Promesse non mantenute del datore salvano il posto del lavoratore ingiurioso
In alcuni casi le ingiurie del lavoratore, pur travalicando i confini
del diritto di critica, in base alle circostanze nelle quali vengono
proferite non necessariamente incrinano in maniera irreparabile il
rapporto fiduciario, rendendo quindi il recesso per giusta
causa sproporzionato in relazione all’accaduto.
E’ quanto ha stabilito la sezione lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza 2 ottobre 2012, n. 16752 .
Nel caso di specie, la Corte
di appello di Firenze confermava la sentenza di primo grado con la
quale era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento per giusta
causa intimato alla lavoratrice che era stata licenziata per aver
essersi rivolta con espressioni ingiuriose al responsabile
dell’organizzazione servizi della società datrice di lavoro.
La Corte
territoriale riportava in sentenza le dette espressioni oggetto di
contestazione e poste a fondamento del recesso ed osservava che la
gravità dei fatti doveva essere ridimensionata alla luce di quattro
considerazioni. In primo luogo alla lavoratrice era stato promesso che
non sarebbe stata trasferita, il che invece non era accaduto; la frase
quindi costituiva una reazione abnorme ed ingiustificata, ma rifletteva
dal punto di vista soggettivo la convinzione di aver subito un torto e
quindi un senso di spontaneo risentimento; la lavoratrice aveva
lealmente ammesso l’accaduto ed aveva evidenziato la propria particolare
condizione psicologica; la frase contestata esprimeva più un senso di
delusione (sia pure espresso in forma offensiva) per la gestione della
datrice di lavoro che un vero e proprio dissenso; infine si trattava di
una dipendente di vecchia data e non sussistevano precedenti
disciplinari di sorta. Pertanto la sanzione irrogata appariva
sproporzionata rispetto alla gravità dei fatti contestati.
Ha proposto ricorso per cassazione la società datrice di lavoro, sostenendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2119 c.c.
e degli artt. 212 e 221 del C.C.N.L. Commercio applicabile al rapporto.
La espressioni pacificamente pronunciate dal l’intimata erano
certamente idonee ad incrinare il rapporto fiduciario tra le parti e del
tutto illogico appare il ragionamento seguito dalla Corte territoriale
che ne ha attenuato il significato offensivo in relazione a presunti
torti subiti dalla lavoratrice. I Giudici di appello avrebbero dovuto
limitarsi ad esaminare i fatti contestati e non estendere l’oggetto di
indagine a presunte percezioni soggettive da parte della lavoratrice di
eventi estranei alla vicenda disciplinare. Non erano state applicate le
specifiche disposizioni di cui agli artt. 212 e 221 C.C.N.L..
La lavoratrice, secondo la tesi di parte ricorrente, aveva contestato
il potere gerarchico e disciplinare del datore di lavoro con frasi
offensive ed oltraggiose dal significato inequivoco.
La Suprema Corte nella sentenza n. 16752/2012 ha ritenuto infondato il ricorso in quanto «la Corte
territoriale ha già osservato che il comportamento tenuto dalla
intimata non appare in alcun modo giustificabile e non costituisce,
anche per il carattere obiettivamente offensivo delle espressioni
utilizzate, un legittimo esercizio del diritto di critica; tuttavia alla
luce di alcune valutazioni del contesto in cui le espressioni sono
state usate ed anche del loro effettivo contenuto, ha ritenuto che il
fatto non fosse di tale gravità da comportare l’adozione di una sanzione
così grave come quella del recesso per giusta causa». Gli elementi
attentamente ed analiticamente considerati dalla Corte territoriale
appaiono idonei a giustificare il giudizio emesso dalla Corte stessa in
ordine alla sproporzione tra fatti contestai ed accertati e sanzione
irrogata.
Per gli ermellini, il fatto che fosse stato promesso alla lavoratrice
di non essere trasferita può obiettivamente e logicamente comportare sul
piano soggettivo una attenuazione della gravità del comportamento
tenuto che appare in effetti come una reazione eccessiva ed abnorme (ed
anche istintiva) rispetto a promesse di parte datoriale non mantenute.
Anche la mancanza di precedenti disciplinari in un rapporto di lavoro
di lungo corso è pacificamente elemento che può ed anzi deve essere
considerato sotto il profilo dell’adeguatezza della sanzione. Infine la Corte
di merito ha valutato il contenuto delle frase riportata in sentenza
più come una manifestazione di delusione (anche di ordine politico) che
di dissenso rispetto all’organizzazione aziendale (e quindi di implicita
negazione dei poteri del datore di lavoro), interpretazione che appare
del tutto logica e condivisibile in quanto dalla frase contestata emerge
soprattutto una delusione verso la sinistra e le organizzazioni ad esse
collegate e la volontà di non votare più tale schieramento politico.
Pertanto la ricostruzione dei fatti addebitati e la valutazione della
loro gravità appare sorretta da argomentazioni razionali e
condivisibili.