanzialmente pretestuosa amplificando l’importanza attribuita a fatti di modesta rilevanza». |
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